lunedì 8 maggio 2006

Sulle orme dei Greci di seconda mano - seconda parte

30 aprile
Segesta, o dei Greci di seconda mano

Riusciamo a svegliarci ad un orario decoroso e riusciamo anche a non consumare tutta l’acqua calda per le docce. Dopo aver fatto colazione e preparato il nostro pranzo a sacco… Ah, piccola parentesi sul pranzo a sacco. Il sacco è praticamente vuoto: mele, acqua, dei succhi di frutta, qualche brioche. In effetti né la spesa preventiva che abbiamo portato da Catania né la spesa suppletiva di ieri hanno considerato il pranzo di oggi. Beh, poco male, integreremo con qualcos’altro direttamente a Segesta. Imbocchiamo l’autostrada in direzione Trapani: larga, ben tenuta, quasi deserta, colline costellate di vigneti lungo tutto il tragitto – d’altronde, il Duca di Salaparuta è di casa da queste parti. Il paesaggio scorre tranquillamente ai lati mentre io, PhyStyle e Cuzia chiacchieriamo. Non un chiacchiericcio invasivo, un terrore da horror vacui: alterniamo agli scambi di opinione su questi giorni alcuni momenti di silenzio, di quelli che puoi dividere con i tuoi amici senza sentirti a disagio.

Dopo aver imboccato una bretella un cartello ci indica chiaramente la direzione da seguire per l’area archeologica di Segesta. Difatti, poco dopo, vediamo apparire in tutta la sua enigmatica maestosità il tempio che si staglia contro il cielo, incurante dei secoli che gli scorrono attorno. Parcheggiamo senza alcuna difficoltà sullo spiazzo antistante l’ingresso al parco e ci dirigiamo verso la biglietteria. Cippi con il fascio littorio dall’aria destra ci ricordano che il parco fu inaugurato durante il fascismo, e così l’insegna del bar che fa da pendant con il resto, Punto di ristoro. Per motivi bassamente commerciali la biglietteria è posta all’interno di un negozietto che vende pacchianerie turistiche, dai libri sulla Sicilia al posacenere “ricordo di Segesta” al pupo siciliano alto come un bambino di quattro anni. Biglietti! In effetti, in quanto studente di lettere antiche con indirizzo archeologico avrei diritto all’ingresso gratuito, ma avendo dimenticato il libretto a casa (maledizione!) fruisco solo di una riduzione del 50% valida fino ai venticinque anni – riduzione che non sempre è valida per tutti i siti, come avrete modo di vedere per Selinunte.

Saliamo verso la spianata su cui è costruito il tempio. La salita è piuttosto ripida, ma osservo con grande ammirazione frotte di anziani arrampicarsi sui gradini dell’erta, alcuni aiutati da un bastone – dovrei vergognarmi della mia pigrizia! All’improvviso, eccolo. Un’emozione indescrivibile. “È bellissimo, è bellissimo” continuo a biascicare in preda ad un probabile attacco di sindrome di Stendhal. Come se il mio corpo si ricongiungesse allo spirito dei Greci che avevano deciso di fondare in questi luoghi selvaggi la propria apoikia, come se riuscissi ancora ad ascoltare la voce di questi strani Greci che decisero di mescolarsi alle genti puniche. Come se riuscissi per un attimo a penetrare il mistero di questo tempio. Un tempio greco che non è un tempio greco. Emana un fascino particolare, una luce barbara che si discosta dall’armonia e dallo stile tipicamente greci: non fosse altro perché non ha la cella! Anche se studi recenti (nonché la semplice evidenza, come per i gradoni del teichobate) sembrano aver dimostrato con una certa sicurezza che il tempio rimase incompleto io non riesco a convincermene. So che è un atteggiamento poco scientifico dare ascolto alle sensazioni ma talora non posso farne a meno.

