mercoledì 31 maggio 2006

Veleno

Avvertenza: questo post ha un intento esclusivamente diffamatorio. Gli episodi citati pur essendo in larghissima parte assodati e conosciuti da noi stessi siciliani rappresentano voces populi non dimostrabili in una eventuale sede legale. Sono bravi, bisogna ammetterlo.


Stavolta non sarò super partes. Non mi sforzerò nemmeno di essere obiettivo. Stavolta ho solo voglia di vomitare addosso contumelie ed infamia, accuse e verità sottaciute agli indegni nostri neo-eletti alla regione Sicilia… Sapevo che la Borsellino non avrebbe vinto. Una persona limpida ed onesta, una persona senza compromessi, una persona che ha vissuto sulla propria pelle la vigliaccheria di un attentato che le ha strappato un fratello altrettanto limpido ed onesto. Una persona simile non poteva vincere le elezioni in una terra maledetta in cui la mafia travestita da legalità e il voto di scambio mascherato da consenso popolare dominano le nostre menti. Menti intorpidite ed assuefatte all’illegalità diffusa, uomini e donne che confermano un individuo accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, un uomo che ha continuato il processo di distruzione e di annientamento della nostra terra con un programma fatuo ed aleatorio che premiava e che continuerà a premiare gli amici e gli amici degli amici (nonché qualche sua azienda), un uomo che non ha fatto nulla per far crescere la cultura della legalità in Sicilia se non sperperare i soldi del fondo Carlo Alberto dalla Chiesa con manifesti inutili ed insultanti l’intelligenza dei cittadini siciliani (“la mafia fa schifo”: oh, adesso sì che i mafiosi righeranno dritto!).

Un uomo che non si dimetterà nel caso in cui la legge italiana lo condannerà per associazione semplice.

Forza Italia, ex-Udc, ex-Dc il loro Cuffaro: tutti partiti con cui la mafia ha avuto ed ha ancora di che spartire. Inutile adesso negare l’evidenza, inutile negare che il 95% dei politici siciliani indagati per illeciti e connivenze di vario tipo sia di destra. Perché? Non mi spingerò a dire che la destra siciliana sia il naturale prolungamento della criminalità organizzata perché mi rendo conto che i mascalzoni e i criminali si trovano in ambedue gli schieramenti senza alcuna differenza di colore: alla mafia interessa solo il potere politico e il controllo di ogni attività redditizia ed è perciò conseguente che cerchi alleati tra gli imprenditori e che chieda aiuto e scambi gentili favori con i partiti di massa (Udc) o con i partiti tradizionalmente legati al mondo dell’imprenditoria (Forza Italia). Certo può accadere che la causa si confonda con l’effetto e cioè che certa mentalità attecchisca con più facilità in un partito piuttosto che in un altro, ma credetemi, i mafiosi cercherebbero alleati anche tra i Nuclei d’Azione Proletaria qualora essi risultassero il partito espressione della volontà dei siciliani.

Ecco dunque creato il tipico circolo vizioso del colluso che arriva al potere: mettiamo da parte le persone oneste – imprenditori compresi – che entrano in politica e rivolgiamo il nostro interesse ai farabutti. Prendiamo un imprenditore che si arricchisce non solo grazie alle competenze e alla capacità manageriale ma anche grazie a certi amici che gli spianano la strada – siano essi criminali che mettono a tacere la concorrenza siano essi politici che lo favoriscono turbando le aste e concedendogli appalti pubblici con i quali, una volta fatta la cresta alle spese, guadagneranno entrambi. L’imprenditore diventa potente e si rende conto che per crescere ancora in potenza deve poter manovrare direttamente i fili che reggono la vita associata: non potendo prendere il potere con la forza decide di entrare in politica. Per essere eletto necessita del favore popolare. Questo potrà essere guadagnato sia attraverso la fiducia di persone oneste realmente convinte del programma presentato, sia attraverso i clientes del politico che lo ha protetto fino ad allora e del quale diventa delfino, sia attraverso prodigalità e supposte filantropie sbandierate a tutto campo dai media di famiglia – sempre qualcosa si trova tra giornali, radio, televisioni e agenzie pubblicitarie –, sia attraverso il voto di scambio propriamente detto, sia attraverso minacce di licenziamento e oscure ritorsioni – è successo anche questo, che credete. Ecco il favore popolare, ecco il vanto dell’Occidente, ecco la democrazia.

Con Cuffaro ha vinto ancora una volta la Sicilia gattopardesca, la Sicilia della zona grigia, la Sicilia del compromesso, la cara vecchia sonnacchiosa muffita Sicilia convinta di essere troppo perfetta per riuscire a cambiare. Di quelli scintillanti fuori e marci dentro… They are coming to teach us good manners but won’t succeed, because we are gods”. Abbiamo avuto la possibilità di votare per un simbolo, per il simbolo del cambiamento, e l’abbiamo persa. Qualcuno potrebbe dirmi che dietro alla Borsellino stavano persone avide di potere come Leoluca Orlando o come Carlo Fava (detto anche “i meriti dei padri non ricadano sui figli”) ma anche quando ciò risultasse vero non si può dire che un Orlando o un Fava non si siano spesi in favore dei siciliani. Pur non riuscendoci.

Sono tuttora disgustato da una simile campagna elettorale. Sono disgustato dei candidati della mia provincia. A petto del margheritino Ammatuna che ha meritatamente ottenuto la carica di deputato all’Ars (sindaco di Pozzallo, una città che grazie a lui è cresciuta ritrovando la fiducia in se stessa e la speranza in un futuro), stanno i litigi ringhiosi di tutti gli altri. Farò una breve carrellata, precisando che in provincia di Ragusa la mafia non sembra essersi ancora impadronita delle elezioni. Tranquilli però, il malcostume politico e il voto di scambio prosperano come non mai.

Partiamo da Innocenzo Leontini (FI), riconfermato dopo una legislatura trascorsa all’Assessorato all’agricoltura. Sembra si sia mosso bene nel proprio campo dando risonanza ai problemi degli agricoltori iblei ed ancor più ispicesi (Ispica, la sua città d’origine), ma non si fa campagna elettorale atipica istituendo ad hoc, ad un mese dalle elezioni, “La sagra della carota” in quel di Ispica, soprattutto non con i soldi dell’Assessorato all’agricoltura, quindi con i soldi miei e di tutti i siciliani. Ricordiamo inoltre la violentissima lotta intestina nelle fila di Forza Italia per la leadership provinciale: Leontini vittorioso da una parte, Gianni Mauro e Riccardo Minardo che sostenavano il di lui nipotino Nino trombato clamorosamente (beh, undicimila e passa voti non sono proprio una sconfitta…). Nino Minardo, nipote ventottenne di Riccardo e figlio di Rosario, esponenti di un impero finanziario, politico e mediatico che comprende Giap, Tamoil, VideoRegione, partecipazioni in aziende, locali notturni, strutture alberghiere, giornali, televisioni e chi più ne ha più ne metta. Nino Minardo, il cui sorrisetto troneggiava sicuro dai pannelli pubblicitari 6x3, dalle bacheche dei distributori Tamoil improvvisamente diventati impropri strumenti di propaganda politica, dai volantini buttati a chili ovunque e che i suoi leccapiedi non disinteressati distribuivano pregando di votare per Ninuzzo. Non si contano le cene elettorali con centinaia di invitati, le violazioni continue della par condicio da parte dei media di famiglia – solo io la devo rispettare nella mia misera oretta settimanale –, le promesse di vario genere, le prodighe regalie – buoni benzina innanzi tutto – pratiche usuali dello zio passate al nipotino, pratiche di cui tutti i modicani sono a conoscenza ma che non sembrano ormai indignarli più.

Ricordiamo anche Concetta Vindigni (Udc), presidente fino a qualche mese fa della Multiservizi, strana società mista di proprietà per il 51% del comune di Modica: società privata e pubblica allo stesso tempo che possiede un presidente di nomina politica e che può assumere tramite curriculum e non secondo concorso o graduatoria… Se fossi malpensante potrei dire che la Multiservizi ha legalizzato la possibilità di assumere in un’azienda pseudo-comunale i vari galoppini e tirapiedi del potente di turno chiudendo il contratto aperto con il do ut des del voto, ma preferisco evitare simili dietrologiche mefistofelicità. Chi c’è ancora? Sebastiano Failla (Udc), che tanta parte ha avuto in passato nell’assunzione di LSU al Comune, Orazio Ragusa (Udc), neo-eletto dietro cui si vede la longa manus di Peppe Drago, padre-padrone dell’Udc siciliana, l’autonomista Gerratana che non sa nemmeno dove sta di casa (slogan “Il coraggio di cambiare per essere uomini liberi” che fa da pendant con la sua collega donna che cambia il mondo). E poi c’era l’altro Nino, Nino Cerruto della lista di Rita Borsellino, un brav’uomo che non sarebbe mai sopravvissuto alla bolgia di palazzo dei Normanni, ed infine l’avvocato cucciolo, Simona Pitino, che agguerrita glamour voleva partire alla carica del nemico. Non importa quale. Lascio per ultimo la ciliegina sulla torta di questo panorama deprimente.

Avvocato Antonio Borrometi. Margherita.

Difficile trovare le parole per descrivere la sete di potere e la smania di protagonismo di quest’uomo. Da almeno dieci anni ha perso tutte le elezioni in cui si è presentato: politiche, regionali, provinciali, amministrative. Pure il sindaco voleva fare, i modicani non glielo hanno permesso. Presentatosi nuovamente alle ultime elezioni e silurato per l’ennesima volta ha purtroppo ottenuto quei quattromila voti necessari per non scalfire il suo ego e per spingerlo a presentarsi ancora una volta. Ne sono certo. Se cito quest’individuo è solo per deriderlo raccontandovi un episodio da manuale del perfetto bastardo.

