mercoledì 25 giugno 2008

Stracciate l'articolo 21

Sgomento.

Accade questo quando il coraggio e l'abnegazione di un giornalista si scontrano contro il muro di gomma dei poteri forti. Carlo Ruta, amico giornalista e storico è stato condannato ad una pena pecuniaria per stampa clandestina. Non importa che Carlo Ruta adesso se la sia cavata con poco più di una multa e il pagamento delle spese processuali... In primo grado quest'uomo era stato condannato ad otto mesi di prigione. Condanna assurda, condanna ridicola. Un diritto, quello della libertà d'espressione, leso da una sentenza oscurantista ed inquietante. Un pretesto eretto a difesa dei soliti noti, degli amici degli amici. Un pretesto per tappare la bocca e per mettere a tacere una delle poche voci libere ancora degne di essere definite giornalista.

Carlo Ruta condannato per stampa clandestina? No amici cari. Carlo Ruta è stato condannato per quello che ha detto. Carlo Ruta è stato condannato perché la finisse di scoperchiare gineprai, di rompere le scatole con la ricerca di una verità altra, perché la sua condanna fungesse da lezione e monito ad altri. Punirne uno per educarne cento...

Puniteci tutti allora, condannate tutti noi perché tutti noi siamo colpevoli. Colpevoli come un uomo che volevano mettere in cella per essere rimasto libero nello spirito.

Una colpa, questa, che il Potere non può certo lasciare impunita.

lunedì 16 giugno 2008

Le Ecclesiazuse iblee

Attraversato dai ricordi di anni trascorsi ed archiviati nella mente sotto la cartella infanzia. Forse perché il timore di un baratro incombe su di essi, affiorano leggeri e si lasciano trascinare dalla corrente dei ricordi. Alla deriva della paura per la sorte di persone a cui tieni di più e alle quali, per motivi insondabili, non hai mai avuto il coraggio di dire il bene che provi per loro.

In attesa snervante su un pancaccio, circondato da umanità desolante, la mia memoria nuota contro corrente verso immagini, le più strambe. Eppure confortanti.

Quand’ero piccolo la mia salute era piuttosto malferma: guidato da tonsille impazzite il mio corpo spesso e volentieri si lasciava invadere da febbri fortissime che mi abbandonavano stremato e svuotato. Alle prime avvisaglie della tempesta mia madre mutava subito in chioccia apprensiva – spirito che peraltro non ha ancora perso – e mi trasportava sul lettone, imbacuccato e già febbricitante. Il termometro sbattuto da colpi così violenti che avrebbero slogato il polso di un tennista, cinque minuti d’orologio in attesa del responso e poi via, al telefono, a decidere del mio destino. Ricordo allora una figura imponente e grave che arrivava presto in casa con la sua borsa di pelle consumata. Bontà sua, mi sorrideva. Sorriso da brivido. Non solo per i denti macchiati di tabacco che facevano pensare più ad un tossico che ad un luminare della scienza medica ma perché l’istinto suggeriva che la mia sorte quel giorno era segnata... Il pediatra. Ricordo distintamente quei baffi folti ed arruffati avvicinarsi al mio viso per scrutare i penetrali arrossati della mia gola, così come ricordo le sue dita macchiate di nicotina che mi porgevano terrificanti caramelle per cercare di alleviare lo strazio di una iniezione estorta con l’inganno. Ancora una volta... Quant’ero fesso. Mi facevo fregare sempre.

Passavano poi diversi giorni in cui dosi da elefante di dolorosa penicillina spingevano il mio corpicino malaticcio a reagire all’infezione. Ricordo di giornate oziose trascorse a giocare dentro il letto dei miei, a sfogliare qualche libro mentre immaginavo di decifrarne quei segni misteriosi che tanto mi affascinavano. Televisione accesa senza limitazioni, cioccolatini e visite regolari di mia madre che veniva a controllare ansiosamente il processo di guarigione e si lamentava con l’universo perché procedeva, a suo dire, troppo lentamente.

Ma una cosa su tutte non riuscirò mai a dimenticare, un ricordo soffice come zucchero filato che lascia ancora oggi labbra dolci e sorridenti… Le riunioni di casalinghe. Seppure ancora oggi mia madre perpetui questo rito pagano il ricordo, fresco ed ingenuo, che serbo di esso non trova paragone nel presente arido e frettoloso.

