martedì 14 febbraio 2012

Ogni promessa è un debito

Fa specie pensare di stare scrivendo sotto l’ombra di un sistema di potere che da spettro traslucido si è inverato nel mondo reale. Cronache dal Quarto Reich saremmo tentati di sussurrare. Blitzkrieg come pochi, eppure quanto ben riuscito. Senza ore delle decisioni irrevocabili, senza dichiarazioni di guerra infuocate. Senza neppure sparare un colpo di cannone. Una fucilata. Una minicicciola. Eppure le reni stavolta gliele abbiamo spezzate davvero alla Grecia. Non noi italiani, che nella culla della civiltà lasciammo decenni or sono un maldestro sogno d’impero rattoppato e migliaia di morti inutili. I tedeschi. I tedeschi caparbi, cocciuti e tenaci come nessuno mai. Deutschland über alles intoniamo allora con la mesta gioia dei collaborazionisti, mentre il passo dell’oca dei tempi che furono viene sostituito dal picchiettare sordo delle dita sugli Ipad di qualche panzer-broker teutonico.

Fmi, Bce e Ue le nuove potenze di un criminoso Stahlpakt, un patto d’acciaio, un patto di sangue che ha condannato alla morte per agonia il popolo greco. La nera signora dalla falce senza martello ha dissanguato noi italiani ed è passata oltre sbarcando al Pireo. Senza un gravame di rimorso, in nome di un maledetto senso di responsabilità che vuole far espiare al popolo, incolpevole, le colpe dei suoi indegni rappresentanti e ingrassare la meschina avidità dei trust economici internazionali. Ancora misure di austerità in Grecia, ancora stipendi ridotti alla fame, ancora licenziamenti, ancora tagli ai servizi sociali, ancora povertà. Un potere d’acquisto ormai dimezzato nella migliore delle ipotesi mentre un greco su quattro non ha lavoro. Uno su quattro, 2.750.000 greci su undici milioni di abitanti, quasi un giovane su due. I posti letto negli ospedali sono stati tagliati del 40%, il salario minimo garantito sarà ridotto di un ulteriore 20%, le quote pubbliche di petrolio, gas, acqua e lotteria dovranno essere cartolarizzate e messe nelle mani di investitori privati.

Austerità la chiamano. Gravi misure “inevitabili e necessarie” per evitare “il baratro” le chiamano. Forse per un eccesso di pudore, perché le cose andrebbero chiamate con il loro nome. Si sta affamando un popolo per coprire i giochi speculativi dei potentati bancari. Tedeschi e francesi in primo luogo, i maggiori possessori di titoli di stato ellenici. Ma adesso che si è rotto il giocattolino pretendono che si aggiusti condannando alla morte economica e sociale milioni di persone. Forse anche politica, perché sappiamo fin troppo bene che ogni dittatura nasce e si nutre della disperazione economica più nera e dello sbando sociale. E non si dica che si tratta della solita demagogia del rimpallo per favore. Perché è ormai risaputo che le banche e i cartelli economici hanno una buona dose di correità nella crisi mondiale avendone favorito la nascita.

Una vera e propria manovra a tenaglia. Da una parte hanno incoraggiato gli stati con economie ancora acerbe a modernizzare i loro paesi (attraverso commesse e investimenti statali, e come se no?) in nome di un mercato che deve sempre crescere, crescere, crescere. Dall’altra hanno acquistato a man bassa i debiti sovrani di quegli stati e poi hanno minacciato di chiederne la restituzione. E adesso, con il sorriso dello strozzino, promettono aiuti generosi per nulla disinteressati. L’haircut del 70%, ma non vedi come siamo buoni? Meglio il 30% garantito che il default totale, che farebbe saltare in aria più di una banca cruccofranzosa con un possibile effetto a catena sull’economia mondiale…

