mercoledì 29 ottobre 2008

La Casta. E poi mi tocca dare ragione a Beppe Grillo

Cosa non si fa per difendere un collega.

Forse pochi di voi conosceranno il senatore Nicola Di Girolamo. Un oscuro rappresentante del popolo italiano eletto nella lista Pdl collegio Europa che non ha mai fatto parlare di sé per meriti politici. Semmai per demeriti etici e legali. Dovete sapere che il signor Di Girolamo è un senatore abusivo, un individuo che, pur di essere eletto in Parlamento, ha inventato una residenza in Belgio nonostante viva stabilmente in Italia. Sin da giugno il Gip di Roma ha disposto per lui gli arresti domiciliari per nove reati tra cui abuso d’ufficio, falsa dichiarazione d’identità, falso ideologico e attentato ai diritti politici del cittadino. Robetta non da poco insomma, per cui il signor Di Girolamo rischia fino a dieci anni di carcere. Tuttavia a causa dell’immunità parlamentare il Gip ha dovuto richiedere il nullaosta alla giunta per le autorizzazioni in modo da procedere nei confronti del senatore truffatore. Ma ecco il prevedibile colpo di scena.

I suoi colleghi di casta si sono opposti fermamente all’arresto prodigandosi con fervore bipartisan e lo hanno salvato, travalicando anche le decisioni dei giudici, con l’affermazione che il pericolo d’inquinamento delle prove non esiste. L’arresto, dunque, non è strettamente necessario. Nonostante il Gip abbia citato nella richiesta di nullaosta le pressioni ricevute da alcuni testimoni affinchè mentissero ai magistrati e favorissero il belga fasullo.

204 senatori contrari all’arresto, 43 favorevoli, praticamente tutti dell’Italia dei Valori a parte qualche disperso piddino. Peccato ci sia stato il voto segreto, altrimenti avrei voluto vedere le facce della cosiddetta opposizione, Pd ed Udc votare contro l’arresto di un senatore che non ha il diritto di sedere a palazzo Madama e che ha truffato cittadini e colleghi. E qui arriva la parte più comica – o vergognosa, dipende dai punti di vista. Secondo i senatori che hanno difeso Di Girolamo l’arresto comprometterebbe il plenum del Senato, che scenderebbe da 315 a 314 impedendone le attività. Che cosa impedisca la sostituzione del senatore usurpatore con il primo dei non eletti della sua lista non è dato sapere. Certo è che un simile fervore garantista nei confronti di un palese truffatore è indice di quanto la nostra classe politica sia degenerata. Marcia dentro, senza possibilità di riscatto.

martedì 28 ottobre 2008

Ad un guardiano di nuvole

Io non ero presente quel giorno. Non ho potuto, non ho voluto. Non volevo assistere ad un branco di sciacalli che si spartivano una preda così succulenta. Lacrime sincere accanto a dolore di circostanza, coccodrilli sulle magliette e coccodrilli tra i banchi di quella chiesa. Ho immaginato tutto questo e peggio ancora, applausi a scena aperta e ostentazione del dolore e non me la sono sentita. Non ho voluto esserci, ecco tutto. Perché tanto conoscevo lui solo, perché in quei frangenti le condoglianze di un illustre sconosciuto ad una famiglia già preparata a riceverne a decine sarebbe stata solo una inutile formalità. Perché vedere che la morte con cui andava a braccetto stavolta aveva vinto sarebbe stata una pena troppo forte. Perché sapere che dentro quella bara c’era un amico mi avrebbe fatto male.