La sera del comizio della Borsellino a Modica io e l’Apostolo avevamo assistito, sconsolati, alla partenza della sua auto senza che ci avesse concesso la tanto sospirata intervista. All’improvviso si avvicina lui, l’Avvocato. Captata la possibilità di comparire su qualche media vediamo da lontano uno smagliante sorriso sgranato a 98 denti che ci punta con tanto di mano pronta ad una stretta calda e gioviale. Arriva, saluta con un viscido “buonasera!” e stringe la mano di un Apostolo attonito che lo osserva come se fosse un esemplare di capibara. Si volta verso di me e io nascondo la mano dietro la schiena dicendo: “Mi scusi, non ci conosciamo”; “Pensavo mi aveste chiamato” la sua risposta imbarazzata. “No, si sbaglia” concludo, affondando il coltello nelle carni del suo ego maltrattato...

Tiro la catena. Mi pulisco la bocca con il dorso della mano. Mi sento meglio, ma so che durerà poco.

martedì 30 maggio 2006

Indegni di considerazione #5

Che c’azzecca avrebbe detto un giudice di volgar lingua passato a miglior vita politica… Quando l’esegesi della legislazione italiana potrebbe essere affidata ad un ornitorinco. Almeno visti i risultati. La Rai decide di rinviare la messa in onda della mini-serie dedicata alla vita e all’operato di Giovanni Falcone mascherandosi dietro una personalissima interpretazione della legge sulla par condicio. Motivazione addotta: ridicola. Ecco la spiegazione del fine dicitore Saccà, direttore di Rai Fiction: “…c'è una legge della par condicio da rispettare. Nella fiction si parla anche di Borsellino e la sorella è candidata in Sicilia alle regionali, finché non si chiude la campagna elettorale, dobbiamo rispettare le regole”.

Summa ius summa iniuria verrebbe da dire, ma qui si tratta di semplice buonsenso. Cosa c’entra la candidatura di Rita Borsellino con una fiction? Non è colpa sua se il fratello e il suo amico Falcone hanno avuto la disdicevole idea di farsi scannare per difendere lo Stato e le sue istituzioni dal cancro mafioso.

Al di là della retorica dell’antimafia che scaturisce inevutabilmente da simili produzioni, credo sarebbe stato doveroso programmare la fiction proprio per il 23 maggio, anniversario della morte di Falcone. Perché la maggior parte della gente ha bisogno di queste cose per mantenere viva la memoria. Gli anniversari, le commemorazioni, i picchetti d’onore, le lacrime di coccodrillo, i discorsi infiammati che si spengono nella retorica generale. La memoria è una bomba dalla miccia corta che si dovrebbe far deflagrare con assiduità.

Ma noi dobbiamo rispettare le regole. E allora perché durante l’ultima campagna elettorale in Rai si poteva parlare impunemente di Mussolini? In questo modo non si avvantaggiava forse la nipotina scapestrata ricordando al manipolo di imbecilli che vorrebbe far resuscitare il fascismo le gesta del loro eroe? O perché parlare di Fabrizio Quattrocchi, se ne poteva trarre vantaggio Stefio, candidato in quel dei fasci redivivi? No, dobbiamo evitare di parlare solo di Borsellino e di commemorare due uomini giusti di cui lo Stato sembra essersi accorto solo quando ha dovuto pagare le spese per i funerali di Stato. Chissà perché.

Invito dunque ogni sindaco della Sicilia ad oscurare qualsiasi riferimento a Falcone e a Borsellino (lapidi commemorative, scuole, piazze, strade) per tutta la durata della campagna elettorale. Invito altresì le autolinee Cuffaro di proprietà dell’attuale presidente della Regione Sicilia ad oscurare il nome della società apposto sugli autobus, soprattutto ogni volta che detti autobus sono inquadrati dalle telecamere che documentano le traduzioni dei clandestini sbarcati sulle coste siciliane (trasferimenti pagati con i nostri soldi che vanno a finire nelle tasche di Totò vasa vasa – tutto legale, però non è un po’ insolita come cosa?).

Al posto della fiction su Falcone sarà trasmessa la mini-serie La moglie cinese. Sentite cosa ha l’impudenza di dire il già citato Saccà: siccome nella serie c’è anche un boss mafioso, questa presenza rappresenta “un omaggio a un grande italiano di cui ricorre l'anniversario della morte, Giovanni Falcone”.

Ma stai zitto almeno.

sabato 27 maggio 2006

Isolitudine

Cammino stracco per Catania attendendo che anche questa campagna elettorale giunga al termine. Attendendo che anche questa volta la gallina dalle uova d’oro di palazzo dei Normanni sia messa in saccoccia da qualche gallo ben piazzato. Inutile rammentarvi il disgusto di fronte alla montagna di volantini elettorali buttati senza alcun ritegno sui marciapiedi o direttamente per strada, sui ragazzetti reclutati per distribuire gli ultimi cartoni di santini, sui manifesti che, attaccati l’uno sull’altro, hanno raggiunto uno spessore a dir poco indecoroso – almeno venticinque centimetri in piazza Cavour.

Simili campagne elettorali rappresentano un insulto all’intelligenza dell’elettore.

La visibilità non implica onestà, intelligenza, capacità decisionale. La certezza di essere ciascuno il migliore non giustifica le tonnellate di carta sprecate, gli alberi abbattuti inutilmente, gli inchiostri inquinanti (tutta carta lucida!). Capisco che un volantino costi meno di un programma e che in alcuni casi uno sguardo accattivante e uno slogan furbetto siano sufficienti a sostituire un programma aleatorio e a coprire il pauroso vuoto d’idee di certe persone, ma questo non è fare politica. Mera, aspra, schifosa lotta per il potere semmai, condotta attraverso i mezzucci di una guerra tra straccioni talora coadiuvati dai sorrisi lucenti e dal carisma dei leader calati giù nel feudo ostinatamente più fedele. È una pedina importantissima la Sicilia.

La CdL ha deciso di ricandidare Totò vasa vasa, una figura mitologica che incarna perfettamente il lato peggiore di noi siciliani: la grettezza, l’ottusità, l’egocentrismo, il legame con la tradizione che non significa radici ma catene, non ultimo la contiguità all’enorme fascia grigia che abbraccia e fonde torbidamente il giusto al criminale, il mafioso alla persona perbene… Inorridisco al pensiero che quest’uomo possa essere riconfermato. Peccato che vincerà di nuovo. Perché la sinistra ha sbagliato a presentare la Borsellino: a presentarla così almeno. Osservando la campagna elettorale non ho potuto fare a meno di notare quanto si sottolineasse la questione morale, quanto si caricasse di significato una simile candidatura, quanto si premesse sulla dicotomia mafia – antimafia. Quanto ci si inorgoglisse di idee e di ideali.

Peccato che di problemi, dei problemi reali della gente reale che vive in un mondo reale si sia parlato pochissimo. Vogliamo parlare di sanità per favore – quanti morti per malasanità ci sono stati in Sicilia ultimamente? –, vogliamo parlare di infrastrutture paleozoiche, di povertà, di acqua che manca, di fuga dei cervelli e di lavoro – quello vero, non le caramelline degli LSU buone solo a creare clientelismi, vogliamo parlare di beni culturali abbandonati a se stessi, di abusivismo edilizio, di inquinamento delle coste, di industrie che stanno ammazzando la nostra gente nel disinteresse più totale della classe politica (Gela, Priolo, Augusta), vogliamo parlare della criminalità, della cultura della legalità, vogliamo parlare della nostra Sicilia porca puttana?

È bello, anzi, straordinario che la sinistra abbia candidato Rita Borsellino alla presidenza della Sicilia preferendola a personaggi quali Bianco, Latteri (rettore forzista dell’Università di Catania che ha fiutato prima di altri da che parte soffiava il vento) o Pippo Baudo. Ma non si vincono le elezioni solo con i buoni propositi. Anche perché sappiamo bene che dietro la Borsellino ci sono altre personalità che vorrebbero approfittare dell’onda lunga per ambizioni personali, anche perché alle ultime regionali il candidato presidente della sinistra, l’uomo dell’antimafia, il simbolo della società che si ribella blablablabla Leoluca Orlando venne spazzato via dal ciclone Cuffaro che lo superò di almeno venti punti percentuali se la mia memoria non falla.

Bisognava attaccare ferocemente Cuffaro sulla gestione del suo mandato, bisognava demolire Cuffaro sulle sue mancanze di politico, non fare la voce grossa sulla questione morale. La retorica dell’antimafia e le battaglie sulla legalità, pur condotte da una persona sincera e limpida come Rita Borsellino non basteranno: alla gente le simpatiche canaglie pacioccose magari impiastricciate con qualche ometto d’onore sembrano piacere. Scelleratamente.

