Il ministro si è scusato giustificando il tono decisamente duro delle sue dichiarazioni, ma ormai lo strappo rimane.
lunedì 29 gennaio 2007
Indegni di considerazione #7
Il ministro si è scusato giustificando il tono decisamente duro delle sue dichiarazioni, ma ormai lo strappo rimane.
martedì 23 gennaio 2007
Ladri di marionette
Il mio commento al film sarà conciso quanto lapidario. Mi spiace che un giornalista altrimenti serio come Deaglio abbia deciso di presentare quella che poteva essere una violenta inchiesta giornalistica come un misero sottoprodotto dell’info-tainment populista alla Moore: non discuto sui dati né sull’ipotesi, inquietante e niente affatto peregrina. Il mio appunto si riferisce alla forma. Siamo talmente rincitrulliti dalla televisione e dalla multimedialità della notizia – immagini artistiche, drammatica voce narrante, musiche in sottofondo tali da ridurre l’informazione al lumicino – che la cara vecchia inchiesta pubblicata su un quotidiano non avrebbe ormai lo stesso impatto sulla società italiana di una sua brutta copia multimediale. Non sono un passatista, se non altro per la mia età, eppure custodisco a casa – brutta malattia la venerazione – qualche numero di Lotta Continua e de L’Ora che ho avuto la fortuna di acquistare al mercatino delle pulci. Li considero esempi da seguire di un giornalismo feroce ed impavido che se ne fregava dei potenti e che tirava dritto per la propria strada con la delicatezza di uno schiacciasassi forte delle sue convinzioni. Che poi la violentissima campagna intrapresa da LC contro il commissario Calabresi abbia portato al suo omicidio credo sia innegabile, ma questo è stato un tragico errore di percezione politica di cui solo adesso i leader storici si rendono conto. Ma pensiamo alla redazione de L’Ora decimata dalla mafia o ai tanti giornalisti che hanno reso onore a sé stessi e restituito dignità all’Italia dei padrini scoperchiando gineprai che gli interessi dei potenti avrebbero voluto tenere nascosti all’opinione pubblica…
Parlo di credibilità. E parlo anche di velleità carbonare decisamente fuori luogo. L’errore di certi giornalisti di sinistra è il “morettismo”: essere convinti cioè, al pari di Nanni Moretti, che la gente si esprima come loro, ragioni come loro e agisca allo stesso loro modo. Non cercano un punto di contatto con gli altri, e qualora decidano di farlo scimmiottano maldestramente la notizia in cerca di scoop e di favore a buon mercato. Mi piace il giornalismo urlato (l’importante è che si basi su dati!), ma non sopporto la caccia alla celebrità e l’auto-incensamento e in special modo non sopporto il tono spocchioso di chi crede di appartenere ad una élite culturale.
Dopo la proiezione i discorsi dei convenuti non hanno fatto altro che aumentare questo mio senso di fastidio. Pur approvando quasi ogni argomentazione presentata, quella sera ho trattenuto a stento l’insofferenza per gli applausi continui ed immotivati del pubblico e per i sorrisi compiaciuti dell’oratore di turno. La politica italiana è caduta così in basso che basta affermare ovvii principi di democrazia per ricevere un applauso scrosciante: come il giornalismo non dovrebbe essere la spettacolarizzazione della notizia così la politica non dovrebbe convincere chi già la pensa come noi.
Il Paese non matura attraverso la ripetizione di un clichè eppure a molti fa comodo smuovere la solita aria fritta: fini elettorali, conquista del potere, agevolazioni economiche, semplice narcisismo. Anche questa, infine, un’affermazione così ovvia che immagino già qualche lettore annuire in segno di approvazione.
mercoledì 17 gennaio 2007
De Regula carnis et piscis
Visto l'interesse suscitato dai prodotti della mia follia ho deciso di pubblicare un altro divertissement: una fanta-conferenza tenuta da uno studioso a dir poco prolisso...