Voglio ricordarlo lì, invece, al Quadrato della Palma. Una definizione goliardica, uno strambo luogo dell’anima. Aveva chiamato così la piazzetta di fronte alla libreria La Talpa, un naturale luogo di ritrovo della cultura modicana frequentata spesso da gente quantomeno insolita. “Tutti frequentano i circoli“ diceva, “e noi invece abbiamo il quadrato”. Lo ricordo in libreria, in mezzo a tanti Don Chisciotte troppo disillusi per riuscire anche a pensare ad un’azione concreta che possa cambiare questo deprimente e definitivo status quo

Non ho voluto partecipare al suo funerale. Però mi hanno raccontato dell’omelia, non troppo pedante e in definitiva reale, con quella ricerca della verità messa in risalto, con l’insaziabile sete di verità e di giustizia che lo contraddistingueva a far da sfondo e ragione della sua esistenza. Era un personaggio strambo, eccentrico, eccessivo. Raccoglieva con amore bibliotecario tutte le traduzioni possibili dell’Ulisse di Joyce, passeggiava per Modica e ne scrutava l’inevitabile declino. Lo si vedeva spesso discutere e a far da contraltare a drappelli di gente ancor più stramba di lui: discuteva e si indignava con il suo eloquio alluvionale, garbato eppure pungente. E barocco, barocco come quegli autori che mi aveva consigliato poco più che bambino e che tanto amava: Borges, Manganelli, Carpentier, Brodskij. Era un inguaribile egocentrico, megalomane forse, ma era una simpatica marca che lo rendeva riconoscibile, unico a dirla tutta. Era Ciccio Belgiorno. Un’istituzione.

Emigrato da ragazzo in Germania e diventato giornalista di successo era tornato dopo decenni nella sua Modica, nella nostra Modica per raccontare nei libri e nei racconti la città della sua giovinezza: una Modica dei tempi andati dipinta con la nostalgia di chi ha vissuto nella terra impareggiabile e non di chi ha sentito dire. Una propaggine della sua anima… Adesso che è morto, è morta con lui anche una parte di Modica. Della nostra Modica, della sua Modica. E sono certo che se da qualche parte nell’universo esiste un luogo per chi non è più, sono certo che starà abbracciando commosso i suoi guardiani di nuvole: il cavaliere Poidomani, Neli Scaccia, il sindaco di Scardacucco, Luigino l’orbo, Pietru co frischiettu… Saranno tutti là ad accoglierlo e a ringraziarlo per aver donato loro, a loro, ormai polvere dei ricordi, ancora un attimo di luce nel mondo di chi è ancora.

Addio dottor Belgiorno, ciao Ciccio. Ti do del tu finalmente, quel tu che in vita mi avevi sempre chiesto, quasi imposto, e che non sono mai riuscito a darti veramente. Grazie per ciò che sei stato, nei tuoi difetti come nella tua profonda umanità. Grazie per tutti i consigli, per il mio libro che hai fatto appena in tempo a vedere. Grazie per avermi considerato tuo amico, per ciò che hai dato ad ognuno. Soprattutto alla tua città, a Modica.

Di te non mi resta niente di tangibile. Non una registrazione, non una foto insieme. Nemmeno una dedica su uno dei tuoi libri o il classico semplice autografo, che per pudore non ti ho mai chiesto: solo tanti piccoli ricordi legati all’uomo, al personaggio e all’interprete di te stesso. È strano passare dal quadrato e non sentirmi chiamare da lontano Mario! – sbagliavi sempre a chiamarmi per nome, chissà perché. È strano entrare in libreria e trovare la tua sedia vuota, è strano non sentirti più inveire sul giornalismo pennivendolo, sulla classe politica inetta, sulla cultura decadente e sulla rovina della nostra città. “Caro Mario, siamo circondati dallo squallore, dove andremo a finire!” dicevi quando mi vedevi. “Marco…” ti correggevo con il sorriso sulle labbra, già sapendo del modo in cui avresti ribattuto. “Ah… Mario, certo certo, scusami. Tu correggimi quando sbaglio il tuo nome”. È strano pensare che Modica abbia perso così, all’improvviso, una delle sue voci migliori. Fustigatore come pochi, ironico ed indisponente per chi non ti conoscesse bene. Ciccio Belgiorno, bastava il nome a presentarti.

