mercoledì 27 luglio 2011

Ana

ovvero post in due tempi in memoria di un lurido


Arriviamo nella peggiore Taormina di plastica, portieri inamidati e nordici turisti paonazzi in cerca di colore locale e bottigliette d'acqua minerale a due euro. Scavalcate le mandrie di compratori dell'orrenda sicilianità a buon mercato, tre coppole un soldo, attendiamo ligi e compressi dietro un nastro di plastica l'apertura dei cancelli per il concerto di una icona. Gradinata non numerata, pronti allo scatto per conquistare i posti migliori. Divinità del rock, sessantanove anni e una vita sregolata alle spalle: quanti concerti ancora potrà sopportare prima che quel sacco di nervi e creatività schianti definitivamente? Non ci si accosta ad un concerto di Lou Reed senza una dose di deferenza per un maestro dal quale tanti discepoli hanno preso e depredato. Padre dei Velvet Underground, membro della factory di Andy Warhol. Compagno di Laurie Anderson. Una leggenda.


Avrebbero dovuto metterci in guardia la deludente performance di qualche anno fa al Palacatania, così come i video postati su You Tube che testimoniano un crollo vocale a tratti imbarazzante. Non ci aspettavamo certo il fulgore della giovinezza nella sua voce ma la maturità di un timbro roccioso e meravigliosamente graffiato dal tempo. Non ci aspettavamo i successi immortali – forse giusto qualcuno, perché non puoi riproporre per quaranta anni gli stessi pezzi senza odiarli nel profondo del tuo cuore – né coinvolgimento o dialogo con il pubblico, ben conoscendo il muro di artica freddezza che Lou Reed innalza tra sé e gli spettatori. Ci attendevamo però un concerto da ricordare nonostante l'inclemenza del tempo, non un epitafio inutilmente suasorio per una gloria perduta. Ne sono passati di stivali di pelle luccicanti perché la leggenda di un lurido geniaccio si offuscasse fino a diventare business machine e insopportabile compiacimento. Ma è accaduto.


Immoto e pesante come una quercia Lou Reed sale sul palco corredato da occhialini e collana pataccona d'ordinanza. Arrangiamenti rugosi e psichedelici per un muro del suono praticamente perfetto in ogni sua tonalità, bravissima la band che, di fatto, ha tenuto in piedi un concerto altrimenti irrecuperabile. Mancava l'insostituibile mood etereo, e non poteva essere altrimenti, in una smorta Femme Fatale senza Nico. Sweet Jane e Sunday Morning assolutamente deludenti in una fiacca e stonata versione acustica. Venus in Furs, orfana della viola di John Cale, pure splendeva nel nuovo arrangiamento ipnotico scandito dai mallets di Tony Thunder Smith mentre la vibrante The bells, che ha chiuso un concerto brevissimo e senza bis, faceva rimpiangere ancor più la voce di un tempo. E non voglio pensare che l'articolo apparso sulla Sicilia del 20 luglio sia stato una “marchetta” giornalistica quanto invece il pezzo firmato da un giornalista appassionato di musica incapace di vedere il decadimento del proprio idolo. “Più che cantare, parla, rappa, declama, sussurra” scrive infatti Giuseppe Attardi: dispiace rilevare che Lou Reed stonasse alla grande lungo tutto il concerto, “tirasse” le parole e storpiasse le tonalità perché...


Non posso dire, non voglio dire incapace di mantenerle. Perché il tempo, piuttosto, è un tiranno maledetto e una leggenda del rock dovrebbe avere un po' di rispetto per sé e per la sua storia da comprendere quando è arrivato il momento di farla finita con i concerti live. Continueremmo a comprare gli album in studio e ad ascoltare la sua musica ma non torneremmo a casa da un suo concerto pensando che forse i soldi spesi non valevano per ascoltare una cover band di Lou Reed guidata da un attempato signore, pallido ricordo di un passato reso ancor più triste da questo presente.


***


Appoggiata al muro di cinta dell'albergo l'avevamo notata mentre arrotolava nervosamente una sigaretta dopo l'altra. Sola, aspettava qualcuno o qualcosa. Magrissima e dinoccolata, i lineamenti di vago sapore orientale e le rughe inclementi erano incorniciate da lunghi capelli rossicci e stopposi. Un ventaglio si apriva di tanto in tanto, dividendo la scena con uno scialletto a frange, per cacciare via l'umidità della sera taorminese. Scherzando, la immaginavamo un'attempata groupie che seguiva Lou Reed in giro per il mondo fin dagli anni '70, o forse un elemento dello staff, o forse ancora una cacciatrice di autografi e via di questo passo, a costruire fantasie su una perfetta sconosciuta dall'aria insolita e sperduta. Entriamo, ci affrettiamo ad occupare dei buoni posti sulle gradinate, la dimentichiamo. Mentre comincia la distribuzione delle vettovaglie superstiti, già abbondantemente saccheggiate durante il viaggio in auto, si avvicina a noi una donna ossuta che si informa attraverso un italiano stentato se il posto accanto a noi sia occupato o meno.


E' proprio lei, la groupie. Spagnola cinquantenne, dice di chiamarsi Ana e di essere un'appassionata di musica dal vivo. Abbozziamo una chiacchierata cercando una lingua comune e lei si compiace di mostrarci, dopo aver elencato con vezzo e puntiglio tutti i concerti di leggende musicali a cui ha assistito, l'agendina dove segna le date dei concerti ai quali parteciperà. C'è in lei qualcosa di patologico che inquieta, come se non volesse comprare solo i biglietti ma acquistare emozioni e la conferma arriva quando chiediamo le ragioni di una simile passione. Pur nella sua lingua stentata agghiaccia la nostra curiosità con la frase “Almeno facciamo finta di vivere” e comincia a raccontare dei suoi anni di gioventù. Brevi flash in cui intuiamo un passato burrascoso e una vita devastata, talmente lontana dalle nostre esistenze da sembrarci a tratti inverosimile. Amici morti per droga, malattie invalidanti, musica rock che accompagna la discesa in un abisso lisergico senza ritorno... Un mondo orrendo da condividere, e non sappiamo e non chiediamo se Ana sia riuscita a scappare da tutto questo senza esserne risucchiata.


Il concerto finisce, salutiamo Ana consapevole, forse, che il nostro sguardo divertito dalla sua eccentricità di fanatica del rock si è rapidamente mutato in pena profonda. Un velo di amarezza persiste nei nostri occhi anche quando la vediamo scomparire, probabilmente a caccia di qualche autografo: e non per il concerto deludente, non solo. E' la consapevolezza cruda, vissuta in prima persona, che il mondo distorto, cupo e avvelenato cantato nei capolavori del rock sia stato solo specchio deformante di incubi reali dei quali gente come Ana è rimasta vittima.

sabato 23 luglio 2011

Passannante: l'attentato, la prigionia e la pazzia

Finalmente qualcuno ne parla. Qui il link