martedì 22 gennaio 2008

Uomini e no


Come se fosse stato assolto. Vero è che il garantismo della nostra Costituzione definisce colpevole un uomo solo alla fine dei tre gradi di giudizio. Vero è che le sentenze dei giudici dovrebbero essere rispettate dai cittadini anche quando esse non rispettano i cittadini. Ma come resistere alla tentazione di ricordare ossessivamente che Totò Cuffaro, governatore della Sicilia, nostro rappresentante presso lo Stato italiano, è stato condannato in primo grado a cinque anni per favoreggiamento semplice e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici? Condannato.

Condannato. Dunque colpevole.

Un senso di avvilimento mi attraversa in questi giorni: frustrazione, impotenza. Ripenso alla faccia di Cuffaro, ai suoi scagnozzi e al loro boato di gioia alla lettura della sentenza: ripenso alle dichiarazioni scandalose dei suoi alleati, alle veglie di preghiera, alle interviste accompagnate da Madonne e immaginette sacre. Ripenso a Totò Cuffaro, condannato colpevole che dispensa sorrisi, baci ed abbracci come se nulla fosse accaduto.

Una sentenza lambiccata che tiene conto di delicati equilibri politici, una sentenza scaturita dal collegio giudicante della terza sezione penale del Tribunale di Palermo fatta apposta per non sconvolgere troppo lo status quo. Come condannare un uomo per reati mafiosi senza che sia lambito dall’accusa di mafia? Secondo i giudici di Palermo Cuffaro non ha favorito né condiviso la linea d'azione di Cosa Nostra ma ha favorito le azioni di singoli mafiosi. Perciò, seguendo il ragionamento di tale sentenza, se io regalassi una bomba nucleare a Bin Laden non favorirei Al Qaida tutta, ma solo il mio amichetto barbuto che per caso si trova a capo di una delle più sanguinose organizzazioni terroristiche di tutti i tempi.

Un ragionamento capzioso e viziato già alla base. Secondo i giudici Cuffaro ha dunque agevolato quei mafiosi per amicizia e non per la loro contingenza con la mafia nonostante queste persone fossero Giuseppe Aiello, il re Mida delle cliniche private siciliane condannato a 14 anni per associazione mafiosa, Giuseppe Guttadauro, boss di Brancaccio, Vincenzo Greco, cognato di Aiello, condannato per aver curato uno dei killer di Don Puglisi, Salvatore Aragona, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, Mimmo Miceli, condannato anch’esso per concorso esterno. Tutte gran brave persone insomma. Bisogna rispettare le sentenze, è vero, ma non posso comunque evitare di ribadire la perplessità di fronte a simili scelte del collegio giudicante. Forse perché Cuffaro si sarebbe dimesso se fosse stato condannato per mafia sconvolgendo ogni equilibrio politico? Forse perché una condanna per mafia avrebbe rivelato ai siciliani e al mondo che la nostra regione è stata governata legalmente da un mafioso, accettato ed aiutato dai massimi vertici del centrodestra italiano?

Cuffaro. Condannato. Colpevole. E una rabbia controllabile solo a tratti mi investe quando leggo Casini che appoggia Cuffaro nella decisione di rimanere al potere nonostante la condanna. Tutto il centrodestra ripete ossessivamente lo stesso mantra (a parte Forza Italia, che spera di mettere sul trono di governatore il suo pupillo Gianfranco Micciché): Cuffaro non è colluso, avrebbe dovuto dimettersi solo se fosse stato mafioso. E qui si apre un altro problema. O meglio, non sarebbe un problema se i nostri politici si rendessero conto che l'esercizio della loro rappresentanza dovrebbe andare di pari passo con l’etica. Non sarebbe un problema se i nostri politici non fossero così scandalosamente immorali. Se fosse diversamente allora si renderebbero conto di quanto meschina, seppur comprensibile, è la gioia di un Cuffaro che si dichiara pronto a tornare al lavoro, si renderebbero conto di quanto vergognose sono quelle dichiarazioni che si complimentano per l’esito del processo e anzi attaccano la magistratura: perché il problema non è solo di una condanna per mafia.

