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lunedì 18 gennaio 2010

I luoghi comuni di Corleone

Una gita domenicale promossa da “Libera – associazioni, nomi e numeri contro le mafie” come se ne fanno tante in un posto come pochi ne esistono. Provincia di Palermo, feudo Sicilia: Corleone. Dici Corleone e la mente viaggia verso Don Vito che accarezza il gatto nel giorno del matrimonio della figlia, campieri baffuti con coppole e lupare, favori e ammazzamenti, collusioni e omertà. Echeggia la mente del vociare dei media in cerca di caratterizzazioni frettolose che hanno dipinto a foschi tratti questa cittadina dell'Alto Belice come se fosse solo il luogo che ha tenuto a battesimo le gesta vili dei vari Riina, Provenzano e Brusca. Corleone terra di mafia è sempre stato detto. Abbiamo assorbito negli anni sentenze lapidarie che odoravano di pregiudizi, sangue e polvere da sparo senza capire, ciancicando stancamente triti luoghi comuni: e adesso, toccata con mano la realtà complessa di quei luoghi e il coraggio di alcuni dei loro abitanti si prova un profondo senso d'imbarazzo e una sottile vergogna nel dover ammettere di essersi sbagliati.


Grazie a “Libera”, infatti, domenica 17 gennaio oltre cento “turisti responsabili” provenienti da tutta la provincia di Ragusa hanno potuto visitare alcuni dei luoghi assurti a modello per quanti agognano libertà dal giogo delle mafie. Prima tappa della carovana è stata Portella della Ginestra, il luogo in cui il primo maggio del 1947 undici contadini, “comunisti per il pane”, furono massacrati in quella che gli storici definiscono la prima strage di Stato per mano mafiosa. Insieme a Caterina Pellingra e Davide Perricone, mediatori culturali di “Libera Terra Mediterraneo”, il gruppo ha ripercorso la storia della mafia nell'Alto Belice, nata essenzialmente come mafia agraria votata alla difesa del latifondo e trasformatasi con il trascorrere del tempo in organizzazione criminale internazionale dedita ad ogni genere di attività illecita. Successivamente i pullman di “Libera” hanno raggiunto San Cipirello, dove le cooperative “Placido Rizzotto” e “Pio la Torre” coltivano quasi quattrocento ettari di terreni confiscati alla mafia. Nella cantina sorta sul terreno sequestrato a Giovanni Brusca e che adesso produce il vino “Centopassi” uno dei fondatori delle cooperative ha illustrato le difficoltà e i sacrifici che ciascuno dei soci ha dovuto affrontare per il consolidamento della struttura. Intimidazioni certo, diffidenza degli abitanti del luogo ma anche pastoie burocratiche e difficoltà iniziale nel reperimento dei fondi che ha portato i soci a rinunciare per un anno e mezzo al proprio stipendio pur di non abbandonare il sogno di un lavoro affrancato dal dominio dei boss. I “turisti responsabili” di Libera si sono poi spostati all'agriturismo “Terre di Corleone” realizzato in un casolare appartenente a Totò Riina dove hanno potuto gustare in anteprima – la struttura sarà aperta al pubblico tra poche settimane – un pranzo preparato con i prodotti biologici delle cooperative Libera Terra. Ultima tappa della carovana Corleone, dove il gruppo ha visitato il Centro internazionale di documentazione sulle mafie e del movimento antimafia che ospita, tra l'altro, una sala contenente i faldoni del maxi-processo che assestò un colpo durissimo alle cosche mafiose. Infine, un giro per Corleone, dove il gruppo ha potuto conoscere i veri Corleonesi e scoprire un popolo ospitale, laborioso e tenace. Né più né meno di tanti altri siciliani: un popolo che si è stancato di essere considerato speciale e che ha voglia di mostrare al mondo la propria normalità e il proprio coraggio nell'affrontare il cancro mafioso. Perché la lotta alle cosche acquista un valore ancora più grande dove le minacce talora si concretizzano in proiettili sparati addosso.


Non siamo ingenui: Corleone è ancora terra di mafia. Eppure è anche, e forse soprattutto, terra di antimafia. Una terra in cui sempre più persone decidono di sfidare le cosche alla luce del sole ipotecando ogni cosa – la propria tranquillità, ma anche la propria vita – per una speranza.

Davvero il riscatto dei siciliani riparte da Corleone. Senza la pletora di tanti professionisti dell'antimafia: semplicemente, lavorando le terre che lo Stato italiano ha confiscato ai boss del luogo. Perché si può fare antimafia anche producendo il vino, arando la terra o mietendo il grano, perché trasformare in risorsa per il territorio un bene confiscato alla mafia ha più valore dei vuoti proclami grondanti retorica del politico di turno, perché il lavoro onesto delle cooperative sociali sorte sulle terre strappate al dominio mafioso riscatta dal ricatto mascherato da “lavoro” che i mafiosi pretendono di dare. La mafia si pasce della povertà e cresce nelle sacche di indigenza: solo dando come diritto ciò che le organizzazioni criminali concedono come privilegio, si potrà sconfiggere questa malerba che soffoca il popolo siciliano. A Corleone ci credono: tocca a noi siciliani seguire il loro esempio.

martedì 9 maggio 2006

Morire per delle idee, e di altre sciocchezze



Sono passati ventotto anni da quel 9 maggio 1978. Io non c’ero, eppure so. Quel giorno il cadavere di Aldo Moro veniva ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani a Roma. Brigate Rosse, brutta storia. E non avevano capito, loro – quale terrificante errore –, che il cuore dello Stato non poteva essere colpito: semplicemente perché non esiste. Lo Stato non ha centro né periferia, lo Stato è una metastasi fatta di gerarchie, burocrazia, potere e sordidi compromessi, lo Stato è un mostro impersonale che fagocita se stesso trascinando con sé i singoli cittadini. Ma non dirò nulla di Moro, supposto muscolo cardiaco di uno stato inesistente. Per lui basteranno le commemorazioni ufficiali, i ricordi commossi di amici e colleghi, a lui saranno rivolti i picchetti d’onore: rumori, marcette e retorica in pompa magna. No.