Eppure sarebbe bello se vincesse Rita. Almeno per testimoniare la volontà di cambiare. Almeno per dire che ci siamo rotti le scatole di quattro imbecilli che pretendono di essere definiti uomini d’onore e ancor più pretendono di comandare sulle nostre vite. Almeno per dire che davvero vorremmo un’altra storia per questa nostra terra. Anche se so che…

Ricordo una sera di qualche settimana fa Rita Borsellino a Modica. Dopo averla inseguita cercando invano d’intervistarla io e l’Apostolo discutiamo in macchina di un’eventuale utopica vittoria della Borsellino. Chiedo “Quanto tempo credi che passerà? …Prima che la ammazzino, voglio dire”. Ritorniamo a casa senza dire una parola.

mercoledì 24 maggio 2006

Inattualia

"In verità da anni non voto. Me ne vergogno, ma non so che farci. Delle scalmane ideologiche sono guarito prestissimo, una trista chiaroveggenza m’insospettisce d’ogni utopia. Se pur m’accade di stimare un politico, si tratta di una stima retrattile e ondosa, quale può generarsi da un casuale incontro di gusti o dalla simpatia che nasce talora davanti a un individuo di cui si apprezza l’amabilità ma s’ignora la fedina umana e morale. Poi basta dar tempo al tempo e le ali della lodata rara avis si rivelano gonfie di piombo. […] E dire che fino a poco fa una parvenza di programmi e di contegni contrapposti ancora li contraddistingueva, fuori e dentro il Palazzo. Oggi nel Palazzo ci sono tutti, le divise si scambiano a piacere, quanto più le risse sono fragorose, tanto più sono finte. Un unico gigantesco partito li arruola tutti, dal Montecitorio più grande agli altri, innumerevoli, sparsi per la penisola. E quanto parlano, poi… Quale quotidiano inesauribile vilipendio della parola… È questa l’offesa che duole di più: ci taglieggiano, ci governano, ci malversano… Ma almeno stessero zitti; smettessero questo balletto di maschere, questo carnevale del nulla, al riparo del quale mani avide intascano, leggi inique o vane si scrivono, ogni proposito onesto si sfarina in sillabe senza senso…

Esagero? Esagero, ma ditemi: quanti sono oggi coloro che intendono veramente la politica come servizio? E non sono costretti a nascondersi come lebbrosi? E per uno che opera con coscienza e fatica, quanti altri sono solo vesciche pompose, busti di cartone, pastori di nuvole, puri e semplici ladri? Il risultato è sotto gli occhi di tutti: uno Stato tirchio e scialacquatore, frenetico e inerte, feroce e longanime, occhiuto e cieco… Meno male che sono vecchio. Mi dice un facile calcolo che il crac prossimo venturo mi sarà risparmiato. “E ora sbrigatevela voi”, dirò l’ultimo giorno, fregandomi le mani sotto il lenzuolo".

(G. Bufalino in Bluff di parole)

martedì 23 maggio 2006

Capaci 23.05.92

lunedì 22 maggio 2006

Il ponte mi sta Stretto

Polemiche, polemiche, polemiche. Basta lo sconfinamento di un neo-ministro su temi che per competenze, provenienza geografica e formazione lo riguarderebbero direttamente e subito giù polemiche. Di Pietro ha mostrato di non gradire affatto i commenti del suo collega ai Trasporti, il calabrese Bianchi, riguardanti la fattibilità e l’opportunità del ponte sullo Stretto di Messina. Bianchi, colpevole solo di aver avanzato le istanze di chi lo aveva eletto. Più che del ponte dovremmo piuttosto discutere di infrastrutture siciliane in generale.

Possiamo anche fare il ponte, possiamo pure attraversare lo Stretto in undici minuti (secondo le stime di fattibilità), tutti contenti di non aspettare sotto il sole un traghetto che non arriva mai… e poi? Lo sfacelo assoluto. Se non abbiamo ferrovie degne di questo nome, se in alcune zone della Sicilia abbiamo ancora le littorine, se per andare a Trapani da Modica con il treno impieghiamo almeno diciotto ore, se la velocità media registrata dai treni siciliani è di sessantaquattro chilometri orari e cioè la stessa velocità con cui il treno a vapore percorreva nel 1834 la tratta Napoli – Portici…

Se le nostre strade versano in uno stato pietoso, se le autostrade sono poche, se la Siracusa - Gela è in costruzione dagli anni cinquanta e sono in esercizio solo una manciata di chilometri, se la mafia (o governo regionale che dir si voglia) necessita di quattro anni per costruire un raccordo di venticinque chilometri tra Siracusa e Catania, se la Palermo – Messina (inaugurata tre volte) è stata costruita in 36 anni al ritmo di cinque chilometri all’anno e finora è in esercizio un solo senso di marcia, se persone come Riccardo Minardo basano la propria campagna elettorale sul raddoppio della Ragusa-Catania e poi vedi che i cantieri aperti su quella strada sono solo per sostituire i guard-rail malandati, se le nostre infrastrutture sono così vecchie, scassate, incomplete, carenti, ma cosa pensate che possiamo farcene di un ponte ipermegagalattico?

Qualcuno potrebbe dire che il mio è mero populismo verbale e potrebbe citare la legge Bassanini secondo cui le infrastrutture della Regione competono al governo regionale e non allo Stato italiano. Il ponte sullo Stretto sarebbe invece un’opera di competenza dello Stato in quanto opera di interesse nazionale, anzi, in questo caso sovranazionale, essendo stata inserita nell’elenco delle infrastrutture atte a creare nuove assi di comunicazione di livello europeo. A parte il fatto che l’esistenza della legge Bassanini non implica che lo Stato italiano se ne debba sbattere le palle di quello che fanno le regioni, e a parte il fatto che ogni senatore o deputato che sia presenta al Parlamento nazionale la più piccola trazzera di campagna come se fosse l’arteria di comunicazione più trafficata dell’universo, in questo caso la legge Bassanini non ha alcuna ragione per essere applicata.

Se è vero che il ponte è una infrastruttura di interesse europeo, è altrettanto vero che l’interesse dell’Europa non si fermerà a Messina: dal 2010 infatti la Sicilia diventerà area di libero scambio per tutti i paesi del Mediterraeo. Ecco che le infrastrutture siciliane non interessano più solo ai siciliani e alla regione Sicilia ma diventano di fondamentale importanza per l’intera Europa.


Ecco perché il ponte diventa l’ultimo dei nostri pensieri.

Le belle statuine

L'animale uomo, curiosa bestia di campionario tassonomico, tende naturalmente a difendere con ferocia ogni forma di potere acquisita nel corso degli anni e, una volta persa, punta come armi gli stessi strumenti che avevano prima favorito la conquista. Non si spiega altrimenti l'incomprensibile reazione della Casa delle Libertà al voto di fiducia che i senatori a vita hanno tributato al governo Prodi. Fischi, urla, accuse di immoralità da gente che, proprio in fatto di moralità, nasconde un vero e proprio ossario nell'armadio – altro che scheletri. Secondo gli esponenti della CdL, poiché le ultime elezioni hanno spaccato l'Italia in due, i senatori a vita avrebbero dovuto astenersi per rappresentare tutta l'Italia (e non solo una parte) dando prova di indipendenza di giudizio.

Cosa vuole dimostrare la CdL, che i senatori a vita sono schierati?

Lasciamo perdere che nel '94 nessuno ebbe da ridire quando i voti di tre senatori a vita risultarono determinanti per la fiducia al governo Berlusconi e sorvoliamo anche sul fatto che, nel caso in cui fosse stata nominata senatrice Oriana Fallaci, non credo avrebbe optato per l'astensione: preferisco evitare un processo alle intenzioni, e soprattutto non ho voglia di fare una polemica sterile. Solo, non capisco perché i senatori non avrebbero dovuto votare. Non hanno forse la stessa funzione rappresentativa degli altri senatori? Non sono forse delle persone amate e rispettate da tutti gli italiani in forza della loro personalità, della loro intelligenza e del ruolo che hanno svolto per l'Italia intera? Se qualche ombra si può addensare su Andreotti (più di una tempesta, di fatto), non capisco con quale coraggio la CdL abbia potuto fischiare Rita Levi Montalcini – 97 straordinari anni di lucidità, una coscienza politica da far invidia a generazioni di giovani – o il mite Ciampi, fino a pochi giorni fa acclamato come il presidente di tutti gli italiani.

A questo punto sono costretto a pensare che per la maggior parte della CdL i senatori a vita rappresentino solo delle belle statuine, dei simpatici vecchietti che tanto hanno fatto per l'Italia e che adesso gli si permette di sedere tra gli scranni di PALAZZO MADAMA.

Sarebbe stata una mancanza di rispetto se avessero trascorso il loro tempo al parco a dar da mangiare ai piccioni.

giovedì 18 maggio 2006

Lasciatemi divertire #3

mercoledì 17 maggio 2006

Gente ridicola


Voglio che guardiate questa donna. Voglio che osserviate questo volantino stropicciato che ho trovato dopo giorni di amorevole ricerca tra tonnellate di santini che si moltiplicheranno esponenzialmente fino al 28 maggio. Se ho avuto parziale pietà per questa povera mentecatta nascondendo il simbolo per cui si presenta alle prossime regionali, non ho potuto fare a meno di lasciare lo slogan. Donne che cambiano il mondo.

In questi giorni una mia amica sta completando una tesi su una figura praticamente sconosciuta della storia moderna: Olympe de Gouges. Una visionaria pioniera che decise di far stampare la Dichiarazione dei diritti della Donna reclamando diritti fino a quel momento ritenuti semplice follia dalla maggior parte delle persone: autonomia decisionale soprattutto sulle questioni riguardanti la sessualità, divorzio, istruzione superiore per le donne, uguale peso politico, medesimi onori ed oneri.

Inutile dire che poco tempo dopo sarà ghigliottinata e la sua Dichiarazione considerata poco meno che il frutto di un "isterismo rivoluzionario". Perché va bene fare la Rivoluzione con la presa della Bastiglia e tutto il resto, ma che le donne reclamino anche dei diritti!