E sono certo che se avessi assistito al tuo funerale, magari seduto tra gli ultimi banchi, se avessi ascoltato il falso dolore dei tanti presenti ti saresti indignato come eri solito fare, e con una punta di stizza nella tua voce avresti pronunciato la più modicana delle imprecazioni: “Ma tutti chisti, ca, chi zonna vuonu ri mia?”.

lunedì 27 ottobre 2008

E se vi siete detti non sta succedendo niente

È ufficiale. I meteorologi americani chiameranno il prossimo uragano che porterà la sua furia devastatrice sulle coste della Florida con il nome di un noto ministro italiano: Mariastella Gelmini. Gelmini hurricane, suona bene. Perché la nostra beneamata Gelmini è stata capace con la legge 133 che porta il suo nome – compito arduo, lo ammetto – di demolire sin dalle fondamenta la scuola e l’università italiana… Cercherò di essere chiaro e di spiegare senza troppe manfrine il motivo per cui questa legge rappresenta la condanna a morte dell’istruzione, delle speranze e del futuro di milioni di giovani. Prima di iniziare però, cliccate qui per il testo completo della legge.

Partiamo dalla scuola primaria, media inferiore e superiore. Fino a poco tempo fa la disastrata scuola italiana poteva paradossalmente vantare un fiore all’occhiello che tutto il mondo ci invidiava: la scuola elementare, con il sistema dei tre insegnanti su due classi. E allora dalle parti del Ministero dovranno essersi detti: se c’è qualcosa che funziona perché lasciarla? Ecco allora tornare al maestro unico, un ritorno nostalgico dettato soltanto da necessità di cassa che accorcerà il tempo dedicato alle lezioni a 24 ore settimanali: 4 ore e mezzo al giorno eliminando dunque il cosiddetto tempo pieno, ormai diffuso nel 92% delle classi – e sono dati ufficiali del ministero competente, non li sto inventando io. Queste salassi occupazionali che vorrebbero spacciare come innovazione consentiranno all'esecutivo di tagliare 87.400 cattedre e 44.500 posti di personale Ata. Non solo. Secondo i calcoli effettuati dai tecnici del Ministero una consistente fetta delle 10.766 istituzioni scolastiche articolate in quasi 42 mila plessi scolastici dovrebbe essere eliminata: 2600 circa, compresi i circa 4.200 plessi con meno di 50 alunni. Come faranno i ragazzi delle cosiddette zone disagiate per posizione geografica? La risposta dal governo sembra essere sempre quella: arrangiatevi!

Un’altra novità della riforma è costituita dalle cosiddette classi-ponte. Cosa sono? In pratica il nostro governo, sodale con certa malarazza della Lega Nord, vorrebbe istituire delle classi differenziate per gli alunni stranieri “colpevoli” di rallentare i processi di apprendimento degli alunni italiani. Allora, mettiamola in questo modo: il provvedimento non è sbagliato in valore assoluto, semmai è posto in maniera capziosa e sottilmente razzista. Se infatti è fondamentale che i ragazzi stranieri conoscano la lingua italiana per comprendere quello che stanno imparando a scuola, è del tutto aberrante che si costituiscano delle classi-ghetto per stranieri dove ammassare cinesi, arabi, rumeni, polacchi, sudamericani e via discorrendo. Capirete che in questi casi i processi di integrazione diventano ancora più difficili da realizzarsi. I ragazzi dovrebbero essere seguiti invece, almeno io credo, da insegnanti preparati al ruolo di mediazione o meglio ancora da mediatori culturali bilingue, e questo per ogni grande gruppo etnico. Certo sarebbe una fonte non secondaria di spesa, ma credo che se si vuole educare e formare un individuo in un paese ormai multietnico questa sia la sola strada da percorrere.

Passiamo all’università.