De regula carnis et piscis
Gentili colleghi, vi ringrazio per aver accettato l’invito al convegno da me organizzato. Molte volte in passato, in molti luoghi differenti, esimi colleghi hanno superbamente disquisito sul tema del convegno che oggi mi trovo indegnamente ad aprire: una questione spinosa, praticamente irrisolvibile, questione che, e credo di non errare, ha devastato le notti con feroci insonnie le vostre e la nostra mente allorché in un giorno di aprile, il ventotto dell’anno millenovecentoquarantasette si aprirono le porte della nostra conoscenza. Anni febbrili in Italia e in tutto il globo terraqueo, gli anni della ricostruzione, trombe dell’Apocalisse, anni che portarono gli aiuti americani, il piano Marshall, il muro di Berlino, i due blocchi, anni di tensione politica e sociale, anni in cui si affermavano
Ebbene, in quegli anni pronubi di guerre e forze contrapposte il mio compianto professore, mai dimenticato, che fu per me padre, insegnante, collega, maestro, il professor Marinotti, il cui ricordo imperituro rimarrà negli annali della filologia per la sua illuminante scoperta di insulti rivolti a Speusippo che risultavano ad una lettura cabalistica, forse strabica per certi versi ma pregnante, dell’aristotelica Athenaion politeia, lettura che rivelò una nuova immagine dello Stagirita; ebbene, dicevo che il mio maestro, in quel giorno memorabile e terribile allo stesso tempo per la ricerca filologica ma non solo, storica ma non solo, filosofica ma non solo, scoprì vergato, a caratteri quasi illeggibili e corrosi dal tempo sempre tiranno, su un codice miniato con acribica precisione dal già noto Costante di Tours, miniatore che giammai si era abbandonato a bizzarrie personali e sempre ligio ai doveri di un frate che ha indossato la cappa di Benedetto, una frase, scritta frettolosamente, diversa rispetto ai caratteri armoniosamente intrecciati a formare una caleidoscopica visione per lo studioso di oggi, una scritta dicevo che distrusse “le cappe di sofismi” – e mi perdoni il professor Eco se mi permetto di citare un suo vecchio romanzo – di cui ci eravamo orgogliosamente e superbamente abbigliati.
Noi storici della Chiesa, di questa istituzione, l’unica che mai verrà meno nell’avvicendarsi dei secoli, rimanemmo sconcertati quando il mio maestro risolse di pubblicare un articolo sul glorioso Bollettino, oramai non più edito, dell’Università di Cernusco sul Naviglio intitolato “
Eccola: DE REG[ULA CAR]NIS ET PISCIS: SI NON EST CARO E[T PISCIS, MEDIT]ATIONES; quasi integra la prima parte, ricostruita in gran parte la seconda. Non sarò certo io a tediarvi su risibili questioni filologiche né su improbabili interpretazioni allegoriche, ma ritengo opportuno, prima di esporre la rivoluzionaria scoperta da me più volte annunciata, di rileggere qualche passo del Marinotti – Nardo: “…la regola in tal modo risulta essere mutata nella sua più intima sostanza, essendo per sua stessa natura composta, o almeno così si credeva sino a che non ci fu data l’opportunità di scoprire diversamente, da settantatré capitoli agevolmente intrecciati così come il vimini a formare un resistentissimo canestro, che lasciava liberi i monaci di intravedere attraverso gli spazi vuoti ma li serbava a sé in maniera assoluta, così come un buon padre dovrebbe essere per i figliuoli…” (pag. 47); “vale a dire che il Traskovitz non si rende conto dell’assurdità delle proprie affermazioni dal momento che considera inopportuno tanto strepito per nulla – almeno così ha più volte dichiarato in ambiente accademico: ma signori miei, il filologo ama il nulla, vive per le piccolezze, si nutre di minuzie, indaga le quisquilie, e sarebbe poco opportuno per noi, che al contrario di studiosi riottosi ai cambiamenti, ci riteniamo filologi