Queste sono donne che hanno cambiato il mondo. Donne che hanno combattuto per un'idea, che hanno rischiato la vita e talora l'hanno persa per cercare di migliorare il peggiore dei mondi possibili. Cioè il nostro. Come Emmeline Pankhurst, una delle più agguerrite suffragette, che chiese incessantemente per tutta la sua vita il diritto di voto come elemento indispensabile di una moderna democrazia. Come le migliaia di donne che si sono rivolte a Muhammad Yunus e alla sua Grameen Bank per sfuggire allo squallore di una miseria senza pari. Come
Vandana Shiva, che cerca di spuntare quotidianamente le armi delle multinazionali proponendo una diversa e più umana prospettiva per lo sviluppo mondiale. Come la ragazza kuwaitiana leader della Resistenza al tempo della prima guerra del Golfo (una pagina di storia che ricordi quella ragazza per favore) arrestata, torturata per settimane e poi fatta a pezzi per essere portata in trionfo come macabro monito dalle truppe irachene ormai in rotta. Come Rigoberta Menchù: ma è proprio necessario spiegare chi è Rigoberta Menchù? Come... Sarebbero tante, troppe le donne da ricordare.

Queste sono donne cha cambiano il mondo. Non certo la nostra mentecatta autonomista (ops, l'ho detto), illusa che un meccanismo profondamente maschilista quale le quote rosa dia alle donne la parità dei diritti. E soprattutto che le fornisca la libertà di farneticare in siffatto modo.

sabato 13 maggio 2006

La tv degli ornitorinchi

Che c’azzecca avrebbe detto un giudice di volgar lingua passato a miglior vita politica… Quando l’esegesi della legislazione italiana potrebbe essere affidata ad un ornitorinco. Almeno visti i risultati. La Rai decide di rinviare la messa in onda della mini-serie dedicata alla vita e all’operato di Giovanni Falcone mascherandosi dietro una personalissima interpretazione della legge sulla par condicio. Motivazione addotta: ridicola. Ecco la spiegazione del fine dicitore Saccà, direttore di Rai Fiction (clicca qui per l'articolo su Repubblica): “…c'è una legge della par condicio da rispettare. Nella fiction si parla anche di Borsellino e la sorella è candidata in Sicilia alle regionali, finché non si chiude la campagna elettorale, dobbiamo rispettare le regole”.

Summa ius summa iniuria verrebbe da dire, ma qui si tratta di semplice buonsenso. Cosa c’entra la candidatura di Rita Borsellino con una fiction? Non è colpa sua se il fratello e il suo amico Falcone hanno avuto la disdicevole idea di farsi scannare per difendere lo Stato e le sue istituzioni dal cancro mafioso.

Al di là della retorica dell’antimafia che scaturisce inevitabilmente da simili produzioni, credo sarebbe stato doveroso programmare la fiction proprio per il 23 maggio, anniversario della morte di Falcone. Perché la maggior parte della gente ha bisogno di queste cose per mantenere viva la memoria. Gli anniversari, le commemorazioni, i picchetti d’onore, le lacrime di coccodrillo, i discorsi infiammati che si spengono nella retorica generale. La memoria è una bomba dalla miccia corta che si dovrebbe far deflagrare con assiduità.

Ma noi dobbiamo rispettare le regole. E allora perché durante l’ultima campagna elettorale in Rai si poteva parlare impunemente di Mussolini? In questo modo non si avvantaggiava forse la nipotina scapestrata ricordando al manipolo di imbecilli che vorrebbe far resuscitare il fascismo le gesta del loro eroe? O perché parlare di Fabrizio Quattrocchi, se ne poteva trarre vantaggio Stefio, candidato in quel dei fasci redivivi? No, dobbiamo evitare di parlare solo di Borsellino e di commemorare due uomini giusti di cui lo Stato sembra essersi accorto solo quando ha dovuto pagare le spese per i funerali di Stato. Chissà perché.

Invito dunque ogni sindaco della Sicilia ad oscurare qualsiasi riferimento a Falcone e a Borsellino (lapidi commemorative, scuole, piazze, strade) per tutta la durata della campagna elettorale. Invito altresì le autolinee Cuffaro di proprietà dell’attuale presidente della Regione Sicilia ad oscurare il nome della società apposto sugli autobus, soprattutto ogni volta che detti autobus sono inquadrati dalle telecamere che documentano le traduzioni dei clandestini sbarcati sulle coste siciliane (trasferimenti pagati con i nostri soldi che vanno a finire nelle tasche di Totò vasa vasa – tutto legale, però non è un po’ insolita come cosa?).

Al posto della fiction su Falcone sarà trasmessa la mini-serie La moglie cinese. Sentite cosa ha l’impudenza di dire il già citato Saccà: siccome nella serie c’è anche un boss mafioso, questa presenza rappresenta “...un omaggio a un grande italiano di cui ricorre l'anniversario della morte, Giovanni Falcone”.

Ma stai zitto almeno.

giovedì 11 maggio 2006

Maledetto Dalai Lama

Facinorosi di tutto il mondo unitevi sotto la nuova bandiera rivoluzionaria. Riponete in libreria l’Anarchist Cookbook, lasciate nei cassetti i passamontagna neri da sub-comandate, mettete in lavatrice le vostre divise da kamikaze e fermate le fotocopiatrici che stanno stampando l’ultimo volantino di rivendicazione. Un nuovo trascinatore delle folle si aggira per il mondo pronto a sovvertire, quale pericoloso terrorista e agitatore di popolo, l’ordine costituito.

Il Dalai Lama.

Stando a quanto dice China View, testata cinese on-line, il Dalai Lama è accusato di essere la mente organizzativa dei conflitti religiosi e di attentare all’unità del Tibet. Notevole testata il China View. Sfogliando le pagine di questo sito sembra che in Cina tutto vada per il meglio: l'economia cresce, il paese diventa più competitivo, si costruiscono infrastrutture, si ordinano nuovi preti, i diritti umani vengono rispettati... Un simile entusiasmo non si vedeva dai tempi della Pravda e dei comunicati della Tass corretti direttamente dal Partito! Mi aspetto di trovare da qualche parte i piani quinquennali a garanzia della stabilità produttiva.

Si nuota nell'acqua stagnante del controllo orwelliano, in Cina. Notoriamente la libertà d'espressione cinese consiste nella possibilità di poter parlar bene del Partito o di non parlarne affatto. Internet non è libero, la posta controllata, molti siti oscurati e i motori di ricerca vergognosamente addomesticati: provate a digitare parole come democrazia o libertà in Cina. Dopo qualche tempo potrebbe arrivare a casa vostra una macchinina di produzione cinese con alcuni funzionari governativi che vi preleverebbero per un tempo indeterminato ed indeterminabile rinchiudendovi in qualche buco per la maggior gloria del Partito.

Ecco allora giornali con la museruola che eseguono ciecamente gli ordini imposti dall'alto incuranti degli esiti arlecchineschi. Probabilmente sono così inquadrati nella logica dello Stato da non porsi domande - legge fondamentale di ogni giornalista -, forse ci credono pure in quello che scrivono. In questa ottica rovesciata risulta comprensibile la definizione data dal China View agli interventi del Dalai Lama.

Nonostante nel mondo tutti conoscano l'infamia dell'occupazione cinese del Tibet. Nonostante lo smembramento del paese e il milione e duecentomila morti che essa ha provocato. Nonostante sia stanziato in Tibet un quarto della forza missilistica nucleare cinese. Nonostante le migliaia di prigionieri politici. Nonostante la tortura sia una pratica comune e giornaliera. Nonostante le donne siano costrette agli aborti selettivi e alla sterilizzazione. Nonostante i seimila edifici religiosi rasi al suolo. Nonostante la segregazione sia una pratica diffusa e consolidata.

E adesso l'immancabile domanda retorica: perché non si fa niente di serio (escluse dunque le risoluzioni Onu)? Possibile che la maggior parte degli occidentali abbia conosciuto la questione tibetana solo grazie a Richard Gere? Continuiamo a far finta di niente, a recriminare sottovoce per paura che la nostra provata amicizia con la Cina ne esca incrinata - un partner commerciale di prim'ordine non si può far indispettire per quattro montanari massacrati, non pensate? Magari gli crediamo pure quando dicono certe cose e siamo tutti sorridenti, e annuiamo, e li applaudiamo pure quando durante le conferenze stampa infilano una fregnaccia dietro l'altra sui diritti umani rispettati e sulla libertà di pensiero e di espressione in Cina. E allora guardatevi intorno domani: da quello che leggo sul China View in ogni bonzo che cerca di piazzarvi il libro di un monaco dal nome illeggibile può nascondersi un pericoloso terrorista.

Altro che Al Zarkawi.

Lucide riflessioni di uno sbronzo

“Cos’è che posso dire a proposito della politica e degli affari internazionali? la crisi di Berlino, la crisi di Cuba, aeroplani spia, navi spia, Vietnam, Corea, bombe atomiche perdute, disordini nelle città americane, fame dell’India, purghe nella Cina comunista? ma è brava gente o è cattiva gente? esistono davvero quelli che non mentono mai e quelli che mentono sempre? esistono governi buoni o governi cattivi? no, esistono soltanto governi cattivi e governi pessimi, è possibile che una notte un lampo di luce e di calore ci faccia a pezzi mentre scopiamo o ci abbuffiamo o leggiamo i fumetti o incolliamo punti regalo in un libro? la morte istantanea non è una novità, e nemmeno la morte istantanea di massa è una novità. ma noi abbiamo perfezionato il prodotto; abbiamo avuto secoli di scienza e cultura e scoperte su cui lavorare; le biblioteche sono grandi e grosse e brulicanti e sovraffollate di libri; quadri importanti sono in vendita per centinaia di migliaia di dollari; la medicina ha prodotti i trapianti cardiaci; è impossibile distinguere tra un uomo pazzo e un uomo normale che passano per strada, e improvvisamente ci ritroviamo con la nostra vita, ancora una volta, nelle mani di idioti. forse le bombe atomiche non verranno mai sganciate; forse le bombe atomiche potrebbero venire sganciate. ambarabà ci ci co cò… adesso col tuo permesso, caro lettore, vorrei ricominciare a occuparmi di puttane e di cavalli e di sbornie, finché c’è tempo. se queste cose sono apportatrici di morte, beh, allora mi sembra che sia molto meno offensivo essere responsabili della propria morte piuttosto che di quell’altro genere di morte che vi viene offerta con frasi di Libertà e Democrazia e Umanità e/o un po’ tutta quella Merda. prima corsa ore 12,30. primo drink: ora. e le puttane esisteranno sempre. Clara, Penny, Lisa e Jo… ambarabà ci ci co cò…”