Colpa del denaro, trasformato nella forma e nella sostanza, ridotto a ectoplasma dissolvibile e ricreabile a comando. Colpa di chi ne abusa. Nato come strumento per rendere più semplice lo scambio di merce è diventato, con il trascorrere dei secoli, esso stesso una merce. Le monete d’argento e d’oro, con il valore ponderale uguale a quello nominale. Il divorzio inevitabile, con il valore nominale che subentra a quello nominale. Poi gli assegni, le banconote. I libretti di risparmio, i buoni. Finisce l’era della convertibilità in oro garantita dal dollaro. Poi moneta di plastica, quindi impulso elettronico e quindi astrazione. Quasi metafora di sé. Ecco la ragione della débâcle mondiale. Ecco l’origine della nostra rovina. Se il denaro esiste come pura entità dello spirito allora diventa drammaticamente banale spostarne e manovrarne masse enormi con pochi clic. Sarebbe bastato – basterebbe – regolamentare le transazioni economiche di un certo livello, anche solo per evitare che qualcuno venda azioni che non ha e le compri con denaro che non possiede, magari in previsione di quanto potrebbe lucrare sulla differenza. Forse basterebbe – sarebbe bastato – solo questo per evitare di condannare definitivamente un popolo, e forse tanti altri ancora.

Non dico ritornare al baratto, che sarebbe improponibile al giorno d'oggi. Ma a forme di economie più sostenibili sì: reali, che non siano ossessionate dalla crescita obbligata. Magari ad economie semplificate. Più “spicciole” magari, con i soldi in mano. Alla fine, se ci fossero stati in giro ancora i tetradrammi simili vergogne speculative sarebbero state dannatamente più complicate da attuare.

giovedì 2 febbraio 2012

Marianesimo

Ieri a Sampieri c’ero.

C’era l’agricoltore dall’azienda in agonia taglieggiato dalla Serit. Il piccolo imprenditore strozzato dalla gelida burocrazia e incalzato dall’avidità di un sistema economico selvaggio. La casalinga arrabbiata, convinta che mai più avrebbe comprato nulla che non fosse siciliano. Lo studente curioso, il giornalista. Il padroncino con il camion dalle lucette multicolori, unico segno di discontinuità nella disperazione generale. Il ferroviere dal baffo libertario, sempre attento alla vitalità di un popolo esasperato. Il politico di professione mimetizzato tra la folla che cerca di recuperare la clientela perduta. C’era il pensionato, costretto dai tecnicismi vigliacchi di un governo macellaio ad arricchire le banche con il frutto del lavoro di una vita. C’era il disoccupato, senz’arte né parte, senza futuro né presente. C’erano i siciliani. C’ero anch’io.

I discorsi si intrecciavano rivelando ciascuno il proprio dramma personale. Ammettendo errori, perpetuando sbagli nell’egoismo più tristo e selvatico. Poi arriva lui, il Messia. Nervosi occhi azzurri che si guardano intorno, cappellino d’ordinanza, la rabbia in corpo. La folla lo accoglie con calore. I fedeli lo acclamano come l’uomo mandato dalla Provvidenza… Mariano Ferro, il forcone.

È inutile fingere che niente stia accadendo in Sicilia. È inutile minimizzare, sminuire, ridicolizzare. Bisogna innanzitutto capire.

Il Movimento dei Forconi nasce da un bisogno reale. La recessione avanza veloce e inesorabile senza che alcun provvedimento a breve termine sia stato preso dalla politica per dare ossigeno alle finanze spicciole di un popolo con l’acqua alla gola. La gente è arrabbiata, la gente è stremata. La gente pretende una soluzione ai propri problemi. Spesso ignora quale possa essere, ma la pretende lo stesso. A cosa servono i rappresentanti politici se non a risolvere problemi della collettività? Molti poi hanno sempre chiesto al politico di turno, dato il proprio contributo e ottenuto (briciole) spesso a danno di altri. Se quel meccanismo assistenzialista si è rotto, si deve pure poter aggiustare, no? La rivoluzione a rebours.

