sabato 5 gennaio 2008

Sine spe sine metu

La mia terra, ubriaca di morti ammazzati, stordita di criminali in galera, si avvede poco o niente della cappa che la soffoca ancora. Non emergenza ma perfida cronica malattia, che sembra resistere ed attecchire, anzi, vivere rigogliosa in simbiosi. Mafie… Mafia. Quante volte ho detto questa parola, quante volte ne ho scritto, quante ore ho sprecato in inutili discussioni tra gente che la pensava allo stesso modo, che si batteva le mani e si faceva i complimenti per la forza perlocutoria delle immagini di legalità che riusciva a suscitare...

Ieri sera a Palazzolo Acreide ho assistito alla consegna annuale del premio intitolato alla memoria di Pippo Fava, giornalista e direttore de “I Siciliani” ucciso due volte, con le pallottole dalla mafia e con le parole dalla Catania bene di quegli anni. 5 gennaio 1984, anno orwelliano. Dove poteva accadere che il presidente degli industriali siciliani dichiarasse pubblicamente di chiudere in fretta questa vicenda e di non parlare più di mafia, parola che faceva paura agli investitori e li faceva allontanare dalla Sicilia. Interventi forti quelli di ieri sera, dal coordinatore dell’associazione antiracket di Palazzolo al presidente della Confindustria siciliana, da Roberto Morrione, a Claudio Fava, ai ragazzi di AddioPizzo – insigniti giustamente del premio. Due note stonate invece i saluti del vicesindaco di Palazzolo e dell’assessore provinciale all’istruzione. Non che fossero cattivi interventi, pavidi o ambigui. Erano semplicemente i soliti interventi. Mafia… bla bla, cultura della legalità… bla bla, istituzioni… bla bla, sviluppo e territorio… il solito pistolotto imparato a memoria e vomitato all’infinito. Parole, vuote come le orbite di un cieco abituato al suo mondo di oscurità. Come se la mafia fosse una categoria dello spirito che aleggia, impalpabile, sulla terra di Sicilia.

Ormai anche i figli dei mafiosi, i bambini, sanno che parlare della mafia come qualcosa di cattivo procurerà loro un bel voto a scuola e la lode delle maestre. L’importante è però che rimanga un’astrazione, una lotta fumettistica dei buoni contro i malvagi: basta ricordare ogni tanto qualche morto per mano mafiosa, i capi mafiosi in carcere, partecipare a qualche bella coreografica manifestazione antimafia (magari organizzata dai mafiosi stessi che se la cantano e se la suonano), basta guardare qualche fiction in tv e si ha la coscienza a posto. Come se la mafia non fosse fatta di persone, come se non avesse invece nomi e cognomi, volti, facce di gente che vedi tutti i giorni e con cui sei costretto a convivere. Persone accanto alle quali vivi, lavori. Persone che ti prestano quel denaro che la banca si rifiuta di prestarti, a tassi, certo, non proprio agevolati. Persone che ti chiedono un contributo per la famiglia e se rifiuti passano alle minacce, e poi alle ritorsioni, e poi alle pistolettate. Persone che trafficano armi e droga e che, non sapendo come spendere i soldi guadagnati sul sangue e sulla pelle di altri, candeggiano i propri denari in attività assolutamente lecite. Persone che ti scavalcano nei posti di lavoro, che inquinano gli appalti e che cercano di convincerti, qualora per sorte o caso ne avessi vinto uno, di lasciar perdere con strumenti persuasivi di grande impatto. Persone che ti sorridono, che ti danno pacche sulla spalla, che conoscono il tal politico e anzi ne sono amici intimi, avendo fatto accordi tra gentiluomini che solo dei malpensanti potrebbero definire voto di scambio

Nomi e cognomi.

Pensavo a questo mentre il signor Caligiore, coordinatore dell’associazione antiracket di Palazzolo Acreide, gioiva al pensiero del boss Gianfranco Cavarra finalmente in carcere. Ammiravo lo sguardo fiero di Caligiore, la schiena diritta e la dignità di chi non si è piegato, l’orgoglio di poter pronunciare pubblicamente il nome dell’uomo che voleva imporre il suo volere all'azienda di famiglia. Gianfranco Cavarra. Quello stesso uomo che sedici anni prima era venuto a chiedergli denaro in cambio di protezione. Riflettevo su questo: sul coraggio di un uomo capace di riunire attorno a sé un piccolo ma tenace gruppo di imprenditori del suo paese e di guidarli contro l’abuso, l’illegale, il terrore. Riflettevo sul perché Caligiore sia ancora tra di noi a portare la sua testimonianza e Libero Grassi sia invece morto, mi chiedevo perché Pippo Fava sia stato ucciso dalla mafia e invece Lirio Abbate sia ancora vivo. La differenza credo sia una sola, abissale. Per Grassi, per Fava, così come per Rostagno, per De Mauro, per Impastato, per Rizzotto, per dalla Chiesa, per Livatino, per Falcone, per Borsellino, per tante decine di altri eroi semplici dei quali non dovremmo mai dimenticare la lezione. Queste persone non è stata la mafia ad ucciderli. Hanno premuto il grilletto, è vero, hanno innescato una bomba, ma non sono stati i mafiosi a condannarli. È stata l’indifferenza ad ucciderli, l’indifferenza generale, il silenzio di chi sapeva, l’inazione di chi poteva e non ha fatto… Si muore quando si è lasciati soli. Quando chi ti sta attorno preferisce accudire le proprie piccole convenienze rinunciando a lottare contro il nemico comune, anzi tesse taciti patti con lui quando non palesi alleanze.