(C. Bukowski, tratto da La politica è come cercare di inculare un gatto in "Compagno di sbronze")

martedì 9 maggio 2006

Morire per delle idee, e di altre sciocchezze



Sono passati ventotto anni da quel 9 maggio 1978. Io non c’ero, eppure so. Quel giorno il cadavere di Aldo Moro veniva ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani a Roma. Brigate Rosse, brutta storia. E non avevano capito, loro – quale terrificante errore –, che il cuore dello Stato non poteva essere colpito: semplicemente perché non esiste. Lo Stato non ha centro né periferia, lo Stato è una metastasi fatta di gerarchie, burocrazia, potere e sordidi compromessi, lo Stato è un mostro impersonale che fagocita se stesso trascinando con sé i singoli cittadini. Ma non dirò nulla di Moro, supposto muscolo cardiaco di uno stato inesistente. Per lui basteranno le commemorazioni ufficiali, i ricordi commossi di amici e colleghi, a lui saranno rivolti i picchetti d’onore: rumori, marcette e retorica in pompa magna. No.


Vorrei parlarvi invece di una regione in cui anche lo Stato è latitante, vorrei sussurrarvi di un paesello dimenticato da Dio e dagli uomini, vorrei condividere con voi il ricordo di un ragazzo come noi, ucciso come un cane dalla mafia solo perché aveva voluto opporsi ad un delirante giornaliero indicibile stato di cose… Il 9 maggio del 1978, quando io non ero altro che una possibilità statistica, moriva Peppino Impastato, condannato a morte da Tano Badalamenti e dal suo complice Vito Palazzolo… Mafiosi. Eppure dire mafioso in un paesino come Cinisi non significava dire molto. Una società chiusa, diffidente, una struttura patriarcale retta secondo le tipiche gerarchie di una società contadina: è una mafia strisciante, perfettamente permeata nel territorio della politica cittadina e a suo agio nelle più strette relazioni parentali e familiari. Una precisa mentalità, una terrificante, gretta, mentalità che prospera ancora oggi rigogliosa nelle menti malate di molti siciliani.

Parlo della logica del particolare, dell’accumulazione, del possesso della roba di verghiana memoria. Parlo della sopraffazione, dell’omertà e di una stupida connivenza basata sull’onore. Parlo del potere gestito attraverso tutte le sue possibili forme e tenendo conto di tutti i mezzi disponibili compresi quelli del ricatto, della minaccia, dell’omicidio. Tutto normale, come se la mafia potesse essere considerata una modalità d’essere del siciliano. Ma non è può essere così, cazzo! Semplicemente, Peppino Impastato non poteva riconoscersi in questa logica di illegalità normalizzata, non poteva accettarla. Gli appalti pilotati, la speculazione edilizia, il traffico di droga, le evidenti collusioni – ovvero convergenza d'interessi – tra mafia e politica erano perciò diventati i suoi mulini a vento preferiti. Forse non cosciente del fatto che dietro i mulini stavano nascosti giganti nani pronti a trafiggerlo. Peppino Impastato non inseguiva delle utopie, non correva dietro sbrindellate banderuole d’ideali diventate di moda come per molti ragazzi di oggi.

Lui credeva davvero di poter cambiare il mondo, se non altro quello suo, particolarissimo, di Cinisi. Pensate per un attimo ad un paesetto arretrato del Sud più sud: prendete un’associazione, “Musica e Cultura”, che diventa punto di riferimento per i giovani di Cinisi e dintorni. Prendete una decina di ragazze che si associano dando vita al “Collettivo femminista”, che acquistano coscienza politica, che si espongono all’accigliato giudizio di una pubblica piazza durante i comizi. Prendete un gruppo di ragazzi e ragazze, il “Collettivo antinucleare”, che formulano - in Sicilia! - un documento programmatico di quindici pagine sui rischi del nucleare. Prendete una radio, “Radio Aut”, che svolge controinformazione e che cerca di scardinare follemente i meccanismi mafiosi e di sbeffeggiarne pubblicamente i suoi rappresentanti. Aggiungete infine un ragazzo, inquieto ed audace, che vuole candidarsi al consiglio comunale di Cinisi, che vuole portare una ventata di legalità in un ambiente malsano e corrotto.

Tirate le somme, ed avrete la vita di Peppino Impastato. Guardatevi intorno, e capirete anche il motivo della sua morte. Colpire un muro di gomma. E capirete anche perché solo il 6 dicembre 2000 una commissione parlamentare antimafia ha accertato le responsabilità di quei rappresentanti delle istituzioni che volevano depistare le indagini infangando la memoria di Peppino e cercando di farlo passare per terrorista, capirete perché solo l’11 aprile del 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio. Peppino Impastato aveva ragione, ma è morto, è morto ugualmente: ucciso da un manipolo di codardi imbecilli che ancora oggi tiene in scacco l’intera Sicilia, ucciso dal silenzio e dalla neghittosità della sua terra, ucciso da uno Stato lontano ed indifferente.

E a volte non posso fare a meno di pensare che la morte di Peppino sia stata inutile, che questa terra non potrà mai essere migliore perché sospesa in un destino di passiva ineluttabilità che risucchia quanti si illudono di poter cambiare qualcosa. "Sangue pazzo", dice lo zio americano di Peppino nel film "I cento passi".

Già, proprio di pazzi avremmo bisogno, di pazzi furiosi, di teste calde come Peppino disposte a sacrificare la propria vita per un ideale di cui non si vedrà mai la realizzazione, per la somma idea della giustizia, per la propria terra maledettamente ingrata.

Qui trovate il sito dedicato a Peppino.

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lunedì 8 maggio 2006

Sulle orme dei Greci di seconda mano - seconda parte

30 aprile
Segesta, o dei Greci di seconda mano

Riusciamo a svegliarci ad un orario decoroso e riusciamo anche a non consumare tutta l’acqua calda per le docce. Dopo aver fatto colazione e preparato il nostro pranzo a sacco… Ah, piccola parentesi sul pranzo a sacco. Il sacco è praticamente vuoto: mele, acqua, dei succhi di frutta, qualche brioche. In effetti né la spesa preventiva che abbiamo portato da Catania né la spesa suppletiva di ieri hanno considerato il pranzo di oggi. Beh, poco male, integreremo con qualcos’altro direttamente a Segesta. Imbocchiamo l’autostrada in direzione Trapani: larga, ben tenuta, quasi deserta, colline costellate di vigneti lungo tutto il tragitto – d’altronde, il Duca di Salaparuta è di casa da queste parti. Il paesaggio scorre tranquillamente ai lati mentre io, PhyStyle e Cuzia chiacchieriamo. Non un chiacchiericcio invasivo, un terrore da horror vacui: alterniamo agli scambi di opinione su questi giorni alcuni momenti di silenzio, di quelli che puoi dividere con i tuoi amici senza sentirti a disagio.

Dopo aver imboccato una bretella un cartello ci indica chiaramente la direzione da seguire per l’area archeologica di Segesta. Difatti, poco dopo, vediamo apparire in tutta la sua enigmatica maestosità il tempio che si staglia contro il cielo, incurante dei secoli che gli scorrono attorno. Parcheggiamo senza alcuna difficoltà sullo spiazzo antistante l’ingresso al parco e ci dirigiamo verso la biglietteria. Cippi con il fascio littorio dall’aria destra ci ricordano che il parco fu inaugurato durante il fascismo, e così l’insegna del bar che fa da pendant con il resto, Punto di ristoro. Per motivi bassamente commerciali la biglietteria è posta all’interno di un negozietto che vende pacchianerie turistiche, dai libri sulla Sicilia al posacenere “ricordo di Segesta” al pupo siciliano alto come un bambino di quattro anni. Biglietti! In effetti, in quanto studente di lettere antiche con indirizzo archeologico avrei diritto all’ingresso gratuito, ma avendo dimenticato il libretto a casa (maledizione!) fruisco solo di una riduzione del 50% valida fino ai venticinque anni – riduzione che non sempre è valida per tutti i siti, come avrete modo di vedere per Selinunte.

Saliamo verso la spianata su cui è costruito il tempio. La salita è piuttosto ripida, ma osservo con grande ammirazione frotte di anziani arrampicarsi sui gradini dell’erta, alcuni aiutati da un bastone – dovrei vergognarmi della mia pigrizia! All’improvviso, eccolo. Un’emozione indescrivibile. “È bellissimo, è bellissimo” continuo a biascicare in preda ad un probabile attacco di sindrome di Stendhal. Come se il mio corpo si ricongiungesse allo spirito dei Greci che avevano deciso di fondare in questi luoghi selvaggi la propria apoikia, come se riuscissi ancora ad ascoltare la voce di questi strani Greci che decisero di mescolarsi alle genti puniche. Come se riuscissi per un attimo a penetrare il mistero di questo tempio. Un tempio greco che non è un tempio greco. Emana un fascino particolare, una luce barbara che si discosta dall’armonia e dallo stile tipicamente greci: non fosse altro perché non ha la cella! Anche se studi recenti (nonché la semplice evidenza, come per i gradoni del teichobate) sembrano aver dimostrato con una certa sicurezza che il tempio rimase incompleto io non riesco a convincermene. So che è un atteggiamento poco scientifico dare ascolto alle sensazioni ma talora non posso farne a meno.