Il problema risiede nella condanna stessa. Condanna a cinque anni, interdizione perpetua dai pubblici uffici non è assoluzione. Cuffaro è colpevole, ed è stato dichiarato colpevole proprio in virtù di quelle prove presentate dal collegio dei Pm della terza sezione del tribunale di Palermo: i fatti e i comportamenti di Cuffaro nei confronti dei singoli mafiosi rimangono del tutto provati. Totò Cuffaro dovrebbe dimettersi perché la sua presenza come governatore della Sicilia rappresenta un’offesa per tutti i siciliani che credono nei principi della legalità. Per il primo grado di giudizio Cuffaro non è un mafioso, d’accordo, ma rimane pur sempre una persona che ha violato la legge, una persona che si è approfittata della sua posizione per favorire gli interessi di squallidi personaggi condannati per mafia. Sto parlando di trasparenza, sto parlando di rispetto delle leggi, sto parlando di rispetto dei cittadini siciliani, sto parlando di dignità personale. Cuffaro ama la Sicilia, dice. Bene. Allora si dimetta. Perché io, insieme a tante centinaia di migliaia di siciliani, ci vergogniamo di essere rappresentati da una persona la cui condotta morale e politica ha favorito esponenti della mafia, ci vergogniamo di una persona che non si rende conto di quale affronto sta facendo alla parte sana del suo popolo. Di cosa ha paura Cuffaro, alla fine? La sentenza in primo grado lo dichiara estraneo alla collusione con la mafia, si presenterà all’appello con una condanna per favoreggiamento semplice che nel frattempo sarà probabilmente prescritta…

Cuffaro ha vinto, alla fine. E con lui ha vinto quella zona grigia che tratta e banchetta con la mafia e che fa dell’intreccio tra politica, mafia, affari ed istituzioni la propria linfa vitale. Politica personalistica, feudo. Mi vergogno, davvero, che quest’uomo mi rappresenti come siciliano e che non senta sulla sua schiena il peso del giudizio di centinaia di migliaia di siciliani, della parte sana di questo popolo indignato. Mi vergogno di Totò Cuffaro, presidente della Regione Sicilia condannato in primo grado per favoreggiamento semplice a cinque anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici...

Vergogna. Che vergogna.

lunedì 21 gennaio 2008

Venerabili insetti

Brutta cosa l’autoreferenzialità. Ecco ciò che si ottiene quando l’egocentrismo si mescola con populismo, arroganza e volontà messianica. Dopo aver letto di quest'episodio ho abbandonato le ultime, residue briciole di fiducia che riponevo in Grillo. Rimane un ottimo comico, ha un’ottima redazione che cura un blog indiscutibilmente interessante ma nulla di più.

Grillo ha raggiunto i massimi vertici dell’incoerenza e del ridicolo. Non è più credibile – sempre che mai lo sia stato. Capo carismatico e unico Dio della Chiesa grillista, Beppe Grillo riesce a muovere schiere di fedeli che accettano le sue parole come assioma insindacabile e che difendono a spada tratta le sue Verità rivelate, Venerabile Insetto. Qualche mio amico dice che sono troppo duro con Grillo, che non tutti i grillini appartengono ad una massa acritica: c’è anche chi vaglia le saltellanti informazioni del Grillo, c’è anche chi riesce a distinguere tra le panzane e le notizie interessanti. Vero, non posso negarlo. Ma cosa dire di un individuo che prima si presenta vittima della censura dei media italiani e poi, quando un giornalista decide di intervistarlo, rifiuta schifato? Cosa dire di chi pungola ma non vuole essere pungolato, di chi rifiuta confronti, di chi non ammette dialogo, di chi si trincera dietro un blog, cosa dire della tracotanza di un uomo che ha fatto dei dogmi e dell’assertività la sua fortuna?

