martedì 9 maggio 2006

Morire per delle idee, e di altre sciocchezze



Sono passati ventotto anni da quel 9 maggio 1978. Io non c’ero, eppure so. Quel giorno il cadavere di Aldo Moro veniva ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani a Roma. Brigate Rosse, brutta storia. E non avevano capito, loro – quale terrificante errore –, che il cuore dello Stato non poteva essere colpito: semplicemente perché non esiste. Lo Stato non ha centro né periferia, lo Stato è una metastasi fatta di gerarchie, burocrazia, potere e sordidi compromessi, lo Stato è un mostro impersonale che fagocita se stesso trascinando con sé i singoli cittadini. Ma non dirò nulla di Moro, supposto muscolo cardiaco di uno stato inesistente. Per lui basteranno le commemorazioni ufficiali, i ricordi commossi di amici e colleghi, a lui saranno rivolti i picchetti d’onore: rumori, marcette e retorica in pompa magna. No.


Vorrei parlarvi invece di una regione in cui anche lo Stato è latitante, vorrei sussurrarvi di un paesello dimenticato da Dio e dagli uomini, vorrei condividere con voi il ricordo di un ragazzo come noi, ucciso come un cane dalla mafia solo perché aveva voluto opporsi ad un delirante giornaliero indicibile stato di cose… Il 9 maggio del 1978, quando io non ero altro che una possibilità statistica, moriva Peppino Impastato, condannato a morte da Tano Badalamenti e dal suo complice Vito Palazzolo… Mafiosi. Eppure dire mafioso in un paesino come Cinisi non significava dire molto. Una società chiusa, diffidente, una struttura patriarcale retta secondo le tipiche gerarchie di una società contadina: è una mafia strisciante, perfettamente permeata nel territorio della politica cittadina e a suo agio nelle più strette relazioni parentali e familiari. Una precisa mentalità, una terrificante, gretta, mentalità che prospera ancora oggi rigogliosa nelle menti malate di molti siciliani.

Parlo della logica del particolare, dell’accumulazione, del possesso della roba di verghiana memoria. Parlo della sopraffazione, dell’omertà e di una stupida connivenza basata sull’onore. Parlo del potere gestito attraverso tutte le sue possibili forme e tenendo conto di tutti i mezzi disponibili compresi quelli del ricatto, della minaccia, dell’omicidio. Tutto normale, come se la mafia potesse essere considerata una modalità d’essere del siciliano. Ma non è può essere così, cazzo! Semplicemente, Peppino Impastato non poteva riconoscersi in questa logica di illegalità normalizzata, non poteva accettarla. Gli appalti pilotati, la speculazione edilizia, il traffico di droga, le evidenti collusioni – ovvero convergenza d'interessi – tra mafia e politica erano perciò diventati i suoi mulini a vento preferiti. Forse non cosciente del fatto che dietro i mulini stavano nascosti giganti nani pronti a trafiggerlo. Peppino Impastato non inseguiva delle utopie, non correva dietro sbrindellate banderuole d’ideali diventate di moda come per molti ragazzi di oggi.

Lui credeva davvero di poter cambiare il mondo, se non altro quello suo, particolarissimo, di Cinisi. Pensate per un attimo ad un paesetto arretrato del Sud più sud: prendete un’associazione, “Musica e Cultura”, che diventa punto di riferimento per i giovani di Cinisi e dintorni. Prendete una decina di ragazze che si associano dando vita al “Collettivo femminista”, che acquistano coscienza politica, che si espongono all’accigliato giudizio di una pubblica piazza durante i comizi. Prendete un gruppo di ragazzi e ragazze, il “Collettivo antinucleare”, che formulano - in Sicilia! - un documento programmatico di quindici pagine sui rischi del nucleare. Prendete una radio, “Radio Aut”, che svolge controinformazione e che cerca di scardinare follemente i meccanismi mafiosi e di sbeffeggiarne pubblicamente i suoi rappresentanti. Aggiungete infine un ragazzo, inquieto ed audace, che vuole candidarsi al consiglio comunale di Cinisi, che vuole portare una ventata di legalità in un ambiente malsano e corrotto.

Tirate le somme, ed avrete la vita di Peppino Impastato. Guardatevi intorno, e capirete anche il motivo della sua morte. Colpire un muro di gomma. E capirete anche perché solo il 6 dicembre 2000 una commissione parlamentare antimafia ha accertato le responsabilità di quei rappresentanti delle istituzioni che volevano depistare le indagini infangando la memoria di Peppino e cercando di farlo passare per terrorista, capirete perché solo l’11 aprile del 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio. Peppino Impastato aveva ragione, ma è morto, è morto ugualmente: ucciso da un manipolo di codardi imbecilli che ancora oggi tiene in scacco l’intera Sicilia, ucciso dal silenzio e dalla neghittosità della sua terra, ucciso da uno Stato lontano ed indifferente.

E a volte non posso fare a meno di pensare che la morte di Peppino sia stata inutile, che questa terra non potrà mai essere migliore perché sospesa in un destino di passiva ineluttabilità che risucchia quanti si illudono di poter cambiare qualcosa. "Sangue pazzo", dice lo zio americano di Peppino nel film "I cento passi".

Già, proprio di pazzi avremmo bisogno, di pazzi furiosi, di teste calde come Peppino disposte a sacrificare la propria vita per un ideale di cui non si vedrà mai la realizzazione, per la somma idea della giustizia, per la propria terra maledettamente ingrata.

Qui trovate il sito dedicato a Peppino.

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