Nemmeno il greco più compromesso con le popolazioni locali avrebbe anteposto la costruzione di un teatro a quella del tempio (come sembrerebbe essere accaduto a Segesta). Non ci troviamo di fronte ai Romani, gente pragmatica che costruiva un tempio per tutte le divinità o inventava dei culti ad usum Delphini e al diavolo tutto il resto! Per i Greci la religione non era una pura formalità, rappresentava anzi una parte integrante ed irrinunciabile della propria esistenza. Non dimentichiamo poi una considerazione squisitamente pratica: perché costruire prima l’esterno del tempio, perché mettere in opera le colonne della peristasi prima della cella? Non sarebbe stato molto agevole trasportare i materiali da costruzione passando attraverso gli stretti intercolumni… Forse non riesco ad abbandonare le vecchie – e suggestive – teorie che lo vorrebbero un sacello sacro per un culto greco-punico non meglio identificabile, ma a me questa teoria del tempio incompleto proprio non va giù: non c’è peggior sordo di chi non vuol vedere. Avete capito bene.

Lasciamo la spianata del tempio mentre io e Cuzia ci perdiamo in una tipica discussione dottorale che solo fra umanisti incalliti può avvenire - sterile al punto giusto - su alcuni punti oscuri della storia di Segesta. Decidiamo di pranzare prima di visitare il resto degli scavi e così andiamo ad integrare il nostro sacco al Punto di ristoro. Prezzi da autogrill per focacce, pizze e panini dal sapore di cartone e dal contenuto discutibile: calcoliamo con una punta d’ironia che il costo reale per gli ingredienti della nostra focaccia si aggira intorno ai 30 centesimi di euro. Abbiamo pagato due euro e cinquanta a porzione. Raggiungiamo la collina dell’agorà tramite la navetta per la quale abbiamo dovuto acquistare un biglietto a parte. Si percepisce con chiarezza disarmante lo stato di abbandono degli scavi “in corso” e la precarietà delle coperture che sembrano essere diventate definitive – interessanti le coperture in eternit, materiale vietato per legge da qualche decennio. Ci rendiamo conto che i finanziamenti destinati agli scavi sono stati dirottati altrove e che i blablabla del politico di turno sulle risorse e sui beni culturali da preservare (dovrebbero fischiare le orecchie a Fabio Granata quindi) altro non sono se non l’ennesima mistificazione della parola e il tentativo populista di raccattare voti da chi questi beni probabilmente non visiterà mai. Il servizio navetta è affidato a privati (e non sono del tutto sicuro che ciò sia legale), i cartelloni delle spiegazioni sono in molti casi illeggibili perché rovinati da generazioni e mai più sostituiti, le recinzioni cadenti ed incerte. Solo i restauri sembrano essere stati realizzati ad opera d’arte.

Ci spostiamo al teatro, in cui intervalliamo momenti di serietà professorale con tanto di spiegazioni su tenaglie, grappe, olivelle ed opere a scacchiera, a momenti di schiamazzi e di ilarità pura, provocando gli sguardi accigliati dei turisti tedeschi. Vaghiamo senza meta precisa per l’acropoli, non potendo fare a meno di contemplare un paesaggio davvero incredibile: certo che i Greci sapevano bene dove edificare le proprie città. Scendiamo lentamente lungo il crinale della collina fermandoci di tanto in tanto ad osservare i miseri resti della gloria di Segesta e delle sue alterne vicende: quello che rimane del Castello, la moschea, il quartiere ellenistico, rovine incomprensibili. Migliaia di cocci ovunque: vasi, tegole, ceramica sigillata – il piatto di plastica dell’antichità – segno che la mano del vandalo e del tombarolo è arrivata prima di quella dello studioso lasciando dietro di sé solo minuscoli frammenti senza valore. PhyStyle prende in mano un coccio su cui s’intravedono ancora delle tracce di colore e mi chiede: “Ti rendi conto che ha almeno 2500 anni?”. Sì Phy, me ne rendo conto. Ecco perché non ho scelto Medicina.

30 aprile
Toccata e fuga nella terra dei Salvo
I Salvo, gli esattori della mafia per i deboli di memoria. Dopo l’escursione a Segesta ritorniamo sui nostri passi attraverso strade statali che di statale hanno solo il nome: trazzere di campagna nobilitate presumibilmente durante il famigerato ventennio che in Sicilia fu latore di infrastrutture e di opere di modernizzazione – una fra tutte la ferrovia e la littorina, mezzo di trasporto al quale noi siciliani siamo così affezionati tanto da usarlo tuttora. Certo, il ventennio portò anche una dittatura nonché una guerra nonché un paese devastato nonché qualche milione di morti inutili sulla coscienza, ma se parlate con un vecchietto delle nostre parti non mancherà di rammentare che “si stava meglio quando si stava peggio” perché “con Mussolini si poteva dormire con le porte aperte”. Premesso che la maggior parte della gente poteva dormire con le porte aperte perché i ladri non avrebbero trovato niente da rubare, dobbiamo riconoscere che i metodi cruenti del prefetto Mori qualche risultato lo ottennero. Se non altro quello di mettere tra parentesi il problema, mandando al confino i mafiosi e i loro fiancheggiatori. Lo sbaglio semmai fu quello di considerare la mafia come un fenomeno astratto, non legato al territorio, mentre sappiamo benissimo che arrestato un boss ne è già pronto un altro e che il fenomeno mafioso va combattuto a partire dalle connivenze locali.

Che c’entra direte voi questo lungo preambolo con Salemi? Tutto e niente, dal momento che le mie sono solo pennellate veloci di una realtà che non ho potuto conoscere meglio. La spedizione era stata decisa già la sera prima di fronte ad un bicchierino di amaro, il Monte Polizo, prodotto a Salemi. Di strada da Segesta, ci saremmo fermati a Salemi per far man bassa di bottiglie, vista la produzione quasi artigianale di questo buonissimo amaro. Certo, avevamo giustificato questa tappa anche con la presenza di un castello federiciano – sì sì, Federico di Svevia! – da visitare… Giriamo con la macchina pasticciando un po’ con le indicazioni e ci infiliamo ben presto in affascinanti stradine ciottolose (belle davvero, ma sapete quando si dice strette?), eredità di un impianto medievale che la parte vecchia della città conserva ancora. Non riusciamo a credere che straduzze simili sbuchino da qualche parte, con le loro curve ad angolo che portano evidenti i segni delle fiancate di automobilisti poco avvezzi alle manovre molecolari: chiediamo lumi ad un signore gentilissimo che, sorridendo, ci rassicura sulla direzione da seguire. Che caro alieno.

Arriviamo sulla piazza principale e ci fermiamo: domenica pomeriggio, saranno state le cinque. Scendiamo dalla macchina e percepiamo nuovamente formarsi il gelo intorno a noi. Quella fastidiosa sensazione di essere osservati. Più che una sensazione è una constatazione: tutti, e dico tutti – immigrati compresi – ci guardano con sospetto e diffidenza, spostano il loro sguardo corrucciato dalle auto a noi, dai nostri corpi alle auto. Le targhe Rg colpiscono ancora. La provincia considerata da certi nostri conterranei come babba, e cioè stupida, inetta, incapace di avere un mandamento gestito da uomini d’onore seri e motivati. Ma che vergogna. Ci sentiamo decisamente a disagio, anche perché gli autoctoni continuano a squadrarci dall’alto in basso senza dar segno di avere altra occupazione. Entriamo nell’unico bar aperto. La scena degli sguardi si ripete all’interno: il proprietario si sente in dovere di effettuare un’accurata radiografia su ognuno di noi e di memorizzare le nostre facce fissandoci per un tempo indefinito, il barista e due altri clienti, che prima chiacchieravano, si zittiscono bruscamente al nostro ingresso. Chiediamo dei caffè e chiediamo anche dove possiamo trovare delle bottiglie di amaro. Il barista riprende la discussione con gli altri avventori e, ignorandoci apparentemente, prepara i nostri caffè. Chiediamo nuovamente al barista dove possiamo trovare l'amaro e lui, sfingeo, farfugliando qualcosa come “quante ve ne servono ora vedo quante ce ne sono” scompare nel retro del bar. Ritorna con due delle tre bottiglie richieste e le poggia sul bancone: forse è il suo modo di mostrarsi gentile.

Entrano altri avventori e chiedono dei caffè. Nel frattempo Cuzia, stoicamente votata alla visita del castello chiede “Scusi, il castello è aperto?”: voltandoci le spalle, con il calore di un mammuth incastrato nel permafrost siberiano il barista risponde “No”. Testardi, tentiamo ancora un dialogo: “Possiamo arrivare al castello in macchina?”. Il barista si gira e chiede: “Che macchine avete?”. Mmm. “Una grande e una piccola” – adesso cominciamo ad essere sospettosi pure noi. “Ma che macchine sono?” e allora Cognatina, bruciandoci sul tempo risponde con beata ingenuità: “Una 156 e una Fiesta”. Il barista diventa improvvisamente più loquace. Ci spiega che il castello è chiuso e si visita solo per appuntamento (chiaramente nessuno conosce l’eventuale numero da chiamare) ma che vale la pena di andare a vedere comunque, magari c’è qualcuno dei volontari che lo sta facendo visitare proprio in quel momento: “Prendete quella salita e andate su fino in cima, poi parcheggiate le macchine e continuate a piedi”. A completare la trasformazione crisalidea il barista fa comparire da un cassetto chiuso a chiave la terza bottiglia di amaro e ci chiede una cifra che sembra buttata lì a caso, dieci euro a bottiglia. Paghiamo, ringraziamo e usciamo. Il proprietario del bar ci segue da lontano con gli occhi, la gente sulla piazza ritorna a fissarci. Decidiamo di andare via, altro che castello federiciano. Che bel posto Salemi, peccato che la gente sia così… Così. I luoghi comuni saranno pure odiosi, ma caspita, non si può dire che c’impegniamo molto per sfatarli.