Nel caso dell’università il dramma tocca il baratro con il provvedimento che a buona ragione è stato definito “ammazza-precari”. In base alla nuova legge sessantamila ricercatori che fino ad oggi hanno lavorato presso università ed enti di ricerca rischiano di vedere andare in fumo il loro futuro. Se gli enti da cui dipendono non riusciranno a stabilizzarli entro il 30 giugno 2009 infatti i ricercatori dovranno trovarsi un'altra sistemazione: magari in qualche call-center o a friggere patatine, o magari all'estero, se proprio non vogliono rinunciare al titolo di studio… E poi si parla di fuga di cervelli. Un’altra follia riguarda quella che si può definire come una vera e propria privatizzazione dell’università. La legge 133 prevede la riduzione annuale, fino al 2013, del Fondo di finanziamento ordinario per l’università e un taglio del 46 per cento sulle spese di funzionamento. Il 46% di taglio. Il che significa 1.441.500.000 di euro almeno fino al 2013. Un miliardo e mezzo di euro, quasi tre mila miliardi di lire se ancora fate i conti in vecchie lire. Una cifra talmente stratosferica che non può trovare giustificazione se non in una folle volontà di soffocare definitivamente l’università pubblica italiana. Il risultato? A causa dell’ammanco di finanziamenti pubblici le università italiane si dovranno trasformare in fondazioni di diritto privato sostenute da capitale privato. Sponsor in poche parole. E penso immaginerete cosa potrebbe accadere se ci fosse un controllo economico più elevato dell’attuale sulla ricerca di vari settori universitari - soprattutto in ambito medico: la ricerca sarebbe condotta in base alla sua redditività. In soldoni lo sponsor chiederebbe al proprio consiglio di amministrazione: questa ricerca è produttiva? Conviene? Se sì la finanziamo, se no, chissenefrega, noi siamo lo sponsor e comandiamo noi.

E non è finita. Attualmente la legge stabilisce che nell’anno solare il gettito delle tasse degli studenti non possa superare il 20% dell’importo del finanziamento ordinario dello Stato. Con il passaggio a fondazione l’università potrà chiedere qualsiasi cifra agli studenti, senza dover rispondere a nessun tetto massimo prefissato. Diritto allo studio? Ma fatemi il favore! Infine l’ultima castroneria della legge 133. La legge ha imposto una drastica riduzione del personale universitario alle facoltà, che sono obbligate a mandare in pensione o altrimenti a licenziare parte del proprio organico. Bene dirà qualcuno, finalmente si svecchia la popolazione dei professori universitari, finalmente si argina la proliferazione abnorme delle cattedre assegnate al figlio, alla moglie o all’amante del barone di turno. Bene. Logica vorrebbe la sostituzione dei professori pensionati con nuove leve per mantenere inalterata l’offerta d’insegnamento. La legge 133 impone invece un turn over bloccato al 20%, ovvero un nuovo assunto ogni cinque pensionamenti o licenziamenti. Uno su cinque, più o meno come le sorprese degli ovetti Kinder.

È chiaro che con una legge simile l’unica strada sia quella della protesta. Meglio se della protesta dura. Cortei, assemblee informative, volantinaggio, comizi, autogestioni, occupazioni da una parte e un’azione politica d’opposizione violenta e serrata dall’altra. Senza colore politico, senza considerare casacche di sorta, con un movimento di protesta trasversale teso a salvare la scuola e l’università italiana. Peccato che il nostro carissimo presidente del Consiglio non comprenda come in un paese democratico esista anche la possibilità del dissenso. Il disagio sociale non è una questione di ordine pubblico. “Darò a lui [Maroni, n. d. L] istruzioni dettagliate su come intervenire attraverso le forze dell'ordine” ha affermato in sede pubblica, salvo poi smentire com’è solito fare quando si rende conto di averla sparata troppo grossa. Non contento delle sue fanfaronate ha pure dichiarato la preoccupazione per il “divorzio tra i mezzi di informazione e la realtà”. Detto da lui, manipolatore dell’informazione per eccellenza, quest’ultima frase non può che far sorridere.

