martedì 27 febbraio 2007

Chiamatemi Ismaele

I punti fermi.

Punto primo: in Italia la sinistra esiste solo come categoria dello spirito ed utopia di qualche illuso passatista definito appartenente alla “sinistra radicale”. La sinistra, quella reale, ha smesso di esistere con la caduta del Pci. Dopo è stata solo una ridicola mascherata di centristi-neoliberisti-bigotti-guerrafondai-protettori-di-Confindustria che hanno ancora oggi la faccia tosta di appellarsi “compagni” riuscendo a rimanere seri.

Punto secondo: l’Italia senza la Democrazia Cristiana proprio non ci sa stare. Rassicurante come la gobba di Andreotti, approdo sicuro per teo-con, liberisti ipocriti e punto di riferimento moderato per il grosso degli elettori, questa formazione continua a sopravvivere camaleontescamente mutando nomi e forme eppure rimanendo sempre a dominare la politica e la vita degli italiani.

Punto terzo: il centro-sinistra italiano non vede l’ora di liquidare la “sinistra radicale” per il grande calderone del centro in cui gli italiani possano riconoscersi e per cui possano votare. Seguendo i principi del rasoio di Ockham diventa difficile non pensare che la crisi di governo sia stata pilotata dalla stessa maggioranza per escludere la “sinistra antagonista” in favore di una convergenza coi partiti di centro. D’Alema mi è sembrato piuttosto chiaro in proposito: Non abbiamo bisogno del Partito democratico per dire che questa sinistra non va bene, perché ce lo aveva già insegnato il partito comunista”... Se non è un siluramento ufficiale poco ci manca. D’altronde il Partito Democratico preme e con esso la sua logica moderata, riformista e catto-zerbinesca: basta sommare i voti di Ds, Margherita, IdV e Udeur per capire di come la “sinistra radicale” per loro rappresenti una palla al piede. Metterli in minoranza, isolarli è il primo passo: sarà poi il Partito Democratico a fagocitare quanto rimane della sinistra e a toglierle ogni peso politico contrattuale. Il centro-sinistra ha tirato sempre di più la corda fino al discorso di giovedì pronunciato da Baffino al Senato: chiaro lo scopo sotterraneo, quello di indispettire la “sinistra radicale”. Che tuttavia ha votato compatta, a parte gli ormai arcinoti Rossi e Turigliatto che insultati da tutti, hanno a mio giudizio solo la colpa di essere stati dei boccaloni. Di essere cascati nella trappola centrista della maggioranza di governo.

Prodi e compagni vogliono sbarcare al centro? Nulla da eccepire, per carità, il trasformismo è l’anima del potere: ma che almeno abbiano la dignità di non chiamare sinistra quella che è solo una sordida convergenza di interessi.

giovedì 22 febbraio 2007

Carthago delenda est

Per la serie "vittime della legge Basaglia" ecco un altro pezzo di fanta-storia. Un giornalista dell'antica Roma...

IL SENATO APPROVA LA MOZIONE DEL SENATORE CATONE: SI AVVICINA LA GUERRA CONTRO CARTAGINE

“Fino a quando Asdrubale potrà abusare della nostra pazienza? Fino a quando Cartagine potrà nascondere a Roma le sue armi di distruzione di massa? Fino a quando, cari cittadini, Roma potrà tollerare un tale affronto alla propria potenza? Del resto, ritengo che Cartagine debba essere distrutta”. L’aspra bagarre che aveva infiammato duramente gli scranni del Senato opponendo la fazione degli Scipioni, da sempre sospettata di simpatie progressiste, alla communis opinio dei restanti membri del consesso sembra oggi arrivata al termine. Il discorso del senatore Marco Porcio Catone ha troncato senza possibilità di replica le esili argomentazioni del senatore Nasica: la guerra sembra dunque decisa e con essa il destino di Cartagine. Avviciniamo il senatore Catone ancora accalorato dall’intervento e lo convinciamo a rilasciare una breve intervista.

Senatore, oggi il Senato ha approvato la sua mozione. Cos’è cambiato nella maggioranza di governo?
“Il Senato ha finalmente compreso la pericolosità di Cartagine e del suo governo dittatoriale e ha messo da parte i deliri filo-punici di qualche invasato da centro sociale. Durante il mio soggiorno a Cartagine in qualità di ispettore ho visto coi miei stessi occhi depositi sterminati di munizioni e laboratori per lo sviluppo di mortali armi di distruzione di massa. E’ un nemico troppo vicino che Roma non può ancora sopportare a lungo... Guardi questi fichi: da quanto crede siano stati raccolti? Solo tre giorni fa questi fichi si trovavano a Cartagine! Si rende conto? Per questo ritengo che Cartagine debba essere distrutta”.

Il suo discorso ha spento le speranze degli Scipioni e in particolare del senatore Nasica...
“Quel pacifista, quel comunista: fosse per lui non avremmo nemmeno conquistato il Sannio! E’ necessario comprendere che il regime cartaginese rappresenta una minaccia e sono felice che il Senato in questo frangente abbia dato prova di compattezza e di maturità. Consideri l’arretratezza culturale, la religione, la deleteria politica economica di Cartagine che rischia ogni giorno di mettere in ginocchio Roma: ritengo che uno scontro di civiltà sia inevitabile, così come inevitabile la sopravvivenza di uno solo tra i due. E’ in gioco la nostra stessa esistenza! O vuole lasciare in mano ad un branco di beduini le sorti della nostra splendida Roma? E’ bene essere chiari: per il bene della Repubblica Cartagine deve essere distrutta”.

Cartagine continua a bloccare i rifornimenti granari destinati a Roma? Il programma “Stannum pro cibum” è dunque fallito?
“Dopo l’operazione Procella in vastitate il programma Stannum pro cibum aveva permesso ai cittadini cartaginesi di sopravvivere al regime tirannico e dittatoriale che, e lo dico colpevolmente, Roma non era stata in grado di abbattere. Se il regime fosse stato leale e avesse mantenuto i patti firmati dopo la battaglia di Zama Roma non avrebbe avuto alcuna ragione per intervenire. Tuttavia Cartagine sembra fare orecchie da mercante e continua ad introdurre illegalmente armi dalla Mauretania Tingitana. Non solo: agenti dell’intelligence riferiscono di un programma di riarmo giunto a livelli preoccupanti, nonché di insoliti movimenti al confine con la Numidia. Senza dimenticare quelle armi letali... Non credo possano esistere dubbi sulla necessità di distruggere Cartagine”.

Cosa risponde a chi la accusa di avanzare prove pretestuose riguardanti le armi di distruzione di massa? Quanti si oppongono alla guerra affermano che la conquista di Cartagine sarebbe in realtà un pretesto utile a gettare le basi per l’avanzata romana in Africa e per punire le mire espansionistiche della Numidia...
“Sciocchezze. Conosciamo ciò di cui sono capaci i Cartaginesi. I detrattori della guerra hanno forse dimenticato gli orrori perpetrati da Annibale in Italia? Roma ha costruito una vasta coalizione di popoli decisi a liberare il mondo dal terrore. Non permetteremo a nessun terrorista o tiranno di minacciare la civiltà con armi di distruzione di massa: Roma non vivrà alla mercè di alcun complotto o potere straniero, voglio che questo sia chiaro. Se la distruzione di Cartagine potrà essere utile all’espansione della civiltà romana che ben venga, ma non permetterò a nessuno di darmi del bugiardo. Ho visto coi miei stessi occhi le stalle dove erano tenuti quegli elefanti...”

Gli elefanti, ha dunque visto personalmente le famigerate armi di distruzione di massa?
“Assolutamente. Centinaia e centinaia di elefanti da guerra pronti ad insidiare la libertà del popolo romano... Non aspetteremo con le mani in mano coltivando il nostro orticello: d’altronde se vuoi la pace preparati a combattere la guerra. Ormai il dado è tratto... Roma ha fatto ai leader cartaginesi una serie di richieste chiare e specifiche: nessuna di queste richieste è stata esaudita e ora pagheranno il prezzo di questo rifiuto. Allo stesso tempo il popolo cartaginese oppresso dal regime conoscerà la generosità di Roma e dei nostri alleati. Mentre colpiremo gli obiettivi militari effettueremo lanci di cibo, medicinali e rifornimenti per gli uomini, le donne e i bambini che stanno soffrendo e morendo di fame. Roma è amica del popolo cartaginese ma contesta quel regime sanguinario. Ecco perché Cartagine sarà distrutta dal nostro esercito”.

Non le sembra una contraddizione in termini dire di voler aiutare il popolo cartaginese e poi prepararsi ad una guerra contro di loro?
“Le faccio notare che i Cartaginesi soffrono a causa delle scelte attuate dal loro regime, non certo a causa dei Romani. Se il popolo cartaginese vorrà unirsi a noi sarà accolto lietamente: in caso contrario saranno considerati nemici di Roma ed annientati”.

Quali saranno le prossime mosse di Roma dopo Cartagine?
“Dopo la distruzione di Cartagine vuole dire...”

Certo. Penso comunque che i lettori di ResPublica abbiano ormai chiaro il concetto. Quali saranno le prossime mosse di Roma sullo scacchiere internazionale?
“Oggi ci concentriamo su Cartagine, ma certo la battaglia è molto più ampia. Roma desidera solo la pace per i propri cittadini ed è disposta a difenderla con ogni mezzo. Ciascun paese deve fare una scelta, in questo scontro di civiltà non esistono stati neutrali. O con noi o contro di noi. O Roma o morte. Dovremo comprendere ad esempio la posizione occupata dalla Numidia e se questa debba ancora essere considerata nostra alleata. La Macedonia è turbolenta e non passa giorno che Lusitani e i Celtiberi in Spagna non diano grane ai governatori locali. Roma andrà avanti: non ci ritireremo e non ci stancheremo, non indugeremo e non falliremo. La pace e la libertà vinceranno. Ad ogni modo, non potremo prescindere dalla distruzione di Cartagine”.
Dalle parole del senatore soffiano forti i venti di guerra che sembrano annichilire le palllide proteste dei pacifisti accampati sulla spianata del tempio di Giano. Avviciniamo Gaio Lutatio Rubor, esponente di Amnistia Internationalis e leader dei contestatori che rilascia una dichiarazione secca e lapidaria: “Dicono di volerlo fare per Roma, parlano di missione di pace? Bene. L’importante è che i diritti umani vengano rispettati. Non facciamo il deserto per poi chiamarlo pace”.

lunedì 19 febbraio 2007

Non abbiate paura




A volte mi sorprendo. Ieri, durante una complicata discussione con un amico riguardante DiCo e coppie di fatto mi sono trovato incredibilmente a difendere la Chiesa e papa Nazinger. Non le loro posizioni, ovviamente, ma il loro diritto di espressione. Parliamo tanto di libertà d’espressione, la rivendichiamo, com’è giusto, quando questa ci viene tolta o quando il potere vuole limitarla eppure noi stessi cerchiamo talora di soffocare le opinioni altrui. Di zittire gli altri.

Tuttavia, se l’art. 21 della Costituzione Italiana non è stato scritto solo per riempire un vuoto compreso tra il 20 e il 22 ritengo fondamentale che in questo Stato si garantisca il diritto d’espressione anche a gentaglia come preti, leghisti, xenofobi o neofascisti – almeno fino a quando non si configuri un reato quale apologia del fascismo. Garantire la libertà d’espressione non implica però favorirla: ed è qui che nasce il problema politico.


Nel caso della Chiesa cattolica nessuno dovrebbe spingersi a chiederne il silenzio. È un suo diritto quello di esprimersi sulle questioni riguardanti etica e morale così come è un suo diritto quello di parlare ai propri fedeli di simili questioni. Il vero problema dell’Italia non è tanto la Chiesa, il Vaticano, le gerarchie ecclesiastiche o i credenti: il vero problema risiede nell’ottusità di buona parte della nostra classe politica che non possiede il coraggio o semplicemente la maturità e la lungimiranza per ignorare i diktat pontifici o confessionali in genere e puntare ad uno Stato seriamente laico.

Forse sono solo furbi, i nostri politici. Considerate infatti quale enorme autorità morale – pur in declino – possiede ancora oggi la Chiesa cattolica e considerate quale enorme massa di voti riesce a spostare. La politica dei furbetti allora si riveste della più diffusa confessione religiosa professata in Italia, la venera come autorità morale, si prostra come zerbino ai suoi piedi e incamera voti dai cattolici apostolici romani. Una mano lava l’altra, no? D’altra parte la Chiesa, che mantiene al potere una determinata classe politica attraverso i voti dei propri fedeli, necessita di imporre per legge ciò che ormai non riesce più ad imporre per “fede”, e cioè la propria ideologia con il deleterio effetto collaterale di voler imporre il proprio sistema di pensiero a tutti, indiscriminatamente, creduloni, credenti e non. La Chiesa sopravvive, i politici conservano il proprio potere. Do ut des.

Non dobbiamo aver paura delle opinioni avanzate dalla Chiesa cattolica. Dobbiamo temere invece una classe politica di inetti che tiene in enorme considerazione e si prostra vergognosamente a qualunque minchionata dichiarata dal prete di turno. Lasciamo starnazzare i corvacci in tonaca e pensiamo ad una politica laica per favore, costruiamo una politica fatta dall’uomo, per l’uomo.

Dio lasciamolo giocare ai dadi.

giovedì 15 febbraio 2007

Granaglie di storia - ultima parte

Finalmente riesco a postare la conclusione della cronaca umbra di quest'estate. Mi scuso con tutti gli amici interessati se è trascorso tutto questo tempo ma solo ora ne ho trovato un po' da dedicare al racconto delle granaglie di storia che tanto amo. Per chi volesse rinfrescarsi la memoria ecco i link delle altre due parti, la prima e la seconda.

Come un’altalena su una spiaggia desolata

Dopo il laboratorio torniamo a casa. Quotidianamente tra le mura montecchiesi si consuma un dramma silenzioso che accomuna ciascuno di noi. Una volta terminata la giornata di lavoro ciascuno si trova nell’imbarazzante condizione di dover tirare il resto del pomeriggio sino all’ora di cena. Una volta fatta la doccia e coadiuvato gli altri nella sincronizzazione dei rubinetti di casa ciascuno si arrangia come può. Si parla tra di noi o si tenta un cruciverba di gruppo mentre Santina canta a squarciagola canzoni improbabili – nemmeno Dario Argento ha utilizzato urla più raccapriccianti per i suoi film –, volteggia piroettando e si unisce episodicamente alla discussione. Talora anche Maria Francesca ascolta musica, ma essendo un tantino più riservata di miss Egocentrismo di cui sopra si eclissa discretamente nell’ascolto di Niccolò Fabi. Adriana dal canto suo va alla ricerca di riviste frivole con l’aria di una tossica in crisi d’astinenza – l’edicola più vicina è ad otto chilometri – mentre io non perdo occasione per punzecchiarla continuamente. Avendo saputo che non avrebbe partecipato alla Notte della Taranta causa una mancata coincidenza ferroviaria l’ho torturata per tutti e sei i giorni della sua permanenza ricordandole ad ogni pie’ sospinto di quanto magica fosse la taranta e la musica che la accompagna e di quanto fosse stata sfortunata per non avervi potuto prendere parte... Che ci volete fare, a volte sono come i bambini – e poi dovevo pur passare il tempo in qualche modo, no?


Per quanto mi riguarda, dopo il quotidiano rapporto con la doccia geyser quando non parlicchio con gli altri mi isolo nella lettura o tra le note del mio lettore mp3 e giaccio sdraiato sul letto come un balenottero arenato su qualche spiaggia del Mediterraneo. Parimenti Alberto, dopo aver provato a studiare per una manciata di minuti, chiude i libri imprecando e si attacca ai suoi auricolari. Mi accorgo sempre di quando Alberto decide di ascoltare musica, lo sento anche con le cuffie... Le mie cuffie. Il sospetto che Alberto provenga da un altro pianeta si fa più forte: ascolta musica ad un volume così alto che un essere umano avrebbe ragionevolmente perso l’uso dei propri timpani già da parecchio tempo. E invece lo osservo con interesse pierangiolesco mentre, seduto a terra sul balcone, immancabile sigaretta in mano, subisce con tranquillità disarmante i riff di qualche chitarraio punkettaro.

A volte esco anch’io sul balcone ed osservo Montecchio e i suoi abitanti. Sembra che il tempo in questi luoghi scandisca un ritmo tutto suo, quasi rallenti le nostre vite e le sincronizzi al battito di un minuscolo cosmo. Come una piuma che si stacca da un uccello in volo e prima di toccare terra volteggia e si attarda in cielo, così il tempo, prima di giungere a compimento nella sera, sfiora i montecchiesi e li accompagna dolcemente nella loro vita quotidiana. Gli uomini si fermano al bar per un bicchierino, i bambini giocano tutti insieme nella piazzetta mentre le madri/nonne/zie fanno cortile, sparlano dell’universo mondo e si danno appuntamento alla Sagra degli gnocchi. Gente semplice di un mondo semplice. Ed è questo ciò di cui sento il bisogno. Solitudine e semplicità. Non certo la solitudine che ti strazia l’animo e che fa eco al tempo che rintocca tra le pareti della tua esistenza: una condizione di vita invece, fatta di esigenze reali, rapporti sinceri, concretezza. Vorrei poter ascoltare la mia voce, spesso coperta o soffocata dalle voci altrui, essere me stesso. Senza orpelli, semplicemente, e non sentirsi come su un’altalena in una spiaggia desolata...

Avevo appena ricevuto la tessera della videoteca quando, più di dieci anni fa, il mio occhio cadde sul manifesto di “Al di là delle nuvole”, di Michelangelo Antonioni. Annuivo gravemente anche se non avevo mai sentito parlare di Antonioni: le mie conoscenze cinematografiche si limitavano infatti ad un nutrito numero di film d’azione a stelle e strisce – del tipo “Cristo Harry questi stronzi di merda vogliono fotterci! Non ce la faccio... Andate avanti senza di me..”.Non ti lascerò a morire in questo fottutissimo posto amico!” – e ad una sterminata quantità di commediole spensierate. Epperò mi atteggiavo: anzi, dovevo farlo. Altro non ero che un ragazzino saccente alla ricerca di un film strano, folle ed intellettualoide al punto giusto per poter interpretare io stesso, il giorno successivo, la parte dell’intellettualoide che guarda solo film impegnati e snobba i successi di cassetta. Ricordo che inserii la videocassetta e mi sdraiai sul letto preparandomi alla visione di un film che probabilmente non avrei capito e che avrei sopportato solo per far colpo sulla tipetta col basco e la maglietta di Che Guevara che mi faceva tanto impazzire – la tipa, non la maglietta. Eppure accadde un fatto insolito. Incantato da quegli splendidi corpi femminili che si muovevano con la delicatezza di una tela di ragno, bevvi letteralmente i monologhi e la musica di contorno, rimasi stregato da quelle immagini malinconiche. Non avevo mai visto un film “impegnato”: da allora mi innamorai perdutamente del cinema, quello vero, e delle emozioni che può trasmettere e regalare senza chiedere nulla in cambio... Doveva essere quella la catarsi di cui tanto parlava Aristotele.

Ho rivisto ancora quel film. Il mio primo vero film. Il film in cui mi sono subito identificato: l’incomunicabilità del vivere, la tragedia quotidiana, la solitudine che parlano attraverso un’altalena su una spiaggia desolata che si stringe attorno al corpo di John Malkovich. A volte sento come se ci fossi io su quell’altalena.


Luigi, un amarcord
Fortunatamente la sera si cena in maniera più sostanziosa rispetto al pranzo: i ragazzi cucinano bene e sembrano trovarsi a loro agio sia tra granaglie di storia sia tra i fornelli. Soprattutto il conte Max, il quale inventa ogni sera ricette da gourmet pur usando – conta che ti riconta – sempre gli stessi ingredienti. Riuniti intorno al tavolo della minuscola sala da pranzo trascorriamo tra chiacchiere, vino e lazzi il resto della serata. Stefano è un calderone di aneddoti e riesce a raccontare anche il fatto più comune in maniera tale da farci scompisciare dalle risate. Come le curiose abitudini del proprietario, il già ricordato Decio. Prima che cominciasse la campagna di scavo i ragazzi avevano avuto l’accortezza di depurare la casa dalle decine di santi e santini che dovevano ragionevolmente servire a tenere lontane le grinfie del Maligno da un simile abituro, soprattutto considerando la passione per l’imprecazione studiata e l’attitudine per la bestemmia amorevole di certi individui che avrebbero frequentato il paese... Purtroppo nulla avevano potuto per la sala da pranzo molecolare. Direttamente all’ingresso faceva bella mostra di sé una rastrelliera per fucili che certamente non aveva solo fini decorativi e una serie di uccelli e uccellini impagliati da qualche strampalato tassidermista del luogo che ci fissavano coi loro occhi di vetro.

Fra questi uno in particolare che, per motivi riconducibili solo all’eccesso alcolico, avevo ribattezzato Luigi. Non senza ragione. L’anno scorso aveva partecipato alla campagna di scavo un individuo decisamente insolito, kafkiano, un tantino fuori di testa se vogliamo. Luigi il suo nome. Napoletano sui quarant’anni, restauratore di professione e fumettista per passione, con lui si poteva parlare di due soli argomenti: fumetti e legno. Il legno soprattutto. Quest’uomo conservava un’insana passione per il legno che trascendeva spesso nel morboso: probabile reincarnazione di un castoro, appoggiato al tavolo lo si poteva spesso osservare mentre con gli occhi persi nel vuoto, parlando da solo, ne enumerava le virtù e i difetti. Picchiettava il legno con le nocche, grattava con l’unghia lo strato superficiale, lo accarezzava per poi grugnire di soddisfazione. Nonostante la limitatezza degli argomenti, una volta aggirata l’insormontabile barriera linguistica – per lui, non era importante che gli altri capissero cosa diceva, né gli altri, a dirla tutta, avevano così tanta voglia di starlo a sentire – Luigi travolgeva chiunque con la sua dialettica alluvionale. Altra sua passione la pubblicità del prodotto per profumare gli scarichi domestici: avete presente quella dei nani che bussano alla porta dicendo “Puzza puzza puzza”? Bene. Non appena per nostra disgrazia la programmazione televisiva ne proponeva una replica lui cominciava a ridere sguaiatamente e non faceva altro che ripetere “Mi fa schiattar’ ‘sta pubblicità!” con una parabola discendente che terminava con la fine dello spot.

Ecco, la pernice impagliata sul camino aveva lo stesso sguardo da serial killer di Luigi. Vitreo, perso nel vuoto. Senza contare il supporto che la reggeva, legno robusto e ben tornito. Luigi ne sarebbe stato orgoglioso.


Sulle strade di Montecchio
Era una sera ventosa quando Maria Francesca decise che sarebbe diventata mia amica. Peccato che lei non ne fosse al corrente. Quella sera gli autoctoni, in occasione dell’evento culturale dell’anno – la già citata Sagra degli gnocchi – avevano gentilmente invitato l’intera combriccola di zappatori specializzati ad una commedia in dialetto che avrebbero rappresentato sulla piazzetta del borgo. Vista la non eccessiva confidenza con la linguistica umbra e le sue variazioni lessicali tuttavia avevamo pensato di non partecipare e di rimanere in casa. Trascorso un po’ di tempo però, spinto da un innato spirito asociale, decido di consumare il mio primo sigaro umbro e di uscire a passeggiare per le strade di Montecchio cercando di evitare la rappresentazione e le eventuali richieste di recensioni al volo. Sarebbe stato scortese dire che trovo meno difficoltà nel comprendere buona parte delle lingue del ceppo ugro-finnico piuttosto che il dialetto umbro. Mentre sto per uscire sento una voce alle spalle che dice: “Aspetta, ti faccio compagnia! Se ti va”... No, in effetti non mi andava. Volevo stare un po’ con me stesso e riflettere, passeggiare tra le stradine in croce del borgo e lasciar trascinare i miei pensieri dal vento fino a trasportarli dove occorreva che arrivassero. Ma la voce era quella di Maria Francesca: il suo tono era così gentile che non ho avuto il coraggio di rifiutare.