30 aprile
In morte del Risorgimento
Lasciata Salemi anzitempo, ci dirigiamo verso il Pianto Romano, l’ossario mausoleo che ricorda i caduti della battaglia di Calatafimi e i soldati garibaldini periti nell’impresa. Saliamo verso l’ossario per una tortuosa strada provinciale che il mondo sembra aver dimenticato: buche ovunque, protezioni risibili, guard-rail d’anteguerra, inquietanti cartelli "Attenzione mine". Arriviamo all’ossario e subito ci assale un profondo senso di mestizia. Quegli uomini ormai ridotti ad un mucchio di polvere erano morti per noi, erano morti per liberare la nostra terra dal giogo borbonico – per sostituirlo con il giogo sabaudo, ma loro non lo sapevano ancora. Un monumento triste, che dovrebbe ricordare una delle imprese più illustri e coraggiose del Risorgimento italiano…

La porta d’ingresso era chiusa, una spessa coltre di sporcizia ricopriva il pavimento, il libro su cui lasciare la propria firma giaceva aperto su un tavolo polveroso. Chissà da quanto tempo è chiuso. Forse nemmeno le scuole ci portano. Prendiamo coscienza di avere una memoria storica corta, di essere degli ingrati e dei traditori: per noi il Risorgimento è ormai solo una tappa della storia d’Italia, quei giorni grandiosi e terribili non sono altro che un evento sbiadito dal tempo per il quale non proviamo più alcun sentimento. O forse è solo il destino di ogni evento storico. Con un groppo alla gola mi rendo conto che la stessa cosa accadrà quando l’ultimo partigiano o l’ultimo deportato di Auschwitz sarà morto. Ritorniamo alle auto con uno malinconico senso di rispetto per quegli uomini e per la loro sorte.

[2. continua]

venerdì 5 maggio 2006

Sulle orme dei Greci di seconda mano - ultima parte

1 maggio

La carne di Andrea
Reduci da una serata davanti al camino ci svegliamo con un persistente odore di fumo che ristagna in salotto. Fortuna che c’è con noi l’Ariana, donna dai teutonici costumi che di buon mattino provvede ad aprire tutte le finestre generando nella zona giorno della casa una piacevole atmosfera artica. Primo maggio, ultimo giorno al Plumbago. Si ritiene necessaria una mastodontica grigliata che concluda degnamente la nostra gitarella: io, Cuzia e l’Ariana decidiamo di andare alla ricerca di un macellaio e di un panificio aperti in quel di Castelvetrano. Più facile trovare una pelle di yak stesa al sole ad asciugare. Tutto chiuso. Beh, è chiaro: il Primo Maggio dovrebbe essere la festa dei lavoratori e quindi, come minimo, i lavoratori non dovrebbero lavorare. Ma vista la nostra sbadataggine (riecheggiano le parole materne “potevi pensarci prima!”) speriamo in qualche pizzicagnolo stacanovista che abbia deciso di votare la propria vita al riempimento degli stomaci altrui.

Girando per la città semivuota ci rendiamo conto che tutto sommato Castelvetrano è un luogo carino, con le sue chiese, i palazzetti nobiliari, la porta urbica di lontana ascendenza medievale. Attraversiamo la città constatando che gli unici “esercizi commerciali” in funzione sono le motoape che vendono carciofi e patate. Mesta grigliata vegetariana? L’ultima nostra speranza si infrange sulla saracinesca abbassata de “La carne di Andrea”, macelleria dalla ragione sociale lievemente sinistra. Quando ogni cosa sembra decisa tuttavia notiamo con la coda dell’occhio un negozio di alimentari aperto sulla quale vetrina campeggia a bella vista una mucca pezzata parlante: “Mangiami senza timore!”. Mucca pazza. Sono indietro di una psicosi, da queste parti l’influenza aviaria presumibilmente non è ancora arrivata (per inciso, domanda da dietrologo: secondo voi quanto hanno pagato gli avicultori per far zittire i media?). L’alimentari funge anche da macelleria: ce l’abbiamo fatta.

Mentre osserviamo i tagli a disposizione il macellaio, un uomo dalla faccia simpatica e della maglietta sporca di chiazze di sudore equine – meglio non essere troppo schizzinosi – mi chiede qualcosa. Più difficile capire cosa. Il macellaio ripete la domanda e mi guarda sorridendo. Ops. Non sembra ostile, ma continuo a non capirlo. Eppure parliamo più o meno la stessa lingua, o dialetto per i più pignoli. Per fortuna le ragazze, visto che alla terza ripetizione non avevo ancora compreso la domanda, con intuito tutto femminile riescono a captarne il senso e ad interagire con l’autoctono. Nel frattempo, sperando di avere una migliore comprensione linguistica chiedo ad un ragazzo che attende il proprio turno dove poter trovare del pane. Con una precisione cartografica e grande disponibilità mi illustra il percorso da seguire per trovare un panificio aperto – che purtroppo si rivelerà chiuso. Ringraziamo, paghiamo e usciamo. La nostra grigliata è salva, il pane lo compreremo a Marinella. Selinunte, arriviamo.

1 maggio
Vi odio tutti

Prima di arrivare allo scavo facciamo una piccola deviazione sulla vergogna di Marinella, un insieme di costruzioni abusive costruite direttamente sugli scavi che il tempo e i condoni degli amici degli amici hanno presumibilmente fatto diventare legali. Troviamo un panificio aperto grazie anche alle laconiche indicazioni di un signore. “Pane?” e ci indica con il braccio la porta d’ingresso. Come se dovessero pagare le parole, come se anche una semplice indicazione potesse comprometterli irrimediabilmente – dev’essere un incubo dover vivere così. Comprato il pane ci dirigiamo verso l’area archeologica (consiglio gratuito, se vi trovate da queste parti comprate le cigas con i semi di sesamo, dei biscotti eccezionali da intingere nel Fragolino). Parcheggiamo e troviamo l’immancabile biglietteria occultata all’interno del negozio di cianfrusaglie pacchiane. Discussione con la bigliettaia: Cuzia, pur essendo la più accreditata per entrare gratis (una laurea in Lettere Classiche penso dovrebbe bastare) è costretta a pagare l’intero biglietto, mentre Lellina entra gratis a buon diritto, in quanto studentessa d’archeologia. Cognatina e l’Ariana riescono a convincere la bigliettaia che studenti di Lingue o di Scienze della Comunicazione hanno diritto ad entrare gratis se hanno nel proprio curriculum universitario una materia che riguarda lontanamente la storia. A nulla valgono le nostre piccate rimostranze o il sarcasmo di un “Ma se non sai leggere!” rivolto alla povera Cognatina, bersaglio preferito dei nostri motteggi – difesa d’ufficio, ma concordo con PhyStyle. C’è qualcosa d’ingiusto nella legislazione specifica se si consente a persone non qualificate un ingresso gratuito mentre altre che ne avrebbero tutto il diritto devono pagare per intero – con tutto il rispetto, Cognatina e l'Ariana saranno pure qualificate nei loro campi ma di archeologia non ne capiscono una mazza.

Arriva il mio turno. Avendo lasciato il libretto a casa non posso dimostrare che studio archeologia, ma attendo almeno la riduzione del 50% come è accaduto a Segesta. Leggo tuttavia un cartello sibillino: dai 18 ai 25 anni ingresso 3€, dai 25 ai 65 6€. Bene. La bigliettaia mi fa presente che la riduzione vale solo fino ai ventiquattro anni e quando le spiego che a Segesta mi hanno fatto pagare il biglietto ridotto mi fornisce una giustificazione poco plausibile: “Che c’entra, a Segesta c’è quasi una gestione familiare”. Ah, ecco. Chissà quale famiglia a Selinunte gestisce il sito… La tipa mi assicura che provvederà immediatamente a correggere il cartello e stacca il biglietto. Sbatto la moneta da un euro sul bancone, aggiungo un biglietto da cinque e sbraito “Vi odio tutti”, reazione inconsulta che provoca il sorrisino imbarazzato della bigliettaia.

Entriamo all’interno dell’area e subito un signore ci avvicina illustrandoci un servizio navetta che definire furto è solo una delicatezza linguistica – e anche in questo caso non sono del tutto sicuro che una simile presenza all’interno del parco sia legale. L’omino propone un giro comodamente seduti blablabla mentre illustra blablabla parco archeologico più grande d’Europa blabla e ancora bla… Prezzo del giro completo: quindici euro. Forse questo prezzo va bene per il tedesco di turno che notoriamente è la vittima preferita dei truffatori, ma io non ho intenzione di spendere un euro di più in questo luogo. Solitamente non sono taccagno: avrei pagato a cuor leggero il biglietto completo se i miei soldi fossero serviti a mantenere il sito in buone condizioni. Selinunte sarà pure uno dei parchi archeologici più grandi d’Europa, ma è doloroso guardare in che condizioni versa. Ci saranno due o tre cartelli esplicativi in tutto il parco: noi riusciamo a districarci tra le rovine grazie all’ottima guida archeologica di Torelli e Coarelli sulla Sicilia. Ma gli altri? Non parliamo poi delle erbacce. Proliferano ovunque, in alcuni tratti riusciamo a malapena a distinguere le vestigia perché coperte da gramigna e fiori di campo, altre volte dobbiamo aprire noi un varco tra la folta vegetazione – mi sento come gli archeologi che scoprirono le rovine di Teotihuacan aprendosi la strada a colpi di machete. Mi chiedo come mai chi di dovere, invece di essere tanto scrupoloso sulle carte d’identità dei visitatori all’ingresso, non faccia alcuna segnalazione alla Sovrintendenza. Non è solo un puntiglio il mio, considerate che in alcuni casi le erbacce intaccano direttamente i reperti rovinandoli irrimediabilmente. Un’incuria imperdonabile.