Il Movimento dei Forconi è un movimento populista. Il suo leader carismatico, Mariano Ferro, mescola sapientemente la concretezza contadina con gli strumenti retorici più fini riuscendo a trascinare le masse e a smuovere i sentimenti più viscerali della gente. Suo malgrado, Ferro sta diventando il novello Ducezio dei diseredati siciliani. Quelli per finta (ieri il numero dei SUV, di Bmw e di Mercedes si sprecava) che vorrebbero tornare a mangiare, e quelli per davvero che invece stanno morendo di fame. “Mariano ci dirà cosa fare” ho sentito più di una volta ieri, con un sussulto messianico che mi ha lasciato decisamente perplesso. Ferro è una personalità degna di attenzione la cui conoscenza andrebbe approfondita. Parte spesso da principi indiscutibilmente validi e idee eccellenti quali la promozione delle eccellenze agricole locali o la tolleranza zero per gli imprenditori che remano contro l’imprenditoria siciliana per loro tornaconto, il recupero delle accise sui carburanti siciliani, l’attuazione dello Statuto regionale. Il problema, però, è che talora giunge a conclusioni confuse o discutibili che sembrano voler soltanto cavalcare il malcontento popolare. Vogliamo che si rimetta in moto l’economia, vogliamo il lavoro: e chi non lo vuole? Vogliamo risposte. Oh bella, ma quali sono le domande?

Il Movimento dei Forconi sta raccogliendo un consenso di massa, trasversale e politicamente ingenuo. I blocchi che hanno paralizzato la Sicilia, indiscriminati, disorganizzati e autolesionisti, sono stati conseguenti alla mancanza di una coscienza politica consapevole nella maggior parte dei manifestanti. Così come le infiltrazioni politiche, criminali e mafiose, tristemente inevitabili in un movimento di massa che pure è stato attento a non farsi contaminare troppo dalle mele marce.

Il Movimento dei Forconi non è ancora un movimento rivoluzionario. La rivoluzione è un processo storico che necessita di analisi, programmazione e cognizione politica. Scambiare una rivolta di popolo per la rivoluzione significa veder precipitare le speranze e l’entusiasmo dei rivoltosi in un gattopardesco “cambiare tutto per non cambiare nulla” con i pochi soliti noti (e qualche ignoto) che si approfitteranno della buonafede di tutti gli altri. La rivoluzione deve precedere la rivolta: l’una dipende dall’altra, necessariamente. Non considerateli semplici sinonimi intercambiabili. Se il fuoco della lotta avrà acceso in ciascuno la fiammella di una coscienza e una di visione politica in grado di crescere ed irrobustirsi, lontano dagli errori del passato, allora il Movimento avrà vinto. E sarà stata una vittoria epocale. Diversamente, si sarà trattato di una jacquerie fallimentare in cui tanti Jacques Bonhomme si ritroveranno ancora più delusi e disillusi, certi che la lotta politica serva solo ad ingrassare i panciotti di qualche signorotto dalla parlantina fluida.

Il Movimento dei Forconi si appresta a diventare un partito. Anche se ancora non lo sa. O se lo sa, lo tiene nascosto ai più sprovveduti. Si urla a gran voce che tutti i politici vadano a casa per aver tradito il proprio elettorato ma nessuno preferisce chiedere che cosa accadrebbe se questi benedetti politici corrotti (ma chi li ha votati, infine?) tornassero davvero a coltivare il proprio orticello. Se hanno tradito il contratto elettorale a chi si rivolgeranno i forconi? Chi saranno i loro interlocutori? “Le istituzioni”, dicono. Ah no, troppo facile così. Ecco perché il movimento rischia grosso. Da una parte, se non si vorrà “sporcare” con la politica, rischierà di ritrovarsi invischiato con facce nuove nei vecchi meccanismi clientelari che hanno contribuito in larga parte ad impoverire il popolo siciliano. Dall’altra, qualora diventasse un partito strutturato, rischierà di mandare a palazzo dei Normanni il migliore dei Forconi che, in barba alle più oneste intenzioni, sarà destinato a diventare Forchetta come tanti altri in passato. Perché tutti i siciliani siamo uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri.