venerdì 5 maggio 2006

Sulle orme dei Greci di seconda mano - ultima parte

1 maggio

La carne di Andrea
Reduci da una serata davanti al camino ci svegliamo con un persistente odore di fumo che ristagna in salotto. Fortuna che c’è con noi l’Ariana, donna dai teutonici costumi che di buon mattino provvede ad aprire tutte le finestre generando nella zona giorno della casa una piacevole atmosfera artica. Primo maggio, ultimo giorno al Plumbago. Si ritiene necessaria una mastodontica grigliata che concluda degnamente la nostra gitarella: io, Cuzia e l’Ariana decidiamo di andare alla ricerca di un macellaio e di un panificio aperti in quel di Castelvetrano. Più facile trovare una pelle di yak stesa al sole ad asciugare. Tutto chiuso. Beh, è chiaro: il Primo Maggio dovrebbe essere la festa dei lavoratori e quindi, come minimo, i lavoratori non dovrebbero lavorare. Ma vista la nostra sbadataggine (riecheggiano le parole materne “potevi pensarci prima!”) speriamo in qualche pizzicagnolo stacanovista che abbia deciso di votare la propria vita al riempimento degli stomaci altrui.

Girando per la città semivuota ci rendiamo conto che tutto sommato Castelvetrano è un luogo carino, con le sue chiese, i palazzetti nobiliari, la porta urbica di lontana ascendenza medievale. Attraversiamo la città constatando che gli unici “esercizi commerciali” in funzione sono le motoape che vendono carciofi e patate. Mesta grigliata vegetariana? L’ultima nostra speranza si infrange sulla saracinesca abbassata de “La carne di Andrea”, macelleria dalla ragione sociale lievemente sinistra. Quando ogni cosa sembra decisa tuttavia notiamo con la coda dell’occhio un negozio di alimentari aperto sulla quale vetrina campeggia a bella vista una mucca pezzata parlante: “Mangiami senza timore!”. Mucca pazza. Sono indietro di una psicosi, da queste parti l’influenza aviaria presumibilmente non è ancora arrivata (per inciso, domanda da dietrologo: secondo voi quanto hanno pagato gli avicultori per far zittire i media?). L’alimentari funge anche da macelleria: ce l’abbiamo fatta.

Mentre osserviamo i tagli a disposizione il macellaio, un uomo dalla faccia simpatica e della maglietta sporca di chiazze di sudore equine – meglio non essere troppo schizzinosi – mi chiede qualcosa. Più difficile capire cosa. Il macellaio ripete la domanda e mi guarda sorridendo. Ops. Non sembra ostile, ma continuo a non capirlo. Eppure parliamo più o meno la stessa lingua, o dialetto per i più pignoli. Per fortuna le ragazze, visto che alla terza ripetizione non avevo ancora compreso la domanda, con intuito tutto femminile riescono a captarne il senso e ad interagire con l’autoctono. Nel frattempo, sperando di avere una migliore comprensione linguistica chiedo ad un ragazzo che attende il proprio turno dove poter trovare del pane. Con una precisione cartografica e grande disponibilità mi illustra il percorso da seguire per trovare un panificio aperto – che purtroppo si rivelerà chiuso. Ringraziamo, paghiamo e usciamo. La nostra grigliata è salva, il pane lo compreremo a Marinella. Selinunte, arriviamo.

1 maggio
Vi odio tutti

Prima di arrivare allo scavo facciamo una piccola deviazione sulla vergogna di Marinella, un insieme di costruzioni abusive costruite direttamente sugli scavi che il tempo e i condoni degli amici degli amici hanno presumibilmente fatto diventare legali. Troviamo un panificio aperto grazie anche alle laconiche indicazioni di un signore. “Pane?” e ci indica con il braccio la porta d’ingresso. Come se dovessero pagare le parole, come se anche una semplice indicazione potesse comprometterli irrimediabilmente – dev’essere un incubo dover vivere così. Comprato il pane ci dirigiamo verso l’area archeologica (consiglio gratuito, se vi trovate da queste parti comprate le cigas con i semi di sesamo, dei biscotti eccezionali da intingere nel Fragolino). Parcheggiamo e troviamo l’immancabile biglietteria occultata all’interno del negozio di cianfrusaglie pacchiane. Discussione con la bigliettaia: Cuzia, pur essendo la più accreditata per entrare gratis (una laurea in Lettere Classiche penso dovrebbe bastare) è costretta a pagare l’intero biglietto, mentre Lellina entra gratis a buon diritto, in quanto studentessa d’archeologia. Cognatina e l’Ariana riescono a convincere la bigliettaia che studenti di Lingue o di Scienze della Comunicazione hanno diritto ad entrare gratis se hanno nel proprio curriculum universitario una materia che riguarda lontanamente la storia. A nulla valgono le nostre piccate rimostranze o il sarcasmo di un “Ma se non sai leggere!” rivolto alla povera Cognatina, bersaglio preferito dei nostri motteggi – difesa d’ufficio, ma concordo con PhyStyle. C’è qualcosa d’ingiusto nella legislazione specifica se si consente a persone non qualificate un ingresso gratuito mentre altre che ne avrebbero tutto il diritto devono pagare per intero – con tutto il rispetto, Cognatina e l'Ariana saranno pure qualificate nei loro campi ma di archeologia non ne capiscono una mazza.