Un’altra fissazione di Berlusconi poi è quella dei comunisti. “I manifestanti sono organizzati dall'estrema sinistra, – ha affermato il Cavaliere nero – molto spesso, come a Milano, dai centri sociali e da una sinistra che ha trovato il modo di far passare nella scuola delle menzogne e portare un'opposizione nelle strade e nelle piazze alla vita del nostro governo”. Ma checché ne dica Silvietto la protesta non è di sinistra, è dettata solo dalla volontà di salvare il salvabile. Altrimenti perché gentaglia neofascista come quelli di Forza Nuova – che sfido chiunque a definire di sinistra – avrebbe partecipato alle occupazioni di alcuni istituti e di alcune facoltà in Italia? Perché quelli di Forza Nuova avranno un sostrato di idee balorde, antistoriche, anticostituzionali, saranno pure squadristi di nuovo corso però non sono degli stupidi, si rendono conto che l’istruzione e la ricerca non possono essere uccise per la volontà cieca, quasi da amministratore di condominio che vuole razionalizzare le spese, e si uniscono alla protesta.

La verità credo sia questa.

E allora protestate ragazzi, protestiamo. Ne va del nostro futuro, dei nostri sogni, delle nostre speranze. Non facciamoci mettere i piedi in testa da gentucola che non sa nemmeno cosa sia l’istruzione e la ricerca: non permettiamolo per favore.


- Postilla del 29 ottobre -

Il decreto Gelmini diventa legge. Per fortuna le leggi si possono cambiare con le regole della democrazia e della politica.

La fame e la gloria

Da quando il mio regime alimentare è stato ridotto di colpo a quello di un desco trappista ho scoperto che mi piace passeggiare. “Associare alla dieta anche una leggera attività fisica”. Bene, mi son detto. Passeggiamo. Soprattutto quando ritorno a Modica, la mia città. Passeggiando per il centro storico noto apparire con regolarità dei foglietti attaccati con lo scotch. Non si tratta tuttavia della solita pubblicità: lezioni private impartite da disoccupati professionisti freschi di laurea, feste fighette, gruppi hardrrockkover improponibili, viaggi alla scoperta di Padre Pio e del business che vi gira intorno. No, quei foglietti sono diversi da forme di promozione rudimentale.

Si potrebbero definire dei pamphlet casalinghi, peraltro sempre debitamente firmati. Da questi manifestini il suo autore si eleva a sgrammaticato fustigatore di costumi attraverso appelli al buonsenso politico e ad una gestione più trasparente della cosa pubblica. Anche se a volte prende qualche abbaglio, rimane interessante leggere le recriminazioni del signor Cerruto – questo il suo cognome – perché rappresenta la voce del popolo che troppo spesso la politica ignora e che finge di ascoltare solo quando si tratta di accalappiare poltrone. In uno dei suoi manifestini il signor Cerruto diceva più o meno: devo pensarci io visto il silenzio colpevole dei giornali… Il silenzio colpevole.

E allora mi sono chiesto quanto grave dovesse essere la situazione se il classico uomo della strada si sente caricato da responsabilità rivelatrici e sente il dovere di sostituirsi a quanti dovrebbero invece fare informazione. Perché i giornali locali ignorano certe vicende che pure sono sotto gli occhi di tutti? Perché sembra che quando si tratta di connivenze tra interesse privato e disinvolta gestione del potere i giornali sembrano glissare? Perché quando gli argomenti si fanno scottanti molte testate locali sorvolano con una tale evidenza da scadere nel grossolano?

Connivenza ed autocensura. Queste le parole che - io credo – riassumono il desolante panorama dell’informazione locale. Connivenza avviene quando una testata è fin troppo vicina o appartiene ad una persona o ad un gruppo di potere. In questi casi il proprietario si trova a controllare l’informazione e a scegliere inopinatamente la notizia che può essere diffusa da quella che invece è bene ignorare. In tal caso le sfumature non si contano più e si può arrivare addirittura al crimine più grave che un giornalista possa commettere: la manipolazione sistematica dell’informazione che permette di ribaltare il fatto dandone l’interpretazione che si preferisce.