Perché la verità è questa. Brutta, indigesta quanto si vuole: che per una parte dei siciliani la mafia significa convenienza. Tranquillità. Protezione. La mafia conviene. Un para-Stato che possiede sovranità, popolo e territorio e che potrà essere abbattuto solo attraverso una guerra aperta, totale, spietata e senza quartiere… Parole, parole anche queste. Nonostante l’indubbia utilità non si può arrivare a teorizzare l’eliminazione fisica di tutti i mafiosi, sebbene in guerra sia lecito uccidere il proprio nemico. E allora rimangono solo due strumenti in mano: da un lato l’impegno continuo e reale da parte di quello Stato di cui si dice facciamo parte ma anche e soprattutto con l’impegno di ciascuno di noi. Ciascuno, nel suo piccolo. Secondo le proprie capacità e possibilità. Non si chiede a nessuno di essere eroe: solo, non arretrare di fronte al nemico comune. Perché non sono tanto le urla dei malvagi a farmi paura, quanto il silenzio dei giusti. Il silenzio di chi dovrebbe stare dalla parte dei giusti. Eccone un esempio vergognoso, presente alla mostra fotografica su Pippo Fava nell’atrio comunale del comune di Palazzolo Acreide. Foto di pessima qualità, scattata con il telefonino (chiedo anzi se qualcuno me ne possa fornire una copia di qualità migliore) ma che dovrebbe essere stampata e distribuita in migliaia di esemplari, perché certe cose non si dimentichino mai.


La foto raffigura la signora Carmela Minniti, moglie di Nitto Santapaola – padrone incontrastato della Sicilia orientale – che inaugura, a Catania, una concessionaria di automobili di proprietà del marito. Accanto a lei, due compiaciuti signori: il primo è Agostino Conigliaro, all’epoca questore di Catania, il secondo invece Francesco Abatelli, all’epoca prefetto di Catania.
Questore e prefetto. Lo Stato che va a braccetto con l’anti-Stato. La cosa che mi fa più rabbia però è che questi signori si staranno godendo una cospicua pensione pagata con i soldi dei cittadini italiani e non saranno minimamente vittime del rimorso per aver contribuito, rifiutandosi di vedere la realtà, a rendere ancor più potente e letale il dominio mafioso sulla Sicilia.

Ecco il nostro compito. Parlare, parlare, parlare. Ricordare, mettere in atto iniziative concrete, uscire alla luce del sole. Fare corpo unico. Comprendere la nostra superiorità rispetto alla loro vigliaccheria. Non lasciare soli quanti hanno il coraggio di urlare contro. Denunciare i soprusi. Ma soprattutto fare nomi e cognomi. Perché dovremmo? Perché si deve, perché è giusto, perché è l’unica cosa da fare se vogliamo prendere in mano il nostro destino con la consapevolezza di una guerra incerta e lunghissima. Se vogliamo riconquistare la nostra terra, la nostra libertà: va fatto, senza chiedersi perché.

Senza speranza e senza paura.

Facendo nomi e cognomi. Perché la mafia cessi di essere considerata dall’opinione pubblica come un’entità astratta, un copione da fiction, e si riveli per quello che è. Un pugno di criminali senza alcun onore, indegni anche di essere chiamati uomini, indegni anche dell’aria che respirano, il cui unico destino possibile dovrebbe essere quello di marcire in qualche galera. Dimenticati da tutti, evaporati: come un brutto incubo, al risveglio, al mattino.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

tu fai nomi senza sapere un cazzo. Stai attento perchè credendoti il paladino della giustizia fai male a tante persone. Pensaci bene prima di scrivere qualcosa, perchè io so per certo che quello che hai scritto sono falsità.

Marco il Lunatico ha detto...

Intanto mi fa piacere che dopo due anni e più qualcuno legga e abbia lo spirito di commentare ancora questo post.

Detto questo, caro Anonimo, quei nomi che ho scritto nel post sono gli stessi citati quella sera, sono gli stessi citati da "I Siciliani" dell'epoca, sono gli stessi citati da Claudio Fava o da Libera ancora recentemente. La fotografia è autentica e i personaggi riconoscibilissimi - a meno che non pensi ridicolmente che sia stata modificata con Photoshop.

L'unica cosa che sono disposto ad ammettere è che quei rappresentanti dello Stato di allora possono essersi resi conto, loro che dovevano essere i paladini della giustizia, di aver indirettamente fatto male a tante persone.

Per il resto, caro Anonimo, dimostrami per certo che dico falsità e ammetterò l'errore. Ma dimostralo anche a Claudio Fava, a Roberto Morrione e agli esponenti di Libera che citano quell'episodio e mostrano ancora oggi quella foto.

Alla fine, io sono soltanto un blogger.


PS: Ovviamente se pensi che le falsità si riferiscano a Nitto Santapaola non hai nemmeno bisogno di rispondere.