sabato 25 agosto 2012

Addio alle armi


Per quanto bizzarra possa apparire come idea, anch’io un tempo ero bambino. Prepotente e capriccioso, le poche volte in cui giocavo con altri volevo sempre vincere. Si era in campagna, e di pomeriggio l’incontro con i miei coetanei aveva il sapore esotico e raro di viaggi verso terre lontane.  Abituato in un mondo di giochi solitari in cui mi ritrovavo unico despota e tiranno, non riuscivo a concepire l’idea che a volte ci si dovesse accontentare di condividere una vittoria con altri, o peggio, riconoscere mestamente una sconfitta. Outsider in organismi consolidati, cercavo allora di stringere alleanze strategiche con i bambini più popolari, non disdegnando nemmeno la presenza di bulletti precocemente incattiviti dal quartiere in cui vivevano: qualsiasi cosa pur di vincere. E vincevamo. Ma la vittoria aveva un sapore amaro, perché subito dopo lo sbruffoncello che mi aveva accolto nel suo gruppo per ragioni di convenienza facendomi sentire parte indispensabile subito mi metteva da parte, relegandomi a gregario e ultima ruota di un carro sul quale io avevo voluto salire a tutti i costi.

Se ho voluto condividere questo episodio minimo di ordinaria esistenza non è certo per ragioni di narcisismo autobiografico ma per insolito parallelismo con ciò che potrebbe accadere in un futuro prossimo. Per motivare una scelta, meditata e sofferta ancorché inevitabile. Alle prossime elezioni regionali voterò Platinette. Con determinazione e convinzione, sebbene, com’è ovvio, Platinette non abbia alcuna intenzione di presentarsi alla corsa verso il governo della Sicilia. Per quanto bizzarra possa apparire come idea, non si trattava della mia prima scelta. Rosario Crocetta volevo fosse il mio presidente. Sindaco antimafia di Gela, eurodeputato: una vita blindata, sacrificata all’idea che la nostra terra possa soffocare il morbo mafioso, sotto scorta continua e senza privacy alcuna, per cercare di sopravvivere a vigliacchi familiari eppure senza nome che lo avrebbero voluto morto. Lo stimavo, lo ammiravo. Dopo una bellissima intervista nella quale era riuscito a trasmettermi un fuoco di passione civile d’altri tempi lo avevo votato con speranza. Lo avrei votato ancora, supportato pur anche la sua campagna elettorale, pur di averlo come presidente della Regione.

Ma adesso no, non più.

Capisco la Realpolitik, davvero, e da un pezzo ho attraversato l’età in cui gli ideologismi erano in grado di intossicare anche il giudizio più equilibrato. Comprendo la necessità di governare una regione complessa come la nostra e avverto la difficoltà di gestire le contraddizioni che un territorio come quello siciliano mostra. E tuttavia non riesco, proprio non ci riesco, ad accettare certi compromessi ambigui e proteiformi. Da una parte Crocetta, uomo di lotta e barricate, uomo di piazza e di opposizione – spesso strategica ma sempre dura e sanguigna. L’uomo che ha consegnato alla giustizia 350 uomini appartenenti alle cosche mafiose di Gela. Dall’altra invece gente come Francesco Musotto, Antonio Dina e Gianpiero D’Alia, e ancora esponenti o transfughi da partiti reazionari quali Udc o Fli, partiti mai amanti dei grandi rivolgimenti culturali, progressisti a parole ma depositari in alcuni casi dei peggiori cascami della politica degli ultimi decenni. Partiti talora invischiati, inutile nasconderlo, in vicende poco cristalline e mai realmente chiarite legate a esponenti della criminalità organizzata… I cannoli di Cuffaro ve li siete forse scordati?

Lo struscio a braccetto lungo il corso della politica siciliana tra Crocetta e la sua coalizione di “uomini di buona volontà, progressisti e moderati” rappresenta un’immagine che mai avremmo voluto vedere. Una convergenza verso il passato, un enorme balzo all’indietro in nome di un potere da voler afferrare per i capelli a tutti i costi… Che tristezza vedere un uomo della levatura di Crocetta costretto a questi compromessi. Certo, ci sarebbe Fava potreste dirmi. Nome illustre con altrettanto illustri figure al suo fianco: Leoluca Orlando, Rita Borsellino. Illustri perdenti, se ricordate, nella folle corsa al governo della Sicilia. Eppure allora ci sembrava di aver fatto le cose per bene: una svolta per la Sicilia, il nuovo corso. Quasi tutto il centrosinistra compatto alle sue spalle (Margherita a parte, ma non prendiamo discorsi che potrebbero farmi allontanare dal mio consueto aplomb). La legalità, l’antimafia. I giovani. Il Rita-express. Ci avevamo creduto per davvero, allora, ma la fragile speranza di un cambiamento si era infranta contro il muro della macchina da guerra cuffariana. E adesso si pretende che due partitini, pur di buona volontà, come Sel e Idv possano sconfiggere il gigante dalle molteplici teste formato dal Pd, dall’Udc la cui nervatura è composta dagli stessi che nel 2006 sconfissero la Borsellino, dall’Api composto da ex margheritini e da altri partiti minori. Non ci credo, mi spiace. E allora tutto sarà finito, per l’ennesima volta. Così finirà come quando i comunisti dei bei tempi andati facevano opposizione strumentale ai governi, perdendo – non ai guasti generati dal potere politico, che quello faceva gola a tutti –, mentre tutti gli altri, i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani, stringevano grandi alleanze con l’immota e passatista Dc di Salvo Lima e di Andreotti fottendosene allegramente del popolo siciliano.

Crocetta era l’ultimo politico siciliano di cui avevo ancora fiducia. Ma adesso la delusione per la sua scelta mi ha portato ad una decisione dolorosa. Forse anche vigliacca, ma almeno in questo frangente inevitabile. Magari un giorno qualche altro uomo o qualche altra donna si affaccerà all’orizzonte portando una politica nuova e l’entusiasmo di un cambiamento, voluto, cercato e inseguito. Ma fino ad allora ho deciso.

Abbandono la posizione. Lascio il fronte sguarnito. Diserto. In attesa di qualche messia che possa guidare questa terra verso la salvezza. O in attesa che il mondo finalmente rovini verso l’abisso di una palingenesi definitiva trascinando con sé le macerie dell’esistente. E che da essa sorgano ancora, e ancora una volta, generazioni di ratti astuti e accomodanti, maiali col monocolo, scarafaggi in doppiopetto, nuovi volti e vecchi signori di una terra maledetta che forse non merita altro che la morte e l’approdo verso il nulla.

domenica 5 agosto 2012

Moloch


E alla fine ha capitolato. Divide et impera, mandatelo lontano che poi passerà. Dimenticheranno. In questo Paese bello e ridicolo non poteva che accadere, infine, anche a lui. Antonino Ingroia, primadonna e giudice antimafia, procuratore aggiunto di Palermo e coscienzioso ricercatore di una verità difficile della quale a nessuno sembra davvero importare, è stato trascinato sul fondo dalle sabbie mobili di un potere che tutto risucchia. Di un Moloch che chiede l’estremo sacrificio ai suoi uomini, anche a costo di snaturare il loro spirito e la loro vita sull’altare dell’estrema “ragion di Stato”.

Sulla vicenda della trattativa c'è una ragion di Stato che impedisce l'accertamento della verità sulla base delle ragioni del diritto penale? Se è così, dalla politica devono venire parole chiare: se si ritiene che debbano essere sottratte alla verifica della magistratura temi o territori coperti dalla ragione di Stato, lo si dica […]. Di fronte a una legge, o a una commissione di inchiesta politica che ribadisse la ragion di Stato dietro la trattativa, la magistratura non potrebbe fare altro che fare un passo indietro. In caso contrario, la legge ci impone di andare avanti”. Trattativa Stato – mafia, o per dire meglio stato – Mafia. Un macigno che pesa sugli ultimi brandelli della democrazia italiana pur nell’ingenua farsa di un segreto a tutti noto almeno nel suo incedere più ampio. Stato e mafia andati a braccetto. Lo Stato che aiuta la mafia, la mafia che ingrassa lo Stato.

Una provocazione, si è detto da più parti. Come a voler mettere chiarezza nella viscida ambiguità bifronte della politica, a voler illuminare le zone grigie, a tirar dentro i colletti bianchi. Ma una provocazione che sa tanto di malinconica bandiera bianca, la rassegnata débâcle di un giusto dinanzi alla rovina del suo mondo. Ma invocare la “ragion di Stato” trascina con sé un altro principio, vigliacco e disfattista. La ragion di Stato genera mostri. Il segreto. Segreto di Stato, a farci il callo. Decenni di stragi impunite, mandanti nascosti dalla cortina che avvelena l’aria e morti fin troppo evidenti. Anche le stragi di mafia saranno segretate? Che ce lo dicano allora: l’Italia è un paese governato dalla mafia. Almeno ce ne faremo una ragione e ben presto penseremo ad altro. 

D’altronde, il campionato è vicino.