Nulla. Non c’è proprio nulla da dire. Un uomo simile non merita nemmeno di essere considerato.

domenica 20 gennaio 2008

Rick, preparami un Jack

Scrivo con un po’ di ritardo, ma ne scrivo. Anche quest’anno Modica è stata investita da un fenomeno che sembra ormai riscuotere successo in Italia. La Notte Bianca, nuova moda e fumo negli occhi dei nostri amministratori. Notte Bianca – svegli fino a tardi lo slogan che i pubblicitari a corto di idee hanno tirato fuori dal cilindro del padre padrone di questa manifestazione. Non sponsor badate bene, nemmanco filantropo disinteressato… Dictator, direttore d’orchestra, capitano coraggioso, Berlusconi in erba che ha imparato fin troppo bene la lezione del tignoso di Arcore.

Contrariamente a quanto accade nel resto d’Italia infatti la Notte Bianca a Modica non è stata organizzata dall’amministrazione comunale – il cui bilancio disastrato e i milioni di euro di debiti accumulati da una fallimentare amministrazione di centrodestra farebbero impallidire anche il viso di un senegalese. VR Night il vero nome della manifestazione (ovvero la notte di Video Regione), il gruppo Minardo patrocinatore nella figura rampante del suo rampollo più promettente, Nino Minardo.

La famiglia Minardo, i Kennedy di Modica li chiamano. Proprietari di un impero economico-politico (come ricordavo qui), tengono in mano, insieme a pochi altri, la politica cittadina creando e distruggendo alleanze, estromettendo e imponendo loro clientes, muovendo le fila come burattinai silenziosi. Senza scrupolo alcuno, arrivando anche ad estromettere Riccardo Minardo, ex senatore forzista da 70.000 voti nonché zio del suddetto Nino, il cavallo di Troia che in passato era servito ad espugnare la roccaforte di Montecitorio per curare gli interessi di famiglia. Adesso lo zio Riccardo, messo in minoranza dal nipotino coordinatore della Forza Italia locale, ha dovuto addirittura abbandonare il suo vecchio partito trascinandosi verso le nuove frontiere dell’MPA. Partito giovane, che bramava una personalità del calibro di Riccardo Minardo (il quale ha ancora un seguito sterminato) che ha dato una nuova possibilità all’ex senatore, ora deputato del Movimento per l’Autonomia. Se tuttavia lo zio Riccardo mantiene l’aria dimessa e l’umiltà di un campagnolo ripulito che cerca di mettere una buona parola un po’ per tutti – certo non disinteressata, che credete – e con il quale puoi parlare tranquillamente, anche in dialetto, il nipotino deriva invece dalla scuola berlusconiana più pura e becera: gessato alle dieci del mattino, sempre perfetto, sorriso di plastica, lontano mille miglia dal mondo reale. Astro calante Riccardo, astro crescente Nino: rastrellati nel frattempo le cariche di presidente del Consorzio autostrade siciliane, di presidente della Fondazione Federico II e qualche altra mezza dozzina di incarichi, Nino attende ormai l’incoronazione formale a conte e re di Modica.

Notte Bianca, panem et circenses

Costretto per impegni radiofonici a raggiungere il centro storico, scopro sin da subito una città sotto assedio: strade chiuse con check point come a Baghdad, traffico in tilt, parcheggi come utopia, bus navetta stracolmi di umanità varia, vigili urbani insolitamente efficienti – beh, non tanto insolitamente visto che anche il loro lavoro per la Notte Bianca, straordinari compresi, è stato pagato dal gruppo Minardo. Insieme agli Skaramanzia, il gruppo ska che ho intervistato quel giorno, riusciamo in qualche modo ad incastrarci tra la folla della navetta e a scendere verso il centro… Non continuerò oltre, se non per segnalare un episodio illuminante che ha contribuito ad infiammare le mie preoccupazioni sul futuro della politica, dell’indipendenza etica e culturale, della libertà d’azione nella mia città. Dopo l’intervista agli Skaramanzia raggiungo due miei amici, proprietari di una libreria in centro. Noto che di fronte al loro negozio è stato costruito un palchetto il cui fronte dà verso il marciapiede e non verso la strada. Ciò significa che non appena inizierà il concerto l’ingresso della libreria sarà ostruito dagli spettatori… Strano, in effetti, se è vero che la Notte Bianca dovrebbe anche invogliare agli acquisti.