in senso compiuto abbandonare le minuzie per rivolgerci alla macroscopica realtà traviante…” (pag. 385); “A questo punto del saggio, consentiteci di insinuare nelle nostre menti così avide di conoscenza il germe della scoperta: questa nuova proposizione è stata da noi congetturata nel modo che segue; DE REG[ULA CAR]NIS ET PISCIS: SI NON EST CARO E[T PISCIS, MEDIT]ATIONES dove deve essere sottinteso un SIT finale. Ci rendiamo conto che l’ultima parte è piuttosto arbitraria ma ricalca perfettamente lo spirito della Regola, la quale prevedeva periodi di digiuno atti a fortificare il corpo ma ancor più la fede mai troppo viva, ahi quanto meschina in noi!, e secondo i nostri studi è da classificarsi come una sorta di motto usato per esortare i monaci più restii a queste forme di castigo corporale e spirituale, a dire che se
Ed è con somma gioia cari colleghi qui convenuti ma anche con vivo dispiacere per la memoria del mio maestro affermare che la sua congettura, proprio nella parte più insidiosa e meno leggibile era sbagliata. Ma Amicus Plato sed magis amica veritas, e se il compito dello studioso è quello di cercare la verità in un testo o di accertare la verità storica di un fatto allora non se ne vorranno quanti difendono la tesi ormai passata alla storia come Marinotti – Nardo, tesi non più proponibile allorché un’opportunità simile a quella del mio maestro mi fu data un giorno di tre anni fa, in una polverosa biblioteca di Lipsia, quando scoprii che su una Regola miniata da Aimone di Gazara ed anteriore per datazione a quella di Costante di Tours, era presente, a caratteri anch’essi sbiaditi e leggibili se non dopo grande sforzo intellettuale l’intera proposizione: in tal modo veniva a cadere la congettura del maestro, ma non, pur se parzialmente, l’interpretazione, e rimane ad ogni modo mirabile la cautela con cui il professor Marinotti trattò l’argomento, conscio della pericolosità di una interpretazione troppo azzardata o alquanto fantasiosa. Ma non dilunghiamoci oltre, ed ecco il testo completo di quello che si può a ragione definire come un capitolo ancora inedito della Regola monachorum di san Benedetto da Norcia:
De regula carnis et piscis
SI NON EST CARO ERIT PISCIS
Variationes regionales
Si non est homo erit foemina
Si non est album erit nigrum
Si non est hoc erit illud
Accessiones
Si res examinandi caro est impossibilis piscem esse
Poche considerazioni mi siano ancora consentite. Ci troviamo di fronte non ad una esortazione, ma a qualcosa di più profondo e per certi versi più inquietante: questo non è il motto sereno di un frate che sceglie di abbandonare il mondo per seguire l’unico Verbo, ma una vera e propria espressione filosofica. L’autore ci propone una scelta vincolante e non intercambiabile, si non est caro, e cioè se si sceglie di abbandonare le occupazioni terrene, erit piscis, vale a dire che non ci si potrà più allontanare dalla regola e la si dovrà seguire fino alla morte: eris sacerdos in aeternum. L’autore continua poi con le variationes regionales, ben conscio della necessità di indottrinare gli ignoranti con esempi più legati alla sfera contingente delle cose, anche se è possibile cogliere una climax ascendente che culmina in una proposizione di tipo concettuale. Spiegabili allo stesso modo le accessiones. Sebbene mi renda conto delle implicazioni che comportano i simboli della carne e ancor più del pesce – palese antifrasi della condizione umana e di quella divina – l’espressione può essere esaminata ad un livello più profondo e prettamente filosofico: la proposizione indica una via per la conoscenza parallela e non escludente quella religiosa, la via della ragione che solo molto tempo dopo il dottore d’Aquino avrebbe proposto come via precipua, pur se mediata dalla fede.