Percorriamo le stradine di Montecchio e rimaniamo ammaliati da quelle casette strette l’una accanto all’altra, quasi a volersi riscaldare durante il rigido inverno umbro: alcune ristrutturate, parecchie in disuso, malconce e venate da rampicanti che spargevano intorno un odore di selvatico affatto spiacevole. Arriviamo senza volerlo – vorrei sottolineare questo fatto... – alla piazzetta giusto in tempo per applaudire i commedianti che ringraziavano il pubblico chiedendo se la commedia fosse stata di loro gradimento. Meta-teatro, o forse solo uno scambio di battute tra vicini di casa e di borgo. Ci raggiungono Adriano e il Plinio di Montecchio e spengo immediatamente ogni loro speranza recensiva informandoli di essere arrivati pochi secondi prima della fine della rappresentazione. Rimaniamo a parlare un po’ con loro: Adriano è un pacioso ed innocuo ragazzone nostro vicino di casa che parla un buon italiano venato di sottili sfumature umbre mentre il Plinio... Concedetemi due battute su Plinio. In realtà non ricordo molto di quest’uomo – nemmeno il nome –, se non l’aspetto e la sua insaziabile curiosità. Quarantenne, piccolo di statura ed elettrico nei movimenti, un pizzetto quasi perfetto, rigagnoli di capelli artatamente legati in una coda e uno sguardo sempre attento e guizzante. Lo avevamo visto nei giorni precedenti arrivare, chiedendo lumi, con alcuni cocci che aveva raccolto durante le sue passeggiate: in cerca di fossili, aveva trovato invece interessanti orli di ceramica da mensa che avrebbero giustificato il nostro survey – infruttuoso purtroppo – del giorno successivo. Ci aveva seguito chiaramente, parlando in continuazione e facendo sempre domande intelligenti e pertinenti... Sarebbe stato un ottimo ricercatore, se solo avesse studiato.

Lasciamo Adriano e Plinio alle loro occupazioni e continuiamo la nostra passeggiata ripercorrendo ad anello le stradette del paese. Con un vento freddo che copre il suono dei nostri passi cominciamo a parlare delle nostre esperienze e delle nostre vite e Maria Francesca riesce dove più di una persona, prima, aveva fallito. Pur proteggendo strenuamente la mia vita privata dalle intrusioni altrui infatti, comincio a raccontarle particolari che sono in pochi a conoscere. Senza omettere alcunché. Inspiegabilmente Maria Francesca riesce a scavalcare il muro di riservatezza che circonda la mia sfera privata... Ascolta, senza giudicare. Ascolta, cercando di capire. Parla essa stessa della propria vita, e sento che non c’è alcuna diffidenza nei miei riguardi. Le nostre maschere sono appese, dondolanti al vento, e ciascuno vedrebbe – se solo la timidezza lasciasse distogliere lo sguardo dal circostante – la sincerità negli occhi dell’altro.

Passeggiamo ancora per un po’ cianciando di sciocchezze, lasciando che il vento trascini via l’amarezza e la tristezza dei discorsi di prima. Torniamo a casa, consapevoli di avere ciascuno un nuovo amico su cui poter contare... Benvenuta nel mio mondo, Francy.

Ioculator Domini

Sabato mattina è giorno dei primi saluti. Dopo aver trascorso la serata precedente tra il vino montecchiese e le giostre della sagra con una Santina scatenata sul calcinculo – e uno Stefano in ipossia dalle troppe risate – le ragazze vanno via. Una bella settimana, un’esperienza incredibile che è trascorsa fin troppo in fretta tra la serietà dello scavo e le interminabili serate di paese. Dopo aver salutato affettuosamente Adriana, Maria Francesca e Santina – così come il conte Max, che tornerà domenica sera – rimaniamo in casa solo io ed Alberto. Facciamo colazione con una lentezza che avrebbe indignato persino un bradipo saccheggiando il frigorifero e gli armadietti della cucina e poi ci prepariamo altrettanto lentamente per la meta di oggi. Non riuscendo a sopravvivere un’intera giornata nel limbo montecchiese difatti decidiamo di trasportare le nostre membra impigrite a fare una gitarella in quel di Assisi. Contaminata dalla lentezza locale, l’auto di Alberto percorre con calma le stradine tortuose della campagna umbra. Mentre la radio urla rock a pallettoni raggiungiamo tranquillamente Assisi e parcheggiamo in un luogo non troppo lontano dal centro. Tappa scontata: la basilica. Percorro le viuzze ripide che portano alla basilica pensando con terrore allo sforzo immane che proverò al ritorno – certo, non conoscevo ancora l’erta micidiale di Spello – e noto una insolita confusione anche per un luogo così turistico. Marcia per la pace recitano infatti gli striscioni che molti dei ragazzi portano con sè... Non posso evitare commenti sarcastici sull'utilità di simili manifestazioni. Oh che bello, marciamo tutti insieme perché crediamo nella pace, cantiamo balliamo, scandiamo slogan: ora sì che la pace nel mondo trionferà. Marciamo per la pace in Italia che fa fico ed impegnato, facciamo tante belle fiaccolate coreografiche e urliamo slogan intelligenti che ci convincono sempre di più di quanto noi siamo nel giusto. Peccato che i signori della guerra non tengano in gran conto il nostro impegno sociale.

Entriamo in basilica e subito noto uno strano tizio che individua le donne con abiti non adeguati e che chiede loro di coprirsi porgendogli dei foulard. Immediatamente a lato un piccolo tavolino con un frate dagli occhi a mandorla (!) che vende bagattelle sacre ad uso e consumo dei turisti/pellegrini. Noto con piacere che l’attenzione riservata alle scollature femminili e alla sacralità del luogo non è rivolta ai mercanti nel tempio che sembrano poter prosperare sotto il controllo dell’autorità ecclesiastica. Medesima autorità che permette solo alle proprie guide di spiegare gli affreschi del Cimabue o di Giotto e che invita ad uscire tutte le altre... Ignoro per un attimo l’ipocrisia di simili gesti e mi concentro sugli affreschi. Alberto tira fuori un’insolita aria professorale e con acribia descrittiva degna di un manuale di storia dell’arte comincia a spiegarmi i cicli delle rappresentazioni e i temi principali degli affreschi. È stupendo trovarsi a pochi passi da una meraviglia dell’ingegno umano ed ammirarla senza riuscire a stancarsi. Trascino le gambe con gli occhi fissi su quelle figure e non posso fare a meno di pensare all’orgoglio di Giotto o di Cimabue consapevoli che i loro nomi e le loro vite sarebbero sopravvissute attraverso il prodotto sublime della loro arte. Abbandono con tristezza quella visione per visitare la cripta che accoglie i resti di Francesco. Di quel matto di Francesco aggiungerei.

Giullare di Dio amava definirsi, e la sua era una religiosità fatta di parole e di gesti semplici, una lode continua per la meraviglia della vita e del creato. Un matto che, ignorando la corruzione nella Chiesa dei suoi tempi si era spogliato di ogni avere e aveva trascorso la propria vita dentro un saio predicando a destra e a manca l’amore per il prossimo. A chiunque. A tutti e ad ogni cosa… E allora passi per i musulmani della penisola arabica che avevano visto arrivare questo strambo individuo vestito di stracci che blaterava qualcosa in una lingua assurda, ma predicare anche agli uccelli e alle bestie feroci! Suvvia, un po’ di giudizio.

Entriamo nella cripta. Si respira un silenzio irreale fatto di struscii e bisbigli. Le candele bruciano. La gente passa, si ferma, osserva. La gente prega. Si respira un’atmosfera pesante e a tratti opprimente… Poi succede qualcosa. Non chiedetemi cosa.