Per fortuna i miei dubbi vengono subito fugati scorrendo il programma della Notte Bianca: questo concerto in programma non esiste, ergo qualcuno ha voluto approfittare dell’onda lunga per acquistare notorietà. Questo qualcuno ha purtroppo nome e cognome… Antonio Modica e la sua Mohac Music Machine. Sospenderò il giudizio su Antonio Modica: c’è chi lo considera un grande professionista, c’è chi invece crede che James Brown da morto sia più bravo di lui. Voglio solo ricordare che il suo concerto, per certi versi abusivo all’interno di una manifestazione privata quale la Notte Bianca, non solo ha reso difficoltoso l’accesso ad alcuni bus navetta, ma ha anche impedito ad un altro artista, regolarmente in programma, di esibirsi su un palchetto poco distante: l’amplificazione del gruppo di Antonio Modica infatti superava di gran lunga i virtuosismi solistici della chitarra di Saro Tribastone, forzatamente ridotto a silenzio.

Evidentemente qualcuno deve aver protestato per questo concerto non in programma, se poco prima di iniziare si avvicina ad Antonio Modica un rappresentante della SIAE per chiedere conto e ragione dell’evento. Subito dopo però un quartetto raggiunge i due. Ne riconosco tre: Vincenzo Pitino inteso ‘Nzuliddu, (uomo fine ed elegante, il quale dopo la vittoria del suo centrodestra alle amministrative passò con i suoi sostenitori sotto la sede del candidato a sindaco perdente strombazzando, urlando, buttando in aria i volantini ormai inutili e facendo le corna ai presenti), Girolamo Carpentieri, vice presidente della Provincia e Nino Minardo.

La triade del potere.

Dopo aver parlottato fitto con Antonio Modica il tutto si conclude con uno dei tre che dà al cantante una paterna pacca sulla spalla e lo saluta affabilmente. Il giorno successivo Antonio Modica è addirittura invitato allo speciale che Video Regione ha organizzato per autocelebrare la propria Notte Bianca… Comincio anche quest’anno con un conato, e so che andrà sempre peggio.

sabato 5 gennaio 2008

Sine spe sine metu

La mia terra, ubriaca di morti ammazzati, stordita di criminali in galera, si avvede poco o niente della cappa che la soffoca ancora. Non emergenza ma perfida cronica malattia, che sembra resistere ed attecchire, anzi, vivere rigogliosa in simbiosi. Mafie… Mafia. Quante volte ho detto questa parola, quante volte ne ho scritto, quante ore ho sprecato in inutili discussioni tra gente che la pensava allo stesso modo, che si batteva le mani e si faceva i complimenti per la forza perlocutoria delle immagini di legalità che riusciva a suscitare...

Ieri sera a Palazzolo Acreide ho assistito alla consegna annuale del premio intitolato alla memoria di Pippo Fava, giornalista e direttore de “I Siciliani” ucciso due volte, con le pallottole dalla mafia e con le parole dalla Catania bene di quegli anni. 5 gennaio 1984, anno orwelliano. Dove poteva accadere che il presidente degli industriali siciliani dichiarasse pubblicamente di chiudere in fretta questa vicenda e di non parlare più di mafia, parola che faceva paura agli investitori e li faceva allontanare dalla Sicilia. Interventi forti quelli di ieri sera, dal coordinatore dell’associazione antiracket di Palazzolo al presidente della Confindustria siciliana, da Roberto Morrione, a Claudio Fava, ai ragazzi di AddioPizzo – insigniti giustamente del premio. Due note stonate invece i saluti del vicesindaco di Palazzolo e dell’assessore provinciale all’istruzione. Non che fossero cattivi interventi, pavidi o ambigui. Erano semplicemente i soliti interventi. Mafia… bla bla, cultura della legalità… bla bla, istituzioni… bla bla, sviluppo e territorio… il solito pistolotto imparato a memoria e vomitato all’infinito. Parole, vuote come le orbite di un cieco abituato al suo mondo di oscurità. Come se la mafia fosse una categoria dello spirito che aleggia, impalpabile, sulla terra di Sicilia.