Arriva il mio turno. Avendo lasciato il libretto a casa non posso dimostrare che studio archeologia, ma attendo almeno la riduzione del 50% come è accaduto a Segesta. Leggo tuttavia un cartello sibillino: dai 18 ai 25 anni ingresso 3€, dai 25 ai 65 6€. Bene. La bigliettaia mi fa presente che la riduzione vale solo fino ai ventiquattro anni e quando le spiego che a Segesta mi hanno fatto pagare il biglietto ridotto mi fornisce una giustificazione poco plausibile: “Che c’entra, a Segesta c’è quasi una gestione familiare”. Ah, ecco. Chissà quale famiglia a Selinunte gestisce il sito… La tipa mi assicura che provvederà immediatamente a correggere il cartello e stacca il biglietto. Sbatto la moneta da un euro sul bancone, aggiungo un biglietto da cinque e sbraito “Vi odio tutti”, reazione inconsulta che provoca il sorrisino imbarazzato della bigliettaia.

Entriamo all’interno dell’area e subito un signore ci avvicina illustrandoci un servizio navetta che definire furto è solo una delicatezza linguistica – e anche in questo caso non sono del tutto sicuro che una simile presenza all’interno del parco sia legale. L’omino propone un giro comodamente seduti blablabla mentre illustra blablabla parco archeologico più grande d’Europa blabla e ancora bla… Prezzo del giro completo: quindici euro. Forse questo prezzo va bene per il tedesco di turno che notoriamente è la vittima preferita dei truffatori, ma io non ho intenzione di spendere un euro di più in questo luogo. Solitamente non sono taccagno: avrei pagato a cuor leggero il biglietto completo se i miei soldi fossero serviti a mantenere il sito in buone condizioni. Selinunte sarà pure uno dei parchi archeologici più grandi d’Europa, ma è doloroso guardare in che condizioni versa. Ci saranno due o tre cartelli esplicativi in tutto il parco: noi riusciamo a districarci tra le rovine grazie all’ottima guida archeologica di Torelli e Coarelli sulla Sicilia. Ma gli altri? Non parliamo poi delle erbacce. Proliferano ovunque, in alcuni tratti riusciamo a malapena a distinguere le vestigia perché coperte da gramigna e fiori di campo, altre volte dobbiamo aprire noi un varco tra la folta vegetazione – mi sento come gli archeologi che scoprirono le rovine di Teotihuacan aprendosi la strada a colpi di machete. Mi chiedo come mai chi di dovere, invece di essere tanto scrupoloso sulle carte d’identità dei visitatori all’ingresso, non faccia alcuna segnalazione alla Sovrintendenza. Non è solo un puntiglio il mio, considerate che in alcuni casi le erbacce intaccano direttamente i reperti rovinandoli irrimediabilmente. Un’incuria imperdonabile.