Nemmeno il greco più compromesso con le popolazioni locali avrebbe anteposto la costruzione di un teatro a quella del tempio (come sembrerebbe essere accaduto a Segesta). Non ci troviamo di fronte ai Romani, gente pragmatica che costruiva un tempio per tutte le divinità o inventava dei culti ad usum Delphini e al diavolo tutto il resto! Per i Greci la religione non era una pura formalità, rappresentava anzi una parte integrante ed irrinunciabile della propria esistenza. Non dimentichiamo poi una considerazione squisitamente pratica: perché costruire prima l’esterno del tempio, perché mettere in opera le colonne della peristasi prima della cella? Non sarebbe stato molto agevole trasportare i materiali da costruzione passando attraverso gli stretti intercolumni… Forse non riesco ad abbandonare le vecchie – e suggestive – teorie che lo vorrebbero un sacello sacro per un culto greco-punico non meglio identificabile, ma a me questa teoria del tempio incompleto proprio non va giù: non c’è peggior sordo di chi non vuol vedere. Avete capito bene.

Lasciamo la spianata del tempio mentre io e Cuzia ci perdiamo in una tipica discussione dottorale che solo fra umanisti incalliti può avvenire - sterile al punto giusto - su alcuni punti oscuri della storia di Segesta. Decidiamo di pranzare prima di visitare il resto degli scavi e così andiamo ad integrare il nostro sacco al Punto di ristoro. Prezzi da autogrill per focacce, pizze e panini dal sapore di cartone e dal contenuto discutibile: calcoliamo con una punta d’ironia che il costo reale per gli ingredienti della nostra focaccia si aggira intorno ai 30 centesimi di euro. Abbiamo pagato due euro e cinquanta a porzione. Raggiungiamo la collina dell’agorà tramite la navetta per la quale abbiamo dovuto acquistare un biglietto a parte. Si percepisce con chiarezza disarmante lo stato di abbandono degli scavi “in corso” e la precarietà delle coperture che sembrano essere diventate definitive – interessanti le coperture in eternit, materiale vietato per legge da qualche decennio. Ci rendiamo conto che i finanziamenti destinati agli scavi sono stati dirottati altrove e che i blablabla del politico di turno sulle risorse e sui beni culturali da preservare (dovrebbero fischiare le orecchie a Fabio Granata quindi) altro non sono se non l’ennesima mistificazione della parola e il tentativo populista di raccattare voti da chi questi beni probabilmente non visiterà mai. Il servizio navetta è affidato a privati (e non sono del tutto sicuro che ciò sia legale), i cartelloni delle spiegazioni sono in molti casi illeggibili perché rovinati da generazioni e mai più sostituiti, le recinzioni cadenti ed incerte. Solo i restauri sembrano essere stati realizzati ad opera d’arte.

Ci spostiamo al teatro, in cui intervalliamo momenti di serietà professorale con tanto di spiegazioni su tenaglie, grappe, olivelle ed opere a scacchiera, a momenti di schiamazzi e di ilarità pura, provocando gli sguardi accigliati dei turisti tedeschi. Vaghiamo senza meta precisa per l’acropoli, non potendo fare a meno di contemplare un paesaggio davvero incredibile: certo che i Greci sapevano bene dove edificare le proprie città. Scendiamo lentamente lungo il crinale della collina fermandoci di tanto in tanto ad osservare i miseri resti della gloria di Segesta e delle sue alterne vicende: quello che rimane del Castello, la moschea, il quartiere ellenistico, rovine incomprensibili. Migliaia di cocci ovunque: vasi, tegole, ceramica sigillata – il piatto di plastica dell’antichità – segno che la mano del vandalo e del tombarolo è arrivata prima di quella dello studioso lasciando dietro di sé solo minuscoli frammenti senza valore. PhyStyle prende in mano un coccio su cui s’intravedono ancora delle tracce di colore e mi chiede: “Ti rendi conto che ha almeno 2500 anni?”. Sì Phy, me ne rendo conto. Ecco perché non ho scelto Medicina.