Vorrei parlarvi invece di una regione in cui anche lo Stato è latitante, vorrei sussurrarvi di un paesello dimenticato da Dio e dagli uomini, vorrei condividere con voi il ricordo di un ragazzo come noi, ucciso come un cane dalla mafia solo perché aveva voluto opporsi ad un delirante giornaliero indicibile stato di cose… Il 9 maggio del 1978, quando io non ero altro che una possibilità statistica, moriva Peppino Impastato, condannato a morte da Tano Badalamenti e dal suo complice Vito Palazzolo… Mafiosi. Eppure dire mafioso in un paesino come Cinisi non significava dire molto. Una società chiusa, diffidente, una struttura patriarcale retta secondo le tipiche gerarchie di una società contadina: è una mafia strisciante, perfettamente permeata nel territorio della politica cittadina e a suo agio nelle più strette relazioni parentali e familiari. Una precisa mentalità, una terrificante, gretta, mentalità che prospera ancora oggi rigogliosa nelle menti malate di molti siciliani.

Parlo della logica del particolare, dell’accumulazione, del possesso della roba di verghiana memoria. Parlo della sopraffazione, dell’omertà e di una stupida connivenza basata sull’onore. Parlo del potere gestito attraverso tutte le sue possibili forme e tenendo conto di tutti i mezzi disponibili compresi quelli del ricatto, della minaccia, dell’omicidio. Tutto normale, come se la mafia potesse essere considerata una modalità d’essere del siciliano. Ma non è può essere così, cazzo! Semplicemente, Peppino Impastato non poteva riconoscersi in questa logica di illegalità normalizzata, non poteva accettarla. Gli appalti pilotati, la speculazione edilizia, il traffico di droga, le evidenti collusioni – ovvero convergenza d'interessi – tra mafia e politica erano perciò diventati i suoi mulini a vento preferiti. Forse non cosciente del fatto che dietro i mulini stavano nascosti giganti nani pronti a trafiggerlo. Peppino Impastato non inseguiva delle utopie, non correva dietro sbrindellate banderuole d’ideali diventate di moda come per molti ragazzi di oggi.

Lui credeva davvero di poter cambiare il mondo, se non altro quello suo, particolarissimo, di Cinisi. Pensate per un attimo ad un paesetto arretrato del Sud più sud: prendete un’associazione, “Musica e Cultura”, che diventa punto di riferimento per i giovani di Cinisi e dintorni. Prendete una decina di ragazze che si associano dando vita al “Collettivo femminista”, che acquistano coscienza politica, che si espongono all’accigliato giudizio di una pubblica piazza durante i comizi. Prendete un gruppo di ragazzi e ragazze, il “Collettivo antinucleare”, che formulano - in Sicilia! - un documento programmatico di quindici pagine sui rischi del nucleare. Prendete una radio, “Radio Aut”, che svolge controinformazione e che cerca di scardinare follemente i meccanismi mafiosi e di sbeffeggiarne pubblicamente i suoi rappresentanti. Aggiungete infine un ragazzo, inquieto ed audace, che vuole candidarsi al consiglio comunale di Cinisi, che vuole portare una ventata di legalità in un ambiente malsano e corrotto.

Tirate le somme, ed avrete la vita di Peppino Impastato. Guardatevi intorno, e capirete anche il motivo della sua morte. Colpire un muro di gomma. E capirete anche perché solo il 6 dicembre 2000 una commissione parlamentare antimafia ha accertato le responsabilità di quei rappresentanti delle istituzioni che volevano depistare le indagini infangando la memoria di Peppino e cercando di farlo passare per terrorista, capirete perché solo l’11 aprile del 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio. Peppino Impastato aveva ragione, ma è morto, è morto ugualmente: ucciso da un manipolo di codardi imbecilli che ancora oggi tiene in scacco l’intera Sicilia, ucciso dal silenzio e dalla neghittosità della sua terra, ucciso da uno Stato lontano ed indifferente.

E a volte non posso fare a meno di pensare che la morte di Peppino sia stata inutile, che questa terra non potrà mai essere migliore perché sospesa in un destino di passiva ineluttabilità che risucchia quanti si illudono di poter cambiare qualcosa. "Sangue pazzo", dice lo zio americano di Peppino nel film "I cento passi".

Già, proprio di pazzi avremmo bisogno, di pazzi furiosi, di teste calde come Peppino disposte a sacrificare la propria vita per un ideale di cui non si vedrà mai la realizzazione, per la somma idea della giustizia, per la propria terra maledettamente ingrata.

Qui trovate il sito dedicato a Peppino.

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