E notiamo i principi aristotelici applicati con rigore, soprattutto in una accessio, la prima, che esplica in verbo latino il principio di non contraddizione, A considerato diverso da B, la diversità come primo passo per la conoscenza rivelata attraverso la differenza naturale uomo-donna, aspettuale bianco-nero, concettuale questo-quello e sintetizzata mirabilmente nell’antifrasi carica di allegorie caro-piscis; il nostro autore inoltre, conscio della difficoltà che ha l’uomo ad attribuire un genere specifico a ciò che sconosce decise eroicamente di lasciare al lettore una possibilità di scelta, la possibilità di interpretare liberamente la realtà contingente attribuendo ad muzzum – hapax legomenon nella Regola poiché espressione per certi versi mediata dal linguaggio del volgo e qui usata probabilmente per avvicinare anche il più indotto dei frati alla conoscenza – il genere degli enti da studiare come passo fondamentale per una verità, forse anche per
giovedì 11 gennaio 2007
A Ustica non è successo niente

La notte del 27 giugno 1980 un pescatore di frodo pescava a strascico al largo di Ustica. Tirando a bordo le reti con il pesce pescato aveva inavvertitamente smosso dal fondo una bomba inesplosa risalente alla seconda guerra mondiale. Ingoiata da una balena in cerca di cibo, la bomba era stata scagliata fuori dal corpo attraverso lo sfiatatoio. Nel frattempo un pellicano di passaggio, acchiappata la bomba al volo, si dirigeva verso il proprio nido pensando di portare nel becco del pesce per i propri piccoli. Il pescatore di frodo - che nel tempo libero si dilettava di bracconaggio - aveva però sparato al pellicano colpendolo a morte. Mentre il volatile precipatava a terra la bomba era caduta nel cestello di un pallone aerostatico per la raccolta di dati meteorologici che, una volta in quota, aveva incrociato un DC9 dell’Itavia oscurandone il campo visivo e procurando la caduta dell’aereo. La bomba invece, ricaduta in mare, sarebbe stata inghiottita da un tonno di passaggio fino a quando, ripescato da una barchetta sulla Stretto di Messina, sarebbe stato spedito insieme ad altro pesce in direzione Bologna. Spedizione ferroviaria. Era il due agosto 1980...
Questa è la mia personale ricostruzione della strage di Ustica, di certo più attendibile e meno insultante della ricostruzione ufficiale scaturita da ventisette anni di dibattimenti, ricostruzioni, perizie e controperizie. Nessun colpevole, nessun coinvolgimento adesso che anche Lamberto Bartolucci e Franco Ferri sono stati assolti in via definitiva “perché il fatto non sussiste”. Sentenza vergognosa e comprensibilissima.
Uno Stato non punisce mai se stesso.
martedì 9 gennaio 2007
Viale del tramonto
E’ triste assistere al declino psicologico ed umano di un uomo che ha segnato molte delle lotte civili in Italia dal dopoguerra ad oggi. Un uomo che dovrebbe ormai aver compreso di come la spettacolarizzazione di un evento possa ritorcersi contro la causa che si pretende di difendere. Un uomo che ha perso ormai la credibilità di cui godeva fino a non molti anni prima.
Marco Pannella e il suo "sciopero della fame".
Pannella avrebbe dovuto capire ormai da tempo il senso vero di un atto simile, radicale e drammatico, un atto in cui si considera un’Idea più importante della propria stessa vita e si è disposti a morire per essa. Disposti a morire, appunto. Come Mary Clarke, una suffragette che, all’inizio del secolo scorso, intraprese in carcere lo sciopero della fame e morì insieme ad altre nove detenute per le conseguenze di un’alimentazione forzata. Come i prigionieri politici turchi che lottarono contro l’istituzione di carceri speciali. Come Bobby Sands infine, attivista del Sinn Féin morto il cinque maggio del 1981 dopo sessantacinque giorni di sciopero della fame.
Annunciare uno sciopero della fame con grande battage mediatico e poi farsi ricoverare alle prime avvisaglie di malore svilisce e banalizza una scelta così estrema adottata e seguita fino alla fine – la propria fine – da centinaia di persone nel mondo. Nessuno chiede a Pannella di fare l’eroe o il martire. Ma che almeno abbia la dignità di non strumentalizzare ai propri fini una scelta etica che sente di non riuscire a condividere fino in fondo.
venerdì 5 gennaio 2007
Democrazia alle corde

Nella tremenda ipocrisia di chi voglia conquistare un Paese per sfruttarne le risorse ed usarlo come pedina sullo scacchiere della politica internazionale è ormai invalso un concetto ripetuto fino alla noia dai conquistadores di nuovo corso: esportare la democrazia. Sarebbe interessante chiedersi quale razza di democrazia e quali diritti umani si pretenda di esportare quando le teste d’uovo dei conquistatori impongono alla nuova colonia una Costituzione in cui resta in vigore la pena di morte.
I legislatori risponderanno facendo presente la diversità culturale tra i conquistatori e i conquistati, i governatori-fantoccio si appelleranno alla sovranità della propria nazione e al diritto di agire liberamente secondo le proprie leggi, i governati e governatori anzi criticheranno altri paesi per alcuni avvenimenti del loro passato.