A l’alta fantasia qui mancò possa erano state le parole dell’amico Dante quando, nella finzione poetica del Paradiso, non aveva trovato il coraggio di una suprema eresia nel descrivere la visione di Dio attraverso la manchevolezza della parola umana. Allo stesso modo, modesto miserrimo epigono che pur venera la potenza della parola fatico ancora oggi, seduto di fronte alla tastiera e lontano da quel luogo, ancora oggi fatico ad acconciare, travestire di parole e comprendere le sensazioni provate all’interno di quella cripta. Comprendere all’improvviso la forza d’animo di quell’uomo, la lealtà verso il mondo e la sua sincerità. Comprendere una fede che non ha bisogno di intermediari, di dottori della Chiesa e dei legacci di una ideologia religiosa. Comprenderne la tensione verso un Assoluto che lui preferiva chiamare Dio.

Pur odiando profondamente qualsiasi dottrina che nasconda i propri interessi dietro il paravento di una religione, pur essendo ferocemente ed irrimediabilmente anticlericale ho sempre guardato alla fede altrui con grande rispetto, a chi è capace di un salto nel buio che superi e vada oltre la ragione. Per un principio comune che ogni cultura ha voluto chiamare in modo diverso e ha voluto definire secondo una infinitesima e parziale visione innalzata alla saccenza dell’unicità. Pur non credendo più non ho mai ridicolizzato la fede genuina, la fede di persone come Francesco che anteposero alla propria vita un’idea e vissero seguendo rigorosamente la voce di questa idea. Provo una strana vertigine al cospetto di quelle ossa, un senso di riverenza che avevo provato già qualche giorno prima dinanzi alle ossa di Iacopone a Todi. E rimango turbato, turbato quando mi accorgo che i miei occhi diventano lucidi alla vista di quel sepolcro, al pensiero di quella vita limpida e mai ubbidiente. Sono triste. La tristezza di chi, forse, è cosciente di aver provato un tempo la gioia di una tensione verso l’Assoluto e sa che non riuscirà mai più a provarla.

“Cos’hai?” mi chiede Alberto. “Un po’ di claustrofobia”, mento.

Ma buono ‘sto vino!
Tradizione della specie umana vuole che due o più uomini posti nel medesimo ambiente finiscano inevitabilmente per parlare di donne. Nulla di sorprendente dunque se dopo una settimana di convivenza trascorsa a parlare di scavi, studi, musica e dopo aver cercato di insegnare il dialetto siciliano ad Alberto – con ottimi risultati devo dire –, naturale che la questione salti fuori. Dopo aver girovagato un po’ per Assisi decidiamo di mettere qualcosa sotto i denti. Pur avendo la possibilità di scegliere qualsiasi tipo di pranzo preferiamo non spendere troppo e, in una bottega, facciamo imbottire due bei panini con mortadella di cinghiale. Siamo proprio dei taccagni. Trascorsa una settimana a mangiare affettati il nostro fegato dovrebbe bestemmiare in turcomanno eppure non riusciamo a resistere alla malia dell’affettatrice… Abitudine, se volete. Paplov era un genio.

Ci ritroviamo a pranzare seduti su un bastione e a discorrere tranquillamente delle nostre vite. Si dice che sia più facile raccontare di sé ad un perfetto sconosciuto perché il timore di essere giudicati è minore rispetto ad una persona che ci conosce e della quale pensiamo di essere stimati. Nel nostro caso la discussione prende una piega personale con grande naturalezza, senza alcuna forzatura. Trascorriamo un po’ di tempo sul bastione e commentiamo un matrimonio che si sta svolgendo all’interno della chiesa che sta di fronte a noi – santa Chiara, ma non ci giurerei –. Le nostre opinioni non sono del tutto convergenti: intuisco che Alberto è il classico ragazzo che vuole mettere la testa a posto dopo aver vissuto un bel po’ di esperienze interessanti e vede nel matrimonio il naturale approdo della sua vita. Io invece, pur avvertendo la medesima esigenza di tranquillità affettiva, non credo sarei ancora capace di affrontare un passo simile… La discussione divaga e continua lungo la via di ritorno alla macchina mentre accendo il mio primo toscano al caffé – buono, forse un po’ artefatto per i miei gusti. Si parla di esperienze precedenti, di grandi amori e di delusioni talora intervallando il discorso con dissertazioni su viaggi e musicisti virtuosi.

Torniamo verso sera a Montecchio e dopo una doccia ad orologeria decidiamo di cacciare la malinconia delle discussioni vespertine partecipando all’ultima serata della sagra: cena collettiva, sissizie di paese sotto il grande tendone costruito apposta per la manifestazione. Due porzioni di gnocchi al sugo d’oca, due piatti giganti di arrosto misto e un litro di vino rosso. Mentre attendiamo la nostra ordinazione non possiamo fare a meno di ascoltare – nel senso che siamo costretti a farlo – le note strimpellate da un complesso Casadei-style giustamente ignorato da chi ascolta musica vera ma che sembra spopolare nelle balere locali. Nel frattempo notiamo che all’estremità dello spazio dedicato alla sagra è stato relegato un altro gruppo, probabilmente autoctono, che si scatena con un repertorio di tutto rispetto: Bruce Springsteen, i Nomadi, Ligabue, i Queen, gli U2 – fermo restando (giudizio personale) che Bono sia un individuo da sopprimere nel più doloroso dei modi.

Ci serve Francesca, la figlia del fattore che ci aveva ospitato l’anno scorso nell’agriturismo di sua proprietà. Una ragazzina sveglia e simpatica che l’anno precedente ci aveva fatti sorridere con il suo accento più che marcato e che era stata canone inconsapevole per Rosaria, una ragazza capace di riprodurre alla perfezione qualsiasi cadenza dialettale. Cominciamo a mangiare e mi accorgo di trovarmi in un contesto, quello della sagra di paese, che non vivevo da anni. Abitando una città diventata in poco tempo ricca, superba e supponente – ancorché meravigliosa – che ha relegato le sagre ad evento per sempliciotti di campagna o le ha trasformate in patinati e ridicoli slow food events, lascio che la mia mente ritorni alla semplicità e al piacere ingenuo che provavo da bambino alla vista dei pentoloni e delle padelle giganti che si usavano per cuocere le pietanze. Mi sento leggero e stranamente in quiete con me stesso.

Alberto versa il vino per entrambi e dopo il primo sorso – diciamo pure dopo il primo bicchiere – sorge sulle mie labbra l’esclamazione che rintoccherà almeno un centinaio di volte sotto quel tendone: “Ma buono ‘sto vino!”. Un ottimo vino, vermiglio, pastoso e frizzantino, che scendeva giù come niente… Non aspettatevi definizioni da sommelier quali gusto rotondo, dall’odore degli alpeggi friulani e con retrogusto di paglia e miele di rabarbaro. Ho sempre diffidato di chi descrive ciò che sto per bere con simili arzigogolii da piazzista: non ho una grande conoscenza di vini ma capisco quando un vino è buono e quando invece troverebbe miglior posto tra l'aceto per condire le insalate. A me basta.

Nel pomeriggio le nostre chiacchierate avevano preso toni malinconici. Davanti ad una caraffa vuota e al primo litro asciugato in un batter di ciglio ogni barlume di malinconia era stato scacciato dall’allegria artificiale del vino. Bere per dimenticare? Un luogo comune da rifuggire. Si beve per ricordare, per riportare in vita quella gioia che si crede ormai impossibile da recuperare… Ma non insidiamo la narrazione con toni elegiaci decisamente fuori luogo. Nessuno dei due ha problemi insormontabili, nessuno dei due soffre di crisi depressive, nessuno dei due è un musone ed entrambi amiamo la vita, la musica, il vino e le donne! La discussione prende toni burleschi e dopo un ulteriore mezzo litro di vino e una trentina di mie lodi al fattore che lo aveva prodotto si sfiora il livello da caserma. L’ultimo mezzo litro cade come una mannaia sulle nostre inibizioni dialettiche e il tono e il linguaggio diventano tali che avrebbero fatto arrossire anche un camionista ucraino in trasferta.

Ci alziamo barcollanti e sorridenti, certo, non prima di aver fatto apprezzamenti gentili su un gruppo di “aggraziate” fanciulle che sedeva poco distante da noi. Da beoni inveterati decidiamo che un litro di vino a testa non basta per chiudere degnamente la serata – ma buono ‘sto vino! continuo intanto a ripetere con ilarità tutta etilica. Birra. Media. Alla spina. Ritorniamo a casa con passo incerto risalendo il piccolo dislivello che divide Montecchio dallo spiazzo della sagra. Il sigaro arde aromatizzando l’aria, le luci dei paesetti vicini stemperano all’orizzonte. Entriamo in casa pasticciando con le chiavi e le porte e poi raggiungiamo i letti. Parlottiamo ancora un po’ decidendo la meta del giorno seguente e trovo l’occasione per ricordare ancora una volta ad Alberto la bontà di quel vino.

Poi caddi come corpo morto cade.

Per una ermeneutica del panino con la porchetta
Consapevoli che il cerchio alla testa non rappresenta il peso di un’aureola, ci svegliamo con i classici postumi di una sbornia. Testa pesante, metallo in bocca. Nulla che un buon caffé ed un congruo numero di biscotti al cioccolato non possa cacciare via. Consumata la colazione ci avviamo a passi tardi e lenti verso la macchina di Alberto. Lasciamo Montecchio in direzione Spello, un delizioso borgo medievale. E’ una realtà nuova per me, quella dei borghi medievali. Continuo a rimanere sorpreso dalla bellezza di posti simili, soprattutto quando vi si respiri un’aria genuina, fatta di una nobile decadenza che non si cura del tempo che passa. Purtroppo quasi ogni borgo possiede la sua stradina caratteristica costellata di negozi che vendono cianfrusaglie e paccottiglia: senza dimenticare gli scorci pittoreschi sempre affollati dagli esperti di fotografia, supponenti Robert Capa in erba che occupano la visuale con treppiedi e marchingegni dei quali essi stessi ignorano l’utilizzo. Quelli della pellicola a tutti i costi – beh, aggiungete anche me allora! –, quelli che parlano di esposimetro, otturatori e kit per stampare da sé le foto. Quelli che tagliano le teste quando chiedi loro di scattarti una fotografia.

Questo è uno dei motivi per cui odio tutti i posti turistici, Taormina in primo luogo, questo è uno dei motivi per cui amo la rocca superiore di Taormina, Castelmola, altrettanto caratteristica ma meno prostituita alle logiche del turismo di massa. Anche Spello non rifugge dall’autocompiacimento, e tuttavia sarebbe impossibile non amare questo paesino. Nonostante l’erta terrificante che aspetta quanti vogliano arrivare sino in cima… Noi siamo arrivati fino in cima. Chiaramente esiste un servizio navetta che risparmia la fatica della salita: chiaramente non di domenica. Ecco perché armato di pazienza e della tenacia di una lumaca ad una maratona mi accingo a scalare Spello – parlo al singolare, Alberto ha fatto il militare negli alpini! Sono questi i momenti in cui ci si pente delle proprie trippe e si postula un futuro fatto di cibi macrobiotici e deschi trappisti. Per fortuna mentre arranchiamo lungo la salita notiamo alla nostra sinistra, quasi incastrata tra le botteghe che vendono delicatessen da slow food, una macelleria che reca sulla vetrina un cartellone diabolicamente allettante:

si fanno panini con porchetta

Ho trovato la ragione che mi spingerà fino alle più alte propaggini della montagna. Giungo con ciò che rimane del mio respiro alla vetta e bevo avidamente dalla fontana posta sulla piazzetta antistante il belvedere. Un altro particolare a cui non sono abituato: provenendo da una regione in cui l’acqua è preziosa ed è usata come merce di scambio dalle varie famiglie mafiose rimango continuamente stordito da questo spreco di fontane e di acqua… Mettete dei rubinetti, l’acqua è preziosa!

La salita ha risvegliato i demoni della fame. Mando al diavolo i miei propositi dietetici e di comune accordo con Alberto andiamo alla ricerca della macelleria che avevamo adocchiato salendo. Una volta trovata la bottega entriamo e la prima cosa che noto è un buon quarto di porchetta arrosto che riposa su un ceppo consumato dall’uso. Successivamente mi accorgo dell’ambiente dimesso e alla buona. Di quelle botteghe che hanno i piani di marmo solcati dalle coltellate, o delle bilance meccaniche, di quei negozietti a conduzione familiare che se ne fregano della niù-economi e che non cederebbero ad un centro commerciale nemmeno se venisse Gesù Cristo con tutte le scarpe a pregarli. Ci accoglie la proprietaria, una simpatica cicciona che sembra non aver smesso di sorridere da quando è al mondo. Ondeggiando il seno enorme che deve aver sfamato generazioni di figli affetta la porchetta con un coltellaccio, dunque prende due pagnottelle da un cesto di vimini intrecciati e, dopo averli imbottiti con cura, ce li porge dentro due tovaglioli rossi. Ringraziamo e usciamo a consumare il nostro pranzo nei pressi del “Foro” della città. In realtà non più che qualche pietra superstite dell’antica gloria di Hispellum… E questo non può che mettere tristezza. Pensare che la maggior parte delle persone vede il lavoro di un archeologo come qualcosa di assolutamente inutile, un capriccio personale che talora intralcia il lavoro delle persone serie e degli imprenditori che creano sviluppo i quali non possono costruire in un determinato luogo per colpa di quattro pietre in croce senza alcun valore. Come a dire che un oggetto non ha altro valore se non economico.

Eppure provate a tagliare le radici ad una pianta: come potrebbe sopravvivere a lungo senza di esse? Ecco ciò che stiamo facendo al nostro mondo. Matti come non mai tagliamo le nostre radici, ignoriamo, anzi, disprezziamo le tracce del nostro passato e le consideriamo vecchiume e carabattole per secchioni occhialuti da deridere. Il mondo veloce, il mondo mc donald’s, il mondo dell’usa-e-getta, il mondo dell’effimero è diventato il nostro mondo. Tranciamo le nostre radici salvo poi riattaccarle malamente quando queste possano essere sfruttate come macchina per fare soldi. Ignorare il nostro passato significa accelerare la morte di un mondo già in agonia. La razza umana è destinata a scomparire, e non ce ne rendiamo ancora conto.

Figli di un dollaro minore
Lasciata Spello facciamo una breve passeggiata a Montefalco, altro bel borghetto d’impianto medievale con un’osteria in cui sarei entrato se solo fosse stata aperta. L’osteria della lumaca ubriaca. Non si può ignorare un’osteria dal nome simile: certo poteva essere solo un nome furbo, uno specchietto per attirare le allodole dei turisti, ma diamine, perché non provare? Un appunto per il prossimo anno. Ritorniamo alla nostra cara Montecchio dove ci attendono gli Svizzeri. L’ultimo turno segna così dei rivolgimenti logistici all’interno della casa: gli Svizzeri occuperanno la stanza che era stata della Guardia Rossa, la quale passerà nella stanza occupata fino ad allora da me e da Alberto, che invece dormiremo insieme al Gonzo di Riace nella stanza occupata dalle ragazze durante la settimana appena trascorsa. Troppe nuove presenze che necessitano una descrizione…

Partiamo dagli Svizzeri, che tali dovevano essere almeno secondo le informazioni raccolte da Stefano. Mi aspettavo di trovare individui che per stile ed accento ricordassero il mitico signor Rezzonico di Aldo, Giovanni e Giacomo – e in tal caso avrei chiesto fino alla nausea che pronunciassero con voce stentorea il tormentone “Potevo rimanere offeso”: si presenta invece una coppia giovane, dinamica, scattante e modaiola, molto glamour – di quelle che se la tirano un tantino, per capirci –, che non è addetta ai lavori ma che è venuta solo a fare turismo archeologico. Ah, non sono nemmeno svizzeri ma provengono da una città posta a pochi chilometri dal confine. Lombardi insomma, con il mito del lavoro e tutta una serie di preconcetti sul Sud e sulla Sicilia che, capirete, non ho molto gradito. Improvvisamente mi trovo abbarbicato nella mia enclave da uomo del Sud più sud a difendere la mia terra da giudizi facili e frettolosi, giudizi di chi la Sicilia l’ha solo visitata e pretende di aver trovato la soluzione a tutti i nostri problemi. Mi accorgo inoltre che la Guardia Rossa, “romana de Roma”, dà loro ragione ed anzi rincara la dose – crede che bastino otto mesi vissuti a Napoli per conoscere il Sud – provocando in me travasi di bile non indifferenti. Visto che si tratta dell’ultima settimana comunque, e visto che, tolti i pregiudizi e gli stupidi preconcetti sia gli Svizzeri sia la Guardia Rossa sono delle persone simpatiche, preferisco evitare polemiche e quando il discorso cade su qualche argomento scomodo semplicemente mi eclisso dedicandomi ad altro.

Turismo archeologico s’è detto. Di fatto per loro una vacanza. Pur di rimpinguare le casse vuote e sempre in difetto di finanziamenti statali gli archeologi avevano infatti inserito nel programma della campagna di scavo anche questa possibilità, sperando – credo – che nessuno partecipasse con spirito simile. Perché nella mente di una persona estranea all’ambiente si addensano spesso le immagini della trilogia di Indiana Jones e l’entusiasmo per la scoperta cozza talora con la povertà dei materiali rinvenuti; perché infine un profano, se non seguito, può fare ancora più danni di uno studente inesperto – che già ne fa tanti e, in qualità di studente, parlo per esperienza personale… In questo caso è la moglie a trascinare il marito, il Rottame Umano, in una vacanza alternativa. Dopo coast to coast negli Stati Uniti, isole del Pacifico varie, Russia e luoghi impervi per vacanze griffate decidono di partecipare a quella che per loro sarà solo “un’avventura” da raccontare agli amici durante qualche happy hour. Sono una compagnia gradevole e divertente eppure sento che con loro, a parte il medesimo pianeta e la casa di Montecchio, ho ben poco da spartire: i miei bisogni sono diversi dai loro, figli di un liberismo assatanato e senza prospettive che considera civile un luogo solo se nei negozi si può pagare con la carta di credito e degno di nota solo se quel luogo si trova nei pressi un centro commerciale. Provengono proprio da un altro mondo.

Il Rottame umano in special modo sembra non rendersi conto di come la loro vita sia qualcosa di patinato e scintillante lontano dalla vita vera, quella fatta di bisogni reali e non di crisi isteriche provocate dalla mancanza della griffe preferita al negozio dietro l’angolo. Eppure non sono cattivi: hanno le loro idee, e poi, se a loro va bene così… Il sarcasmo del Rottame e soprattutto il suo stato fisico dopo la prima giornata di cantiere, esagerato per amor di paradosso, gli varrà due soprannomi scelti per acclamazione dall’intera congerie: il Conte, qui però già assegnato con maggiore cognizione di causa a Massimo, e il Rottame umano appunto, per gli acciacchi veri e verosimili che lamenterà durante l’intera settimana. Alle sue geremiadi tuttavia si aggiungeranno le mie lagne generate da strumenti con i quali non sono molto avvezzo, pala e piccone, che userò spesse volte fino alla chiusura dello scavo su un banco di terra pieno di marmi. Almeno fino all’arrivo di un uomo dotato di vigore e forza bruta che disdegnerà la cazzuola e voterà la sua presenza sullo scavo alla totale disintegrazione di quel banco: il Gonzo di Riace… Ma andiamo con ordine.


Eia eia alalà
La settimana precedente in visita allo scavo gemello di Scoppieto le ragazze avevano attardato il loro sguardo su un energumeno che stava riportando in baracca gli attrezzi: torso nudo, alto, muscoloso, fisico scolpito da bronzo greco, sguardo da duro. Ammetto che si trattava di un ragazzo ben fatto, capace giustamente di affascinare la parte femminile del nostro gruppo. Perché io sono obiettivo, non sono certo come alcune fanciulle di mia conoscenza che, parlando di Monica Bellucci ebbero il coraggio di affermare che non era una bella donna perché aveva il faccione… Bisogna dire che non lo avevamo ancora sentito parlare ed interagire con il resto del mondo: a dire il vero il modo di fare e la camminata nearderthalense dovevano far sorgere più di un dubbio in noi.

Niente fu più appropriato di Gonzo di Riace per definirne lo stile. Dopo aver sommato con un po’ di inquietudine il suo fisico alle simpatie vetero-fasciste che in famiglia si tramandavano da generazioni (suo nonno era stato guardia del corpo di Mussolini) decido che è bene per la mia salute non parlare di politica con lui. Scopro invece un ragazzo di poche parole ma simpatico, un ragazzone tutto d’un pezzo che solo l’apparenza potrebbe scambiare per individuo pericoloso. Attenzione: per sua stessa ammissione se provocato mena, ma la sua soglia di sopportazione è per fortuna (altrui) molto alta. Con lui arriva inoltre un inedito passatempo che impegnerà molti di noi nelle sere successive: gli scacchi. Il Gonzo è un giocatore attento e riflessivo che difficilmente si lascia ingannare dalle mie misere manovre diversive… Lo ammetto. Nonostante gli scacchi mi divertano sono proprio negato per questo gioco, mi lascio prendere dall’impulsività e quasi sempre perdo. Ricordo di una partita storica con PhyStyle in cui ero riuscito a decimare tutti i suoi pezzi tranne un pedone e il re: beh, PhyStyle aveva vinto… A Montecchio il copione si ripete, con l’aggravante delle mosse rese ancora più incerte da grappa e distillati vari. Durante una partita contro il Gonzo in cui inspiegabilmente sto vincendo, si avvicinano all’improvviso due giocatori esperti come Stefano e il Conte che da bravi maledetti cominciano a commentare le mie mosse: basta poco per farmi andare nel pallone più completo. Riesco a chiudere il Gonzo solo dopo una quarantina di mosse rischiando lo stallo un paio di volte!

Cori russi a Natale
Gli ultimi giorni sullo scavo vanno a rilento: la chiusura si avvicina e il nostro lavoro si rivolge essenzialmente alla ripulitura degli ambienti e al completamento di piccoli saggi che poi rappresenteranno il punto di partenza per lo scavo della prossima estate. Lo sbancamento della terra – affidato in pianta stabile al Gonzo – è poi particolarmente rallentato: causa evidente la Guardia Rossa, innamorata persa dei marmi che in quel punto rinvengono a chili. Ogni volta che il colpo del piccone spezza inavvertitamente una lastra si sentono provenire dalle sue parti urletti e gridolini di riprovazione per quel “marmicidio”. A nulla valgono le imprecazioni divertite di Stefano che le ricorda di come quei marmi rappresentino solo uno strumento per lo studio: non si buttano insomma solo perché si violerebbe la legge, ma la loro utilità è limitata ad una campionatura statistica. Sono belli, è vero, ma l'amore della Guardia Rossa rasenta la psicopatia. Così, pur minacciata dal piccone del Gonzo, la Guardia Rossa continua imperterrita a bloccarlo alla vista di qualunque frammentino in modo da tirarlo fuori con la delicatezza di un artificiere e poi ripulirlo lasciandolo in bella mostra nel capanno degli attrezzi.

Altra figura insolita la Guardia Rossa. A parte la singolare abitudine di non parlare la mattina a colazione e di non rispondere nemmeno al tuo buongiorno, a parte le rigide convinzioni in cui crede fermamente. Comincio in effetti a conoscerla meglio solo gli ultimi giorni quando i nostri dialoghi vanno al di là di qualche battuta o di richieste di informazioni strettamente tecniche. È una persona riservata e si mescola meno con “la truppa” rispetto agli altri archeologi: così ho l'occasione di parlare con lei solo in macchina quando, come da programma partecipa con noi alla “visita guidata di una città d’arte”. La settimana precedente la scelta era caduta sull’erta massacrante di Todi: questa settimana ci aspettano la rupe di Orvieto, la rocca di Bolsena e un suggestivo lago al tramonto.

In macchina rivelo alla Guardia Rossa ciò che incredibilmente sembra non aver capito e cioè che il Gonzo è un fascista vero e fiero tutto razza, fede, patria ed onore. Un piccolo trauma per lei. Comincia a raccontarci della sua infanzia in una famiglia di comunisti duri e puri dove già da piccoli i ragazzini ricevevano un rigido indottrinamento ideologico con tanto di foto dei patriarchi del comunismo appese alle pareti e cori russi a Natale in spregio alla tradizione cattolico-borghese. Comprendo adesso il suo atteggiamento e la sua rigidità di carattere: chi cresce costretto nella venerazione di un sistema di pensiero sviluppa poi un atteggiamento che impedisce il dialogo e lo scambio di opinioni... In fondo il Gonzo e la Guardia Rossa sono simili, entrambi frutto dell'asservimento acritico ad una ideologia.

Ad Orvieto arriviamo tardi e non possiamo purtroppo visitare il museo dedicato a Claudio Faina... Mi volto e la bellezza sconcertante del Duomo mi colpisce alla nuca e mi trascina all’interno senza che io riesca a dire alcunché. Abituato alla chiese intagliate nella pietra della mia regione rimango sempre senza parole al cospetto di una cattedrale gotica: come se volessero trasmettere con la loro fascinosa austerità il mistero di una speranza mai fatta verità che pure milioni di uomini e donne hanno trasformato in scopo, fede e credo. Usciamo alla luce del sole e i pensieri neri lasciano posto ad una tranquilla passeggiata per le stradine di Orvieto. Decidiamo di lasciare la città per pranzare nei pressi di Bolsena in una di quelle trattorie in cui la gente va per riempirsi la pancia, che ad un’ottima cucina e ad un servizio sempre sorridente uniscono porzioni enormi, vino robusto e prezzi piccoli piccoli. Dopo aver mangiato di gusto e dopo aver avuto uno scambio di battute con la moglie del gestore – pensava la prendessi in giro quando le ho chiesto l’Amaro del Capo – ci dirigiamo verso Bolsena e la rocca Monaldeschi della Cervara che ospita il museo civico...

Come riconoscere un archeologo o un aspirante tale in un museo? Risposta: Se presso una vetrina in cui è esposto un frammentino che il resto dell’universo ha chiaramente ignorato trovate un individuo attaccato al vetro che contesta la didascalia e la datazione in essa proposta allora non ci sono dubbi. Quell’individuo appartiene alla mala razza dell’archeologo. Io ed Alberto non smentiamo questa legge: usciamo per ultimi dopo una visita lunghissima e pur guardandoci intorno non riusciamo a capire dove il resto del gruppo possa essere andato. Dopo aver controllato se gli altri fossero già al parcheggio abbiamo notato un po’ più in basso del museo un wine-bar (fa più fico che dire taverna, no?)... Non sarebbe stato più necessario cercare, almeno uno di loro lo avremmo trovato. Troviamo difatti Stefano e il Rottame Umano ciascuno con un bicchiere in mano mentre degustano i vini che la sapienza del proprietario ha consigliato loro: ci uniamo anche noi alla degustazione mentre già si sentono in lontananza le voci della Iena e della Guardia Rossa sopravvenire. Si torna a Montecchio. Non posso credere che tra due giorni finirà già ogni cosa... La spremuta di luce del sole al tramonto tinge di rosso le acque magiche ed inquietanti del lago di Bolsena e ci invita, avvolgente, alla notte.

Epilogo. In morte di un amico
Ero piccolo, sei o sette anni, la prima volta che l’avevo visto. Agile e nervoso, magro come un chiodo, sguardo penetrante ed inquisitore, lineamenti sanguigni, quei capelli un po’ troppo lunghi per la sua età, il cappellaccio vezzosamente calato sulla fronte. Tutta la sua figura traspariva vitalità e curiosità intellettuale. Ricordo che, bambino curioso e petulante qual ero, ero rimasto meravigliato dai suoi racconti che a me sembravano essere quelli di un Indiana Jones in carne ed ossa. Mai avevo pensato che il passato potesse essere così interessante, mai avevo ritenuto la memoria così importante per l’uomo, mai avevo creduto le voci dal passato così necessarie per la vita stessa di ciascun uomo. E quella strana creatura era riuscita a zittirmi, ma chi era mai questo che andava per grotte con un taccuino in mano, che stava fermo per ore ad osservare un terreno in apparenza brullo ed improduttivo? Non mi importava che agli altri il suo lavoro apparisse inutile, rincorrere il sogno di dialogare con il passato, non mi importava nulla di quello che gli altri dicevano: io volevo essere come lui, io dovevo essere come lui.

La semplicità misura la grandezza di una persona, il sorriso e la sua disponibilità ne suggellano il ricordo. Aveva voluto che lo chiamassi Duccio sin da subito, per nome, nonostante lui fosse un adulto e io solo un bambino. Uno importante per una sonnolenta cittadina di provincia, il direttore del museo civico, e voleva che lo chiamassi per nome! Lo incontravo spesso in casa dei tedeschi, teutonici amici comuni che gli avevano affidato il compito di curare la casa che avevano comprato a Modica. Volevo sempre andare con lui per grotte, atteggiarmi a grande esploratore e quando mi permetteva di seguirlo nei sopralluoghi – con grande apprensione di mia madre – non riuscivo a contenere la gioia. Avevo trovato un interlocutore incredibilmente disponibile, spesso divertito per i miei vezzi di bambino che si atteggiava a grande studioso ma sempre pronto ad incoraggiarmi e a spingermi verso la ricerca di quel passato che sentivo essere il mio futuro. Crescendo il rapporto era mutato: non più allievo e maestro ma un rapporto di iniziati, tra l’apprendista stregone e lo stregone per eccellenza. Collaborazione, comunione intellettuale, un’amicizia atipica che si nutriva di interessi comuni. Ricordo che talvolta andavo al museo semplicemente per parlare con lui, per ubriacarmi di parole, per discorrere di archeologia, della Modica scomparsa, di detti, motti, stornelli popolari ed indovinelli raccolti ed amorevolmente trascritti a futura memoria. Non so lui, ma io ne uscivo ogni volta rinfrancato. Non ero dunque matto, non ero il solo a ritenere linfa vitale quelle cose… Non so quanto diverso sarei se la mia vita non avesse incrociato quella di Duccio Belgiorno. So che a lui devo ogni cosa: la tenacia della ricerca, la passione per l’archeologia, l’amore sconfinato per il passato e per la mia terra.

Se il presente è solo la soglia su cui si incontrano il passato e il futuro dovrei dire che Duccio è ancora fra noi e che andando al museo troverei ancora quel cappellaccio buttato su una sedia e la sua scrivania oscenamente ricolma di libri e di fogli. E' che non riesco ancora ad abituarmi all’idea… Che cosa ignobile, la morte.

sabato 3 febbraio 2007

Morire per una testa di cazzo

Mi fate schifo

Voi barbari, voi teppa, voi tifosi, voi idioti che avete un’unica fede.

Voi sottospecie di esseri umani che non avete nulla a cui aggrapparvi, non un valore, non un principio, non un ideale se non la vostra schifosa squadretta rossoblu.

Voi che tenete in ostaggio una città per una ventina di tizi che corrono in mutande, voi che minacciate quanti non abbracciano il vostro credo, voi microcefali che sapete a malapena leggere ma ricordate a menadito tutte le formazioni della vostra squadra dalla notte dei tempi ad oggi.

Voi frustrati che andate allo stadio a sfogare la rabbia per una vita dalla quale non avete saputo prendere niente, voi immeritevoli di appartenere ad una società civile, voi imbecilli che tra qualche giorno vi batterete religiosamente il petto dietro Sant’Agata invocando grazie e prosperità.

Voi castrati che rincorrete il mito del maschio, voi abietti che non battereste ciglio di fronte ad una ingiustizia, voi indegni anche di respirare, voi capaci di uccidere pur di difendere l’onore del vostro merdoso Catania cosa provereste al posto del poliziotto che avete ammazzato, cosa provereste sapendo di essere morti per una testa di cazzo?