Ormai anche i figli dei mafiosi, i bambini, sanno che parlare della mafia come qualcosa di cattivo procurerà loro un bel voto a scuola e la lode delle maestre. L’importante è però che rimanga un’astrazione, una lotta fumettistica dei buoni contro i malvagi: basta ricordare ogni tanto qualche morto per mano mafiosa, i capi mafiosi in carcere, partecipare a qualche bella coreografica manifestazione antimafia (magari organizzata dai mafiosi stessi che se la cantano e se la suonano), basta guardare qualche fiction in tv e si ha la coscienza a posto. Come se la mafia non fosse fatta di persone, come se non avesse invece nomi e cognomi, volti, facce di gente che vedi tutti i giorni e con cui sei costretto a convivere. Persone accanto alle quali vivi, lavori. Persone che ti prestano quel denaro che la banca si rifiuta di prestarti, a tassi, certo, non proprio agevolati. Persone che ti chiedono un contributo per la famiglia e se rifiuti passano alle minacce, e poi alle ritorsioni, e poi alle pistolettate. Persone che trafficano armi e droga e che, non sapendo come spendere i soldi guadagnati sul sangue e sulla pelle di altri, candeggiano i propri denari in attività assolutamente lecite. Persone che ti scavalcano nei posti di lavoro, che inquinano gli appalti e che cercano di convincerti, qualora per sorte o caso ne avessi vinto uno, di lasciar perdere con strumenti persuasivi di grande impatto. Persone che ti sorridono, che ti danno pacche sulla spalla, che conoscono il tal politico e anzi ne sono amici intimi, avendo fatto accordi tra gentiluomini che solo dei malpensanti potrebbero definire voto di scambio

Nomi e cognomi.

Pensavo a questo mentre il signor Caligiore, coordinatore dell’associazione antiracket di Palazzolo Acreide, gioiva al pensiero del boss Gianfranco Cavarra finalmente in carcere. Ammiravo lo sguardo fiero di Caligiore, la schiena diritta e la dignità di chi non si è piegato, l’orgoglio di poter pronunciare pubblicamente il nome dell’uomo che voleva imporre il suo volere all'azienda di famiglia. Gianfranco Cavarra. Quello stesso uomo che sedici anni prima era venuto a chiedergli denaro in cambio di protezione. Riflettevo su questo: sul coraggio di un uomo capace di riunire attorno a sé un piccolo ma tenace gruppo di imprenditori del suo paese e di guidarli contro l’abuso, l’illegale, il terrore. Riflettevo sul perché Caligiore sia ancora tra di noi a portare la sua testimonianza e Libero Grassi sia invece morto, mi chiedevo perché Pippo Fava sia stato ucciso dalla mafia e invece Lirio Abbate sia ancora vivo. La differenza credo sia una sola, abissale. Per Grassi, per Fava, così come per Rostagno, per De Mauro, per Impastato, per Rizzotto, per dalla Chiesa, per Livatino, per Falcone, per Borsellino, per tante decine di altri eroi semplici dei quali non dovremmo mai dimenticare la lezione. Queste persone non è stata la mafia ad ucciderli. Hanno premuto il grilletto, è vero, hanno innescato una bomba, ma non sono stati i mafiosi a condannarli. È stata l’indifferenza ad ucciderli, l’indifferenza generale, il silenzio di chi sapeva, l’inazione di chi poteva e non ha fatto… Si muore quando si è lasciati soli. Quando chi ti sta attorno preferisce accudire le proprie piccole convenienze rinunciando a lottare contro il nemico comune, anzi tesse taciti patti con lui quando non palesi alleanze.