Facciamo dei nomi. Ascoltavo qualche giorno fa con interesse e profondo sforzo di comprensione un politologo su Fox News, il canale americano all-news diretto concorrente della CNN. Discutendo sulla liceità dell’esecuzione di Saddam Hussein continuava a sottolineare il diritto all’autodeterminazione dei popoli, l’importanza di un mondo che creda nei medesimi ideali scaturiti dalla Rivoluzione francese e di una concezione di civiltà che deve essere esportata in quei paesi che potrebbero rappresentare un rischio per gli Stati Uniti. Peccato che un simile professorone ignorasse – o fingesse di ignorare – che la democrazia è stata il punto più evoluto della prassi politica occidentale e che prima di arrivare alle conquiste attuali l’Europa in primo luogo e gli Stati Uniti in seguito, di riflesso, hanno vissuto diversi secoli di lotte, rivendicazioni sociali, rivolgimenti e anche guerre civili. Il professorone fingeva di ignorare che l’autodeterminazione dei popoli acquista un senso solo se è davvero il popolo ad organizzare la propria vita secondo la forma di governo più consona alla propria cultura. Il professorone fingeva di ignorare altresì di come non sia del tutto conseguente che la democrazia elettiva rappresenti la migliore forma di governo esistente. Per noi sì, forse, ma questo non deve avere valenza universale.
Subito dopo la prima guerra del Golfo l’Iraq era un paese in rivolta: Saddam controllava solo tre delle diciotto province irachene, il regime poteva essere spazzato via senza sforzo in modo tale che gli iracheni avrebbero potuto riprendere in mano le sorti del proprio paese eppure… la forza multinazionale guidata dagli Stati Uniti non aiuta gli insorti, considera le rivolte un affare interno e anzi autorizza gli elicotteri della Guardia Repubblicana di Saddam a colpire i ribelli sciiti del sud e a sedare la rivolta. Si era ad un passo dalla caduta del regime di Saddam eppure la coalizione internazionale lo aiutò a conservare il potere. Perché? Evidentemente perché un Paese simile sarebbe stato veramente libero ed impossibile da controllare per gli Stati Uniti, evidentemente perché Saddam era un utile spauracchio nella regione, l’unico modo per giustificare gli interessi americani e le spese militari rivolte al Golfo. Sarebbe stata necessaria un’altra guerra imbastita con la scusa ridicola delle armi di distruzione di massa per legare in maniera definitiva l’Iraq del dopo-Saddam agli interessi strategici ed economici degli Stati Uniti. Quello che poi è successo, come sapete: regime fantoccio, l’Iraq bacino petrolifero da sfruttare ed enorme piattaforma strategica su cui schierare le proprie forze in Medioriente.
Un'ultima considerazione infine sulle dichiarazioni piuttosto piccate di Al-Maliki nei confronti dell’Italia. Solo gli imbecilli potrebbero giustificare la fine terribile di Benito Mussolini e la vergogna di piazzale Loreto: eppure non dimentichiamo che in quel caso non esisteva alcuna legge da seguire se non l’arbitrio dei pochi, la voglia di rivalsa, il desiderio tutto animalesco della vendetta su un uomo che aveva oppresso e affossato l’Italia nel ventennio più oscuro della nostra storia. Se Mussolini fosse stato catturato dagli Alleati avrebbe di certo subito un processo e probabilmente sarebbe stato condannato parimenti alla morte: la condanna a morte era un’istituzione adoperata con una certa consuetudine in tutti i paesi allora belligeranti, erano pochissime le voci discordi che la consideravano una pena barbara ed inutile.
Ecco perché non è possibile giustificare le parole di Al-Maliki. Ecco perché non si può giustificare la reintroduzione della pena di morte nella nuova Costituzione irachena e con essa, conseguentemente, l’esecuzione di Saddam: in un mondo che condanna sempre più fermamente la pena di morte sarebbe stato un atto nobile cancellarla dal nuovo ordinamento giuridico iracheno. Lo ribadisco ancora una volta: la condanna a morte di un uomo stabilita dalla legislazione di uno Stato sovrano è pura barbarie. Comprendo la vendetta dettata dall’istinto, non la morte stabilita per legge.