La seconda ragione è dettata invece dall’autocensura. Si scrive poco e con superficialità quando si teme che il proprio articolo possa pestare i calli a qualche potente e allora, in assoluta autonomia e cioè senza aver ricevuto pressioni di alcun tipo si preferisce lasciar passare una notizia interessante. Si obbedisce agli ordini ancor prima di riceverne. L’autocensura può essere dettata dalla paura, è chiaro. Non parlo tanto di conseguenze fisiche: in provincia di Ragusa fortunatamente le organizzazioni criminali hanno da tempo scelto il basso profilo e preferiscono evitare atti eclatanti: certo gli stiddari dell’Ipparino non sono esattamente brava gente e se si trattasse di intimidire un giornalista con atti più o meno violenti non si farebbero pregare due volte. In generale però la paura di un operatore dell’informazione è quella della querela. E questo anche se la querela per diffamazione a mezzo stampa, o meglio ancora per calunnia, è sporta a scopo intimidatorio: è difficilissimo infatti che una querela ad un giornalista arrivi realmente ad una condanna. Ma è lo stesso temutissima. Perché fa perdere tempo e soprattutto denaro al giornalista, scredita la testata che pubblica il pezzo e può mettere anche a repentaglio il lavoro del giornalista. Il risultato di quanto ho detto finora determina una sorta di scatola cinese del mondo dell’informazione: il giornalista non scrive, se anche trova il coraggio per scrivere il caporedattore può decidere di non pubblicare il pezzo, ma se anche il caporedattore decide di pubblicare il pezzo in questione lo stop e la riduzione al silenzio possono arrivare dal direttore della testata o anche dall’editore.

Dove sono finiti i giornalisti di una volta direte, quelli che rischiavano anche la vita – altro che querela! – pur di fare trionfare la verità? Semplice. Non se ne trovano tanti in giro: perché nel nostro mondo i matti sono sempre meno dei sani.

Perché un giovane pubblicista per dieci euro, per sette euro ma anche per cinque euro a pezzo, cinque euro, – ci tengo a ribadirlo – per cinque euro un giovane pubblicista non scriverà mai nulla di polemico, non sarà motivato ad andare fino in fondo ad una questione, non rischierà mai il suo posto di lavoro precario, da sfruttato, ma anche una querela o peggio per un articolo che verrà pagato cinque euro. Per cosa dovrebbe farlo, per la gloria?

Già, la gloria. E i cinque euro per un taglio di pizza. Perché ti prendono per fame: vuoi lavorare? Io sono il padrone dell’informazione locale e se vuoi lavorare devi accettare le mie condizioni, i miei impedimenti, le mie censure, i miei paletti, il mio stile. Devi dare questa impostazione agli articoli, devi parlare di questo e in questo modo, tralasciare quanto mi può toccare direttamente o quanto può toccare il potente di turno mio amico… Questa è la verità. Non significa certo che tutte le testate e tutti i giornalisti siano ridotti al silenzio: dico solo che la libertà d’azione di molti di essi è, in alcuni casi e per alcuni fatti, fortemente ridimensionata. Lo capisco, lo comprendo, ma non mi piace.

L’assurdo e l’ovvio - ma che ovvio non dovrebbe essere – è che se vuoi cercare di fare informazione senza impedimenti devi trovare altre strade. Strade che spesso non hanno l’autorevolezza dei mass media più conosciuti e non riescono a raggiungere ampi strati della popolazione. Dai blog ai programmi radiofonici, dalle testate follemente indipendenti come la Sicilia Libertaria ai foglietti autoprodotti. O come i manifesti del signor Cerruto. Che potranno far sorridere forse, fare storcere il naso a qualcuno. Non è giornalismo, non è informazione si dirà. Assolutamente vero, ma quei fogliettini attaccati con lo scotch, carichi di buonsenso del più classico padre di famiglia rappresentano comunque un’esigenza. L’esigenza di colmare un vuoto di una informazione spesso carente. E a volte – sembra assurdo dirlo, ma l’assurdo è ovvio in questi casi – a volte sembra che quei manifesti attaccati con lo scotch dicano più di tanti articoli colpevoli vomitati della stampa quotidiana.