Che fossero prodotti di bellezza che più bella non si può (Avon), pentole di acciaio forgiate dall’officina di Efesto (Imco), detersivi per la casa aggressivi come un battaglione di marines (Stanhome), contenitori in plastica infrangibili e “sempre utili” (Tupperware), aspirapolvere, coperte di lana merinos, lenzuola o accessori improbabili che quasi certamente sarebbero rimasti sepolti in qualche cassetto in attesa dell’occasione giusta per essere utilizzati… La riunione. Prima ancora delle casalinghe disperate, durante i ruggenti e pacchiani anni ’80 che avevano raggiunto anche una casetta isolata in quel di Sicilia. Casalinghe in assemblea: tutte amiche fra loro, pettegole come non mai, riunite intorno al tavolo della cucina che ascoltavano con grande attenzione le parole dell’imbonitrice di turno, amica anch’essa ma più spigliata e, ai loro occhi di donne votate per l’eternità al focolare domestico, emancipata e in carriera.

Ricordo le loro voci arrivare ad ondate coperte talora da squittii più potenti che cercavano di sovrastare il brusio di sottofondo e di riportare la discussione al tema principale. Ero tranquillo: sapevo che fino a quando il real consesso non fosse stato sciolto nessuna di loro sarebbe venuta a far visita al piccolo malatino inondandolo di carezze, bacetti e ganascini. Manifestazione d’affetto che odiavo più che mai e per la quale desideravo fosse ripristinata la legge del taglione. Con immediata amputazione dell’arto che ardiva prendere tra due dita le mie guanciotte e stringerle con violenza da torturatore dell’Inquisizione.

Il tempo trascorreva e ad un certo punto le voci scemavano mentre un silenzio gravido di significati calava in cucina. Pur sperando nella morte violenta della quasi totalità delle donne lì presenti – escludevo da tale eccidio mia madre per ovvie ragioni affettive e familiari – sapevo che l’imbonitrice aveva terminato la sua missione ed era arrivata l’ora conviviale del caffè e dei dolci. Torte, biscotti, crostate d’inverno, latte di mandorla, granite o gelato in estate. Allora sapevo che la mia croce e delizia si sarebbe perpetuata ancora una volta. Dal grosso del gruppo si sarebbe ben presto staccato uno scelto drappello di donne guidato da mia madre che, recante in dono un piattino stracolmo di leccornie e prelibatezze, sarebbe dilagato nella stanza e mi avrebbe ricoperto di smancerie e sdolcinatezze non richieste.

Dopo aver subito l’assalto dell’orda barbarica sapevo che il consesso si sarebbe sciolto di lì a poco: sentivo infatti in corridoio già i saluti e gli sbaciucchiamenti della amiche di mia madre che si davano appuntamento alla prossima riunione in casa di un’altra di loro. La porta chiusa, udivo in lontananza la voce di mia madre che diceva che forse era meglio lasciarmi riposare evitandomi così un ulteriore assalto. Un silenzio piombava in casa e la porta della camera da letto si spalancava nuovamente: mia madre, sorridente e preoccupata, portava già in mano il termometro, moderno scettro e caduceo di Esculapio.

mercoledì 4 giugno 2008

Indegni di considerazione #9

Leggete qua. Grottesco è dir poco. Uccidiamo salvando la natura... Come se l'uomo non ne facesse parte. Come se "l'eco-guerra" fosse più accettabile e nascondesse in parte l'orrore dell'uomo che leva la mano contro suo fratello.

Assurdo, incredibile. Ipocrita. La guerra è follia, morte, distruzione, dissoluzione, caos. Rivestirla con la maschera dell'umanità serve solo a sottolineare quanto terribile e mostruosa possa essere la razza umana.

lunedì 2 giugno 2008

Stiamo sulla stessa barca io e te



A te che che sogni una stella ed un veliero
che ti portino su isole dal cielo più vero
a te che non sopporti la pazienza
o abbandonarti alla più sfrenata continenza
a te hai progettato un antifurto sicuro
a te che lotti sempre contro il muro
e quando la tua mente prende il volo
ti accorgi che sei rimasto solo
a te che ascolti il mio disco forse sorridendo
giuro che la stessa rabbia sto vivendo
stiamo sulla stessa barca io e te
ti ti ti ti ti ti ti ti ti ti ti . . .
a te che odi i politici imbrillantinati
che minimizzano i loro reati
disposti a mandare tutto a puttana
pur di salvarsi la dignità mondana
a te che non ami i servi di partito
che ti chiedono il voto un voto pulito
partono tutti incendiari e fieri
ma quando arrivano sono tutti pompieri
a te che ascolti il mio disco forse sorridendo
giuro che la stessa rabbia sto vivendo
stiamo sulla stessa barca io e te
ti ti ti ti ti ti ti ti ti ti ti


Chissà cosa avresti scritto oggi! Un giullare sorridente che irride il potere e lo lascia in mutande in mezzo al traffico... Ci manchi, Rino.