Al di là dello stato pietoso delle rovine, al di là della discutibile operazione di anastilosi che ha interessato il tempio E, al di là della cantonata pazzesca che ho preso su questo tempio – non è uno pseudo-diptero, ma come ho potuto sbagliare in maniera così grossolana? – Selinunte è davvero affascinante. Mi lascio trasportare dalla fantasia. Penso a questa città posta di fronte al mare, alla miriade di botteguzze dei quartieri commerciali, ai cartaginesi che facevano affari coi locali, alle strade larghe e al loro impianto regolare. Penso alle maestose mura costruite con l’orgogliosa certezza di essere imprendibili, alla spianata dei templi e al meraviglioso colpo d’occhio per chi proveniva dal mare, al santuario di Demetra Malophoros e alle statuette fittili che i devoti dedicavano con fervore e speranza, alla via sacra e alle processioni trionfali… Ed infine penso al profondo senso di timore reverenziale che l’enorme tempio G, l’Olympieion, doveva provocare nei selinuntini. Fuori misura, gigantesco. Già adesso, arrampicandomi tra le rovine del tempio e dei suoi rocchi abbattuti (ok, nemmeno questo è legale), mi sento schiacciato dalla sua maestosità, mi sento una microscopica nullità che cerca di competere ridicolmente con la sua grandezza. Non stupisce che la gente abbia potuto credere nell’esistenza di Zeus se un edificio costruito dall’uomo osava sfidare il cielo.

Camminiamo in lungo e in largo per il parco soffermandoci di tanto in tanto a confrontare le informazioni che ci fornisce il testo con le rovine di fronte a noi e notiamo che cominciano a registrarsi alcune defezioni: Fratello e Cognatina si appartano e si allontanano piuttosto spesso facendo intuire al resto del gruppo di avere un po’ le scatole piene di tutte ‘ste muraglie di pietre e anche l’Ariana arranca sotto un sole proibitivo – alla fine del giorno verremo infatti scambiati per aragoste da più di un pescatore di frodo. Decidiamo di tornare alle nostre auto e di lasciare Selinunte. Prima di uscire definitivamente dal parco rivolgo un ultimo sguardo ai templi e penso come sarebbe una notte passata tra le rovine. Forse riuscirei per un attimo, fosse anche per un attimo, a sentirmi parte di un tutto, a sentirmi padrone legittimo della mia terra e di una pagina di storia tra le più belle che siano mai state scritte dalla mano dell’uomo.

1 maggio
Chiacchierate sorprendenti
Come spesso accade tra di noi, la grigliata si trasforma in un sontuoso banchetto pantagruelico che ci vede tutti impegnati a consumare l’enorme quantitativo di carne acquistata. Complimenti al macellaio: il taglio è buono, la carne tenera e saporita. Qualcuno avanza l’ipotesi che possa essere carne umana… Beh, i precedenti ci sono – la carne di Andrea! Scherzi a parte, anch’io mi trovo impegnato nel non facile compito di mantenere la fama della mia fame: non avevo considerato però la consistenza del pane nero di Castelvetrano. Ottimo pane, ancorché pesante da digerire: come se la pasta necessaria per sfornare tre forme di questo pane fosse stata pressata da un rullo compressore e dunque infornata. Il pane, dopo essere entrato all’interno del corpo, decide di prendere vita propria e di espandersi fino ad occupare tutto lo spazio disponibile. Ma tant’è. Spazzoliamo quasi tutto, ed è solo l’ultimo briciolo di decenza che c’impone di fermarci e di conservare il resto.

Dopo aver ripulito intorno ci ritroviamo in salotto ad assaporare le ultime ore al Plumbago. Decidiamo di chiamare tra di noi il padrone di casa anche per regolare la questione del pagamento. Pur rifiutando di saldare il conto prima del tempo il signor Matteo accetta di stare un po’ tra noi e di chiacchierare. Scopriamo con grande piacere un uomo dalla dialettica vivace che si trova sulla nostra stessa lunghezza d’onda e che sente con dolore le contraddizioni della nostra terra. Castelvetrano e la sua fama sinistra, nuovi boss e vecchie idee, politica e affarismo, Cuffaro e le collusioni, impegno sociale ed indifferenza – quando non diffidenza – generale, il mio programmino in radio e un indegno paragone con Peppino Impastato… Eppure sembra ottimista. Incredibilmente quell’uomo sembra essere più ottimista di noi, sembra conservare nell’anima una speranza che, almeno in me, esiste ormai quasi a livello di utopia. “Devo essere più ottimista di voi”, dice.

2 maggio
Andiamo a visitare Giallonardo?
Decidiamo di premiare la gentilezza e la disponibilità del signor Matteo dando una ripulita all’appartamento – ci sono fotografie di PhyStyle che sta di corvèe in bagno ma temo che non le potrò pubblicare... Carichiamo le auto, saldiamo il debito e scattiamo una fotografia di gruppo con il signor Matteo. Lo salutiamo affettuosamente lasciandolo con la promessa di ritornare. E torneremo sicuramente. Ciao Plumbago, nostra culla e dimora per questi tre giorni nella bella, sconosciuta, diffidente Sicilia occidentale, ci mancherai.

Ritorniamo sui nostri passi. Il tempo è migliore dell’andata, ma adesso siamo costretti ad andare dietro ai camion che intasano la famigerata SS 115. Non sapendo come trascorrere il tempo tra chiacchiere, musica ed impressioni sul viaggio, ridicolizziamo i cartelli stradali e le insegne pubblicitarie. Un’occupazione che ci aveva tenuti svegli anche in un altro viaggio, questo più folle e picaresco, che ci aveva condotti fino a Nizza a bordo della Punto di PhyStyle e della “mia” inossidabile Fiesta. Mancavano mio fratello e Cognatina, sostituiti dai Mandarini e da Stefano Topgun. In macchina con il Mandarino minor e Stefano Topgun… Piccola parentesi su Stefano. Personaggio kafkiano che s’è fatto quasi 6.000 chilometri con un unico paio di infradito, che ha dormito per la maggior parte del viaggio in un comodissimo fortino da lui approntato sul sedile posteriore della Fiesta con i materassini e i sacchi a pelo… In macchina con questi elementi atipici, trascorrevamo il tempo parlando di donne (tipica discussione da single di lungo percorso), cantando, ridendo di fregnacce e facendo a gara a chi trovasse lungo la strada il nome di cittadina, paese, esercizio commerciale più assurdo. Credo che la palma d’oro fosse spettata ad un paesino del Salernitano. Buonabitacolo. Discutevamo anche di argomenti seri, ma non sto qui ad annoiarvi ulteriormente. Già bastano questi post lunghissimi che probabilmente nessuno leggerà mai per intero.

Tornando al viaggio di ritorno da Castelvetrano, possiamo dire che questa occupazione ci ha distolto in alcuni casi da una noia mortale. Giallonardo il vincitore tra i luoghi, e il mitico, immarcescibile Market Ingross per gli esercizi commerciali. Market Ingross, come se noi stessimo viaggiando su una macchin. Arriviamo a Catania e rimaniamo imbottigliati nel traffico per quasi mezz’ora. Riusciamo a raggiungere la nostra postazione di partenza e decidiamo di consumare un’ultimo pranzo tutti insieme prima di tornare alle nostre occupazioni individuali. Siamo stati di nuovo incastrati dalla consuetudine e dalla quotidianità. Maledizione.

A mo’ di epilogo
Un viaggio con gli amici più cari. Un’esperienza che va condivisa prima che sia troppo tardi. Non importa se i soldi sono pochi, se si sta insieme un giorno o un mese, se si ha la fortuna di trovare il Plumbago o la sfortuna di dormire in tenda con una radice conficcata tra la terza e la quarta costola. Non importa se i posti a sedere in seconda del treno hanno la stessa comodità di un cactus, o se le auto sono delle utilitarie requisite alla sonnacchiosa vita cittadina. Non importa se andate avanti a panini o se il vostro fornello da campo ha bisogno di tre quarti d’ora per far bollire l’acqua della pasta. Non importa se i bagni del campeggio fanno rimpiangere le latrine di un accampamento militare o se le docce non hanno acqua calda. Non importa quanto siate stracciati, sporchi, dimessi, arrabattati, arruffati, non importa se la gente vi guarda come se foste appena sbarcati ad Ellis Island.

I vostri amici sono una delle cose più care che possiate serbare nel cuore. State insieme a loro, parlate con loro, litigate con loro, fatevi una canna, ubriacatevi insieme, andateci a letto magari, dividete esperienze, segreti, emozioni. Prima che il tempo, il lavoro, gli affetti, la famiglia vi allontanino da loro, prima che un giorno possiate incontrarvi e parlare di doppi infissi, di mutui da pagare, di colleghi molesti, di scatti sulla busta paga e di acidità di stomaco. Arriverà questo momento, credetemi. E allora rimpiangeremo con tutta la nostra anima di non poter tornare indietro e di non poter più fare seimila chilometri con un’auto scassata solo perché ci andava di farlo, di non poterci raccogliere intorno ad un fuoco estivo con una chitarra, dei bonghetti, vino, fumo e tanta incertezza per il futuro, di non poter più raccattare quattro vestiti in uno zaino e partire. Non tanto alla ricerca di un luogo ma di una meta. Per crescere insieme, per diventare uomini e donne insieme. Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare.