Il divo Giulio ha portato con sé i suoi segreti infine. A
novantaquattro anni compiuti uno dei pilastri portanti della storia
repubblicana, mastro burattinaio e indecifrabile maestro di aree grigie tra
politica e malaffare, è morto lasciando dietro di sé tanti misteri irrisolti.
Dalla Chiesa, Moro. Le brigate rosse. La strategia della tensione. Gladio.
Ustica. Lima, i Salvo. I rapporti tra Stato e mafia. Muore il grande vecchio
della politica italiana, intelligente, furbo, cinico e scaltro come nessuno
mai, l’inimitabile prestigiatore del pentapartito e dei poteri oscuri, degli
equilibri e dei compromessi. Muore Giulio Andreotti, l’immortale.
Non ne tesserò certo le lodi, né ricorderò ancora una volta
i suoi misfatti, veri o presunti. Vorrei solo comprendere le ragioni di chi
esulta alla morte di certe figure politiche, per quanto ambigue e
mefistofeliche esse possano essere state in vita. Di chi esulta adesso. Non
capisco, non approvo. Reagan anni prima, la Thatcher qualche settimana fa. Adesso Andreotti in Italia.
Personaggi diversi per importanza politica, ideologie e sfaccettature di
carattere ma per certi versi assai simili per l’odio che hanno potuto generare
in vita e anche in morte.
Eppure non comprendo il senso della gioia di tanti. Non vedo
cosa ci sia da festeggiare se personaggi che hanno portato sofferenza, dolore (morte
in alcuni casi) a migliaia di persone hanno potuto trascorrere la loro vita in
tutta tranquillità fra agi e privilegi, morendo poi nel proprio letto, per
quanto malati, circondati dall’affetto della propria famiglia. Non c’è nulla da
festeggiare se l’ombra di quello che fu il politico più temuto e probabilmente
più pericoloso della Repubblica italiana è morto oggi a 94 anni, quando non
contava più niente. Sarebbe stato diverso, forse anche per la storia italiana,
se ciò fosse accaduto quando Andreotti era ancora Andreotti.
Ma festeggiare adesso per la sua morte rappresenta solo un
atto di protervia nei confronti di un vecchio di 94 anni, fragile e
incartapecorito dall’età e dai malanni. Rispettarne la morte non significa
dimenticare ciò che ha fatto in vita.