martedì 1 agosto 2006

Il disastro dell'Andrea Doria

Catania, quartiere San Cristoforo. Varcare la soglia di San Cristoforo implica conoscerne i meccanismi che lo regolano e le leggi non scritte che ciascuno è tenuto a seguire per una pacifica convivenza tra realtà differenti. Il cuore di Catania, l’essenza più viva di una città che non riesco ad amare ma anche uno tra i quartieri più disagiati e difficili: un pittoresco reale, non creato artificiosamente ad uso e consumo dei turisti (leggi Taormina) e perciò sporco e scintillante, pericoloso ed innocuo, pulsante ed indolente. Dove puoi tranquillamente comprare pane a mezzanotte o mangiare carne di cavallo grigliata direttamente davanti alle macellerie da individui unti e bisunti che non andrebbero molto d’accordo coi NAS. Dove botteghe microscopiche si allargano sulla strada decuplicando lo spazio a loro disposizione. Dove l’italiano diventa una seconda lingua ed è il catanese più stretto ed autentico a regolare i rapporti tra pari. Dove il codice della strada cessa di esistere in favore delle teorie darwiniane. Dove il lavoro esiste men che altrove e l’onestà e la dignità dell’individuo talora è costretta a scendere a patti con l’illecito… Si deve pur mangiare.

Mi piace San Cristoforo. Perché la gente è spontanea e non sente la necessità di ricorrere a certe ipocrisie che invece mi circondano giornalmente, perché il loro codice morale sarà pure rude ma è intriso di una apprezzabile pragmaticità che cerca di rendere meno complicato il vivere quotidiano. Certo non è semplice vivere in un quartiere simile. Le sacche di degradazione sono ampie e in molti casi la povertà economica va di pari passo con l’aridità intellettuale: pochi gli spazi di aggregazione, insufficienti i mezzi. Ci sono associazioni di volontariato nate all’interno stesso del quartiere – non sono i ragazzi della Catania bene che ritengono essere trendy fare volontariato, sono persone che ci credono veramente per capirci -, la Chiesa onnipresente che, bisogna dirlo, in questo caso svolge un lavoro encomiabile, un centro sociale sgombrato da tempo che talvolta ritorna vivo per brevi periodi, ed infine la scuola. La scuola come collante, la scuola come strumento di riscatto, la scuola come scialuppa di salvataggio di una immancabile deriva sociale. Ed ecco svelato il senso del post. L’unico istituto comprensivo del quartiere, l’Andrea Doria, potrebbe chiudere. Il Comune di Catania infatti, a corto di liquidi, non ha più i soldi per pagare i locali della scuola e presto potrebbe profilarsi l’ombra sinistra dello sfratto. Inutile dire quanti discorsi di sociologi e consimili hanno farcito i servizi televisivi dedicati all’Andrea Doria, tutti affermando l’importanza di una istituzione simile in un quartiere quale San Cristoforo.

Ma più che le fioriture dialettiche dei professoroni mi ha colpito il discorso di un ragazzo del quartiere. Non ricordo il suo nome, non ricordo la televisione locale che ne ha trasmesso la testimonianza. Ricordo solo la sua commozione, il suo forte accento catanese, le parole appassionate con cui perorava la causa della scuola, ed infine quel “…se dovesse chiudere la scuola è tutto finito” che mi ha sconvolto. Quel ragazzo era uno di quelli che ce l’ha fatta anche grazie agli insegnanti dell’Andrea Doria: diplomato e con un contratto di lavoro in tasca, difendeva adesso l’istituto che gli aveva permesso di sfuggire al giogo della povertà intellettuale e di fare delle scelte autonome.

Quel ragazzo mi ha commosso, sul serio. Perché grazie a lui ho compreso l’enorme potenzialità di una istituzione che dovrebbe fornire gli strumenti per imparare a ragionare e che troppo spesso si limita a dispensare voti su nozioni titaniche e giudizi conclusivi su individui che non ha mai conosciuto davvero, perché il lavoro preziosissimo di quegli insegnanti è servito a togliere un ragazzo dalla strada, a fornirgli una visione alternativa della vita fondata sulla conoscenza, sul lavoro, sulla legalità…

A salvargli la vita.