Perché la verità è questa. Brutta, indigesta quanto si vuole: che per una parte dei siciliani la mafia significa convenienza. Tranquillità. Protezione. La mafia conviene. Un para-Stato che possiede sovranità, popolo e territorio e che potrà essere abbattuto solo attraverso una guerra aperta, totale, spietata e senza quartiere… Parole, parole anche queste. Nonostante l’indubbia utilità non si può arrivare a teorizzare l’eliminazione fisica di tutti i mafiosi, sebbene in guerra sia lecito uccidere il proprio nemico. E allora rimangono solo due strumenti in mano: da un lato l’impegno continuo e reale da parte di quello Stato di cui si dice facciamo parte ma anche e soprattutto con l’impegno di ciascuno di noi. Ciascuno, nel suo piccolo. Secondo le proprie capacità e possibilità. Non si chiede a nessuno di essere eroe: solo, non arretrare di fronte al nemico comune. Perché non sono tanto le urla dei malvagi a farmi paura, quanto il silenzio dei giusti. Il silenzio di chi dovrebbe stare dalla parte dei giusti. Eccone un esempio vergognoso, presente alla mostra fotografica su Pippo Fava nell’atrio comunale del comune di Palazzolo Acreide. Foto di pessima qualità, scattata con il telefonino (chiedo anzi se qualcuno me ne possa fornire una copia di qualità migliore) ma che dovrebbe essere stampata e distribuita in migliaia di esemplari, perché certe cose non si dimentichino mai.


La foto raffigura la signora Carmela Minniti, moglie di Nitto Santapaola – padrone incontrastato della Sicilia orientale – che inaugura, a Catania, una concessionaria di automobili di proprietà del marito. Accanto a lei, due compiaciuti signori: il primo è Agostino Conigliaro, all’epoca questore di Catania, il secondo invece Francesco Abatelli, all’epoca prefetto di Catania.
Questore e prefetto. Lo Stato che va a braccetto con l’anti-Stato. La cosa che mi fa più rabbia però è che questi signori si staranno godendo una cospicua pensione pagata con i soldi dei cittadini italiani e non saranno minimamente vittime del rimorso per aver contribuito, rifiutandosi di vedere la realtà, a rendere ancor più potente e letale il dominio mafioso sulla Sicilia.

Ecco il nostro compito. Parlare, parlare, parlare. Ricordare, mettere in atto iniziative concrete, uscire alla luce del sole. Fare corpo unico. Comprendere la nostra superiorità rispetto alla loro vigliaccheria. Non lasciare soli quanti hanno il coraggio di urlare contro. Denunciare i soprusi. Ma soprattutto fare nomi e cognomi. Perché dovremmo? Perché si deve, perché è giusto, perché è l’unica cosa da fare se vogliamo prendere in mano il nostro destino con la consapevolezza di una guerra incerta e lunghissima. Se vogliamo riconquistare la nostra terra, la nostra libertà: va fatto, senza chiedersi perché.

Senza speranza e senza paura.

Facendo nomi e cognomi. Perché la mafia cessi di essere considerata dall’opinione pubblica come un’entità astratta, un copione da fiction, e si riveli per quello che è. Un pugno di criminali senza alcun onore, indegni anche di essere chiamati uomini, indegni anche dell’aria che respirano, il cui unico destino possibile dovrebbe essere quello di marcire in qualche galera. Dimenticati da tutti, evaporati: come un brutto incubo, al risveglio, al mattino.

Piccola notizia intorno ad una fede lunatica

Da qualche mese latitante, lo ammetto. Quasi sempre piccoli post, frantumi di pensiero abbandonati su una superficie scarna. Sostanza e non forma. Non fogli trapuntati di parole a sedurre la mente e a piegarla al suo volere, ma post it attaccati malamente. Colpa di una piattaforma singhiozzante, è vero, ma colpa anche di un lunatico sommerso di incombenze quasi mai portate a termine nel tempo voluto… Anno nuovo. Speranza di riuscire a formare un unico grande collage della propria vita con pezzetti di esistenza smembrati, speranza – perché no? – di tornare ad occupare con regolarità questo piccolo impalpabile cratere elettronico. Anno di svolta, si spera. Anno di scelte, magari. Un altro anno è finito. Assassinato. La cascata dei giorni trascina un altro inutile disperato anno nel dirupo del tempo e nulla sembra cambiare al mondo.

Immutabile. Morti, devastazioni, malattie, guerre: un caos maledetto che non ha alcuna intenzione di tendere all’entropia.

Vanitas vanitatum omnia et vanitas recita ancora oggi il Qoelet, un libro della Bibbia che ho sempre amato – sì, avete letto bene. Il libro dell’assenza di Dio, che tratteggia un mondo pazzo alla deriva di un universo inconoscibile. Strano, vero? Che da anticlericale convinto, eretico per acclamazione popolare citi un libro della Bibbia. Forse perché, a differenza di altri, vedo nella Bibbia solo uno straordinario esempio di una cultura complessa e antichissima. Contraddittoria a volte, discutibile se vogliamo, eppure una cultura da cui, volenti o nolenti, in parte deriviamo: le nostre radici. Greche, romane, cristiane, ebraiche, musulmane, ma anche illuministe e razionaliste…

Ho perduto da tempo la fede, come una foglia si stacca dal proprio albero d’autunno. Lentamente la linfa che dava sostanza e nutrimento la abbandona. Perde colore. Ingiallisce e si lascia infine trasportare dal vento. Non credo più nel Dio dei cristiani, anche se confesso ancora un po’ d’invidia nei confronti di quanti riescono a lasciarsi andare, ad un salto nel buio che supera la razionalità e fornisce una speranza. La fede o ce l’hai o non ce l’hai, non la puoi inventare. Così come non la puoi travestire da religione che è solo rito e dogma, o tutt’al più dipinto di un’idea comune a tutte le culture ma adattata nelle forme a ciascuna di esse.

L’idea di un Dio creatore o di una sostanza unica... Tante sono le porte, una sola è la stanza. Il vero problema sta nel capire cosa ci sia all’interno di questa stanza, sempre che qualcosa ci sia. Ma non pretendo certo di esaurire millenni di elucubrazioni filosofiche in un miserrimo post quale il mio. Io non so se qualcosa o qualcuno ci sia, non so come questo qualcosa sia fatto né se questo si interessi o meno alle vicende umane: semplicemente, la mia ragione non possiede gli strumenti per definirne con certezza la sua esistenza o la sua inesistenza. La fede o ce l’hai o non ce l’hai.

Io l’ho perduta da tempo, ma insieme al vuoto dell’assenza è rimasto un profondo rispetto per una fede genuina, espressa senza costrizioni e senza pretendere di imporre ad altri la propria concezione del mondo. Ecco da cosa deriva il mio anticlericalismo. Non sopporto le chiese quando si trasformano in strumento di potere e nascondono l’ideologia più becera dietro il paravento della sacralità, non sopporto le religioni quando si trasformano in strumento di controllo mentale. Non sopporto nemmeno l’ostentazione della propria religiosità perché credo in una dimensione intimista dei sentimenti: non sbandierati, non portati in trionfo.

Mal sopporto anche l’atteggiamento di certi atei. L’ateismo, negazione di una religione, paradossalmente diventa religione essa stessa quando si fa dogma ed imposizione mentale, quando la Ragione prende il posto di un Dio da adorare acriticamente, davanti al quale inginocchiarsi e al quale rivolgersi nei momenti di difficoltà. Non sopporto l’ostentazione della propria non-fede, l’estrema propaggine del razionalismo, il meccanicismo piegato a vanità suprema e strumento di derisione.

Pur avendo una visione strettamente meccanicistica del mondo però, non riesco ancora a capacitarmi della sua bellezza. Comprendo il come e il perché delle cose attraverso le scienze esatte: capisco perché il sole tramonta e risorge, perché un bocciolo si apre alla rugiada, perché la pioggia si forma e perché cade, comprendo perfettamente il modo in cui il sistema nervoso ci fa intenerire dinanzi ad un cucciolo d’uomo o d’animale, o perché proviamo piacere e dolore. Eppure non mi basta. Per me tutto è sacro e meraviglioso, per me ogni singola parte dell’esistenza grida al miracolo: non si può evitare di rimanere abbagliati dalla bellezza della vita, pur nella consapevolezza del dramma di vivere e del suo dolore.

Solo non credo che nessuna religione sarà mai capace di riassumere il mistero della vita, così come nessun mantra o litania potrà permetterci di giungere alla comprensione più profonda. Credo nella straordinaria possibilità data all’essere umano. Unici peccati, sopraffare i propri simili e cercare di dominare il mondo che ci appartiene. Unica fede, assaporare la pienezza di ogni istante nella certezza della sua provvisorietà. Unica preghiera, la nostra vita stessa.