30 aprile
Toccata e fuga nella terra dei Salvo
I Salvo, gli esattori della mafia per i deboli di memoria. Dopo l’escursione a Segesta ritorniamo sui nostri passi attraverso strade statali che di statale hanno solo il nome: trazzere di campagna nobilitate presumibilmente durante il famigerato ventennio che in Sicilia fu latore di infrastrutture e di opere di modernizzazione – una fra tutte la ferrovia e la littorina, mezzo di trasporto al quale noi siciliani siamo così affezionati tanto da usarlo tuttora. Certo, il ventennio portò anche una dittatura nonché una guerra nonché un paese devastato nonché qualche milione di morti inutili sulla coscienza, ma se parlate con un vecchietto delle nostre parti non mancherà di rammentare che “si stava meglio quando si stava peggio” perché “con Mussolini si poteva dormire con le porte aperte”. Premesso che la maggior parte della gente poteva dormire con le porte aperte perché i ladri non avrebbero trovato niente da rubare, dobbiamo riconoscere che i metodi cruenti del prefetto Mori qualche risultato lo ottennero. Se non altro quello di mettere tra parentesi il problema, mandando al confino i mafiosi e i loro fiancheggiatori. Lo sbaglio semmai fu quello di considerare la mafia come un fenomeno astratto, non legato al territorio, mentre sappiamo benissimo che arrestato un boss ne è già pronto un altro e che il fenomeno mafioso va combattuto a partire dalle connivenze locali.

Che c’entra direte voi questo lungo preambolo con Salemi? Tutto e niente, dal momento che le mie sono solo pennellate veloci di una realtà che non ho potuto conoscere meglio. La spedizione era stata decisa già la sera prima di fronte ad un bicchierino di amaro, il Monte Polizo, prodotto a Salemi. Di strada da Segesta, ci saremmo fermati a Salemi per far man bassa di bottiglie, vista la produzione quasi artigianale di questo buonissimo amaro. Certo, avevamo giustificato questa tappa anche con la presenza di un castello federiciano – sì sì, Federico di Svevia! – da visitare… Giriamo con la macchina pasticciando un po’ con le indicazioni e ci infiliamo ben presto in affascinanti stradine ciottolose (belle davvero, ma sapete quando si dice strette?), eredità di un impianto medievale che la parte vecchia della città conserva ancora. Non riusciamo a credere che straduzze simili sbuchino da qualche parte, con le loro curve ad angolo che portano evidenti i segni delle fiancate di automobilisti poco avvezzi alle manovre molecolari: chiediamo lumi ad un signore gentilissimo che, sorridendo, ci rassicura sulla direzione da seguire. Che caro alieno.

Arriviamo sulla piazza principale e ci fermiamo: domenica pomeriggio, saranno state le cinque. Scendiamo dalla macchina e percepiamo nuovamente formarsi il gelo intorno a noi. Quella fastidiosa sensazione di essere osservati. Più che una sensazione è una constatazione: tutti, e dico tutti – immigrati compresi – ci guardano con sospetto e diffidenza, spostano il loro sguardo corrucciato dalle auto a noi, dai nostri corpi alle auto. Le targhe Rg colpiscono ancora. La provincia considerata da certi nostri conterranei come babba, e cioè stupida, inetta, incapace di avere un mandamento gestito da uomini d’onore seri e motivati. Ma che vergogna. Ci sentiamo decisamente a disagio, anche perché gli autoctoni continuano a squadrarci dall’alto in basso senza dar segno di avere altra occupazione. Entriamo nell’unico bar aperto. La scena degli sguardi si ripete all’interno: il proprietario si sente in dovere di effettuare un’accurata radiografia su ognuno di noi e di memorizzare le nostre facce fissandoci per un tempo indefinito, il barista e due altri clienti, che prima chiacchieravano, si zittiscono bruscamente al nostro ingresso. Chiediamo dei caffè e chiediamo anche dove possiamo trovare delle bottiglie di amaro. Il barista riprende la discussione con gli altri avventori e, ignorandoci apparentemente, prepara i nostri caffè. Chiediamo nuovamente al barista dove possiamo trovare l'amaro e lui, sfingeo, farfugliando qualcosa come “quante ve ne servono ora vedo quante ce ne sono” scompare nel retro del bar. Ritorna con due delle tre bottiglie richieste e le poggia sul bancone: forse è il suo modo di mostrarsi gentile.

Entrano altri avventori e chiedono dei caffè. Nel frattempo Cuzia, stoicamente votata alla visita del castello chiede “Scusi, il castello è aperto?”: voltandoci le spalle, con il calore di un mammuth incastrato nel permafrost siberiano il barista risponde “No”. Testardi, tentiamo ancora un dialogo: “Possiamo arrivare al castello in macchina?”. Il barista si gira e chiede: “Che macchine avete?”. Mmm. “Una grande e una piccola” – adesso cominciamo ad essere sospettosi pure noi. “Ma che macchine sono?” e allora Cognatina, bruciandoci sul tempo risponde con beata ingenuità: “Una 156 e una Fiesta”. Il barista diventa improvvisamente più loquace. Ci spiega che il castello è chiuso e si visita solo per appuntamento (chiaramente nessuno conosce l’eventuale numero da chiamare) ma che vale la pena di andare a vedere comunque, magari c’è qualcuno dei volontari che lo sta facendo visitare proprio in quel momento: “Prendete quella salita e andate su fino in cima, poi parcheggiate le macchine e continuate a piedi”. A completare la trasformazione crisalidea il barista fa comparire da un cassetto chiuso a chiave la terza bottiglia di amaro e ci chiede una cifra che sembra buttata lì a caso, dieci euro a bottiglia. Paghiamo, ringraziamo e usciamo. Il proprietario del bar ci segue da lontano con gli occhi, la gente sulla piazza ritorna a fissarci. Decidiamo di andare via, altro che castello federiciano. Che bel posto Salemi, peccato che la gente sia così… Così. I luoghi comuni saranno pure odiosi, ma caspita, non si può dire che c’impegniamo molto per sfatarli.


30 aprile
In morte del Risorgimento
Lasciata Salemi anzitempo, ci dirigiamo verso il Pianto Romano, l’ossario mausoleo che ricorda i caduti della battaglia di Calatafimi e i soldati garibaldini periti nell’impresa. Saliamo verso l’ossario per una tortuosa strada provinciale che il mondo sembra aver dimenticato: buche ovunque, protezioni risibili, guard-rail d’anteguerra, inquietanti cartelli "Attenzione mine". Arriviamo all’ossario e subito ci assale un profondo senso di mestizia. Quegli uomini ormai ridotti ad un mucchio di polvere erano morti per noi, erano morti per liberare la nostra terra dal giogo borbonico – per sostituirlo con il giogo sabaudo, ma loro non lo sapevano ancora. Un monumento triste, che dovrebbe ricordare una delle imprese più illustri e coraggiose del Risorgimento italiano…

La porta d’ingresso era chiusa, una spessa coltre di sporcizia ricopriva il pavimento, il libro su cui lasciare la propria firma giaceva aperto su un tavolo polveroso. Chissà da quanto tempo è chiuso. Forse nemmeno le scuole ci portano. Prendiamo coscienza di avere una memoria storica corta, di essere degli ingrati e dei traditori: per noi il Risorgimento è ormai solo una tappa della storia d’Italia, quei giorni grandiosi e terribili non sono altro che un evento sbiadito dal tempo per il quale non proviamo più alcun sentimento. O forse è solo il destino di ogni evento storico. Con un groppo alla gola mi rendo conto che la stessa cosa accadrà quando l’ultimo partigiano o l’ultimo deportato di Auschwitz sarà morto. Ritorniamo alle auto con uno malinconico senso di rispetto per quegli uomini e per la loro sorte.

[2. continua]

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