Al di là dello stato pietoso delle rovine, al di là della discutibile operazione di anastilosi che ha interessato il tempio E, al di là della cantonata pazzesca che ho preso su questo tempio – non è uno pseudo-diptero, ma come ho potuto sbagliare in maniera così grossolana? – Selinunte è davvero affascinante. Mi lascio trasportare dalla fantasia. Penso a questa città posta di fronte al mare, alla miriade di botteguzze dei quartieri commerciali, ai cartaginesi che facevano affari coi locali, alle strade larghe e al loro impianto regolare. Penso alle maestose mura costruite con l’orgogliosa certezza di essere imprendibili, alla spianata dei templi e al meraviglioso colpo d’occhio per chi proveniva dal mare, al santuario di Demetra Malophoros e alle statuette fittili che i devoti dedicavano con fervore e speranza, alla via sacra e alle processioni trionfali… Ed infine penso al profondo senso di timore reverenziale che l’enorme tempio G, l’Olympieion, doveva provocare nei selinuntini. Fuori misura, gigantesco. Già adesso, arrampicandomi tra le rovine del tempio e dei suoi rocchi abbattuti (ok, nemmeno questo è legale), mi sento schiacciato dalla sua maestosità, mi sento una microscopica nullità che cerca di competere ridicolmente con la sua grandezza. Non stupisce che la gente abbia potuto credere nell’esistenza di Zeus se un edificio costruito dall’uomo osava sfidare il cielo.

Camminiamo in lungo e in largo per il parco soffermandoci di tanto in tanto a confrontare le informazioni che ci fornisce il testo con le rovine di fronte a noi e notiamo che cominciano a registrarsi alcune defezioni: Fratello e Cognatina si appartano e si allontanano piuttosto spesso facendo intuire al resto del gruppo di avere un po’ le scatole piene di tutte ‘ste muraglie di pietre e anche l’Ariana arranca sotto un sole proibitivo – alla fine del giorno verremo infatti scambiati per aragoste da più di un pescatore di frodo. Decidiamo di tornare alle nostre auto e di lasciare Selinunte. Prima di uscire definitivamente dal parco rivolgo un ultimo sguardo ai templi e penso come sarebbe una notte passata tra le rovine. Forse riuscirei per un attimo, fosse anche per un attimo, a sentirmi parte di un tutto, a sentirmi padrone legittimo della mia terra e di una pagina di storia tra le più belle che siano mai state scritte dalla mano dell’uomo.

1 maggio
Chiacchierate sorprendenti
Come spesso accade tra di noi, la grigliata si trasforma in un sontuoso banchetto pantagruelico che ci vede tutti impegnati a consumare l’enorme quantitativo di carne acquistata. Complimenti al macellaio: il taglio è buono, la carne tenera e saporita. Qualcuno avanza l’ipotesi che possa essere carne umana… Beh, i precedenti ci sono – la carne di Andrea! Scherzi a parte, anch’io mi trovo impegnato nel non facile compito di mantenere la fama della mia fame: non avevo considerato però la consistenza del pane nero di Castelvetrano. Ottimo pane, ancorché pesante da digerire: come se la pasta necessaria per sfornare tre forme di questo pane fosse stata pressata da un rullo compressore e dunque infornata. Il pane, dopo essere entrato all’interno del corpo, decide di prendere vita propria e di espandersi fino ad occupare tutto lo spazio disponibile. Ma tant’è. Spazzoliamo quasi tutto, ed è solo l’ultimo briciolo di decenza che c’impone di fermarci e di conservare il resto.

Dopo aver ripulito intorno ci ritroviamo in salotto ad assaporare le ultime ore al Plumbago. Decidiamo di chiamare tra di noi il padrone di casa anche per regolare la questione del pagamento. Pur rifiutando di saldare il conto prima del tempo il signor Matteo accetta di stare un po’ tra noi e di chiacchierare. Scopriamo con grande piacere un uomo dalla dialettica vivace che si trova sulla nostra stessa lunghezza d’onda e che sente con dolore le contraddizioni della nostra terra. Castelvetrano e la sua fama sinistra, nuovi boss e vecchie idee, politica e affarismo, Cuffaro e le collusioni, impegno sociale ed indifferenza – quando non diffidenza – generale, il mio programmino in radio e un indegno paragone con Peppino Impastato… Eppure sembra ottimista. Incredibilmente quell’uomo sembra essere più ottimista di noi, sembra conservare nell’anima una speranza che, almeno in me, esiste ormai quasi a livello di utopia. “Devo essere più ottimista di voi”, dice.

2 maggio
Andiamo a visitare Giallonardo?
Decidiamo di premiare la gentilezza e la disponibilità del signor Matteo dando una ripulita all’appartamento – ci sono fotografie di PhyStyle che sta di corvèe in bagno ma temo che non le potrò pubblicare... Carichiamo le auto, saldiamo il debito e scattiamo una fotografia di gruppo con il signor Matteo. Lo salutiamo affettuosamente lasciandolo con la promessa di ritornare. E torneremo sicuramente. Ciao Plumbago, nostra culla e dimora per questi tre giorni nella bella, sconosciuta, diffidente Sicilia occidentale, ci mancherai.

Ritorniamo sui nostri passi. Il tempo è migliore dell’andata, ma adesso siamo costretti ad andare dietro ai camion che intasano la famigerata SS 115. Non sapendo come trascorrere il tempo tra chiacchiere, musica ed impressioni sul viaggio, ridicolizziamo i cartelli stradali e le insegne pubblicitarie. Un’occupazione che ci aveva tenuti svegli anche in un altro viaggio, questo più folle e picaresco, che ci aveva condotti fino a Nizza a bordo della Punto di PhyStyle e della “mia” inossidabile Fiesta. Mancavano mio fratello e Cognatina, sostituiti dai Mandarini e da Stefano Topgun. In macchina con il Mandarino minor e Stefano Topgun… Piccola parentesi su Stefano. Personaggio kafkiano che s’è fatto quasi 6.000 chilometri con un unico paio di infradito, che ha dormito per la maggior parte del viaggio in un comodissimo fortino da lui approntato sul sedile posteriore della Fiesta con i materassini e i sacchi a pelo… In macchina con questi elementi atipici, trascorrevamo il tempo parlando di donne (tipica discussione da single di lungo percorso), cantando, ridendo di fregnacce e facendo a gara a chi trovasse lungo la strada il nome di cittadina, paese, esercizio commerciale più assurdo. Credo che la palma d’oro fosse spettata ad un paesino del Salernitano. Buonabitacolo. Discutevamo anche di argomenti seri, ma non sto qui ad annoiarvi ulteriormente. Già bastano questi post lunghissimi che probabilmente nessuno leggerà mai per intero.

Tornando al viaggio di ritorno da Castelvetrano, possiamo dire che questa occupazione ci ha distolto in alcuni casi da una noia mortale. Giallonardo il vincitore tra i luoghi, e il mitico, immarcescibile Market Ingross per gli esercizi commerciali. Market Ingross, come se noi stessimo viaggiando su una macchin. Arriviamo a Catania e rimaniamo imbottigliati nel traffico per quasi mezz’ora. Riusciamo a raggiungere la nostra postazione di partenza e decidiamo di consumare un’ultimo pranzo tutti insieme prima di tornare alle nostre occupazioni individuali. Siamo stati di nuovo incastrati dalla consuetudine e dalla quotidianità. Maledizione.

A mo’ di epilogo
Un viaggio con gli amici più cari. Un’esperienza che va condivisa prima che sia troppo tardi. Non importa se i soldi sono pochi, se si sta insieme un giorno o un mese, se si ha la fortuna di trovare il Plumbago o la sfortuna di dormire in tenda con una radice conficcata tra la terza e la quarta costola. Non importa se i posti a sedere in seconda del treno hanno la stessa comodità di un cactus, o se le auto sono delle utilitarie requisite alla sonnacchiosa vita cittadina. Non importa se andate avanti a panini o se il vostro fornello da campo ha bisogno di tre quarti d’ora per far bollire l’acqua della pasta. Non importa se i bagni del campeggio fanno rimpiangere le latrine di un accampamento militare o se le docce non hanno acqua calda. Non importa quanto siate stracciati, sporchi, dimessi, arrabattati, arruffati, non importa se la gente vi guarda come se foste appena sbarcati ad Ellis Island.

I vostri amici sono una delle cose più care che possiate serbare nel cuore. State insieme a loro, parlate con loro, litigate con loro, fatevi una canna, ubriacatevi insieme, andateci a letto magari, dividete esperienze, segreti, emozioni. Prima che il tempo, il lavoro, gli affetti, la famiglia vi allontanino da loro, prima che un giorno possiate incontrarvi e parlare di doppi infissi, di mutui da pagare, di colleghi molesti, di scatti sulla busta paga e di acidità di stomaco. Arriverà questo momento, credetemi. E allora rimpiangeremo con tutta la nostra anima di non poter tornare indietro e di non poter più fare seimila chilometri con un’auto scassata solo perché ci andava di farlo, di non poterci raccogliere intorno ad un fuoco estivo con una chitarra, dei bonghetti, vino, fumo e tanta incertezza per il futuro, di non poter più raccattare quattro vestiti in uno zaino e partire. Non tanto alla ricerca di un luogo ma di una meta. Per crescere insieme, per diventare uomini e donne insieme. Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare.

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