mercoledì 17 gennaio 2007

De Regula carnis et piscis

Visto l'interesse suscitato dai prodotti della mia follia ho deciso di pubblicare un altro divertissement: una fanta-conferenza tenuta da uno studioso a dir poco prolisso...


De regula carnis et piscis

Gentili colleghi, vi ringrazio per aver accettato l’invito al convegno da me organizzato. Molte volte in passato, in molti luoghi differenti, esimi colleghi hanno superbamente disquisito sul tema del convegno che oggi mi trovo indegnamente ad aprire: una questione spinosa, praticamente irrisolvibile, questione che, e credo di non errare, ha devastato le notti con feroci insonnie le vostre e la nostra mente allorché in un giorno di aprile, il ventotto dell’anno millenovecentoquarantasette si aprirono le porte della nostra conoscenza. Anni febbrili in Italia e in tutto il globo terraqueo, gli anni della ricostruzione, trombe dell’Apocalisse, anni che portarono gli aiuti americani, il piano Marshall, il muro di Berlino, i due blocchi, anni di tensione politica e sociale, anni in cui si affermavano la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, anni che mi vedevano ancora studentello di lettere confuso dalla guerra appena terminata, guerra che sembrava dover ricominciare per essere ancora più devastante, sempre più devastante.


Ebbene, in quegli anni pronubi di guerre e forze contrapposte il mio compianto professore, mai dimenticato, che fu per me padre, insegnante, collega, maestro, il professor Marinotti, il cui ricordo imperituro rimarrà negli annali della filologia per la sua illuminante scoperta di insulti rivolti a Speusippo che risultavano ad una lettura cabalistica, forse strabica per certi versi ma pregnante, dell’aristotelica Athenaion politeia, lettura che rivelò una nuova immagine dello Stagirita; ebbene, dicevo che il mio maestro, in quel giorno memorabile e terribile allo stesso tempo per la ricerca filologica ma non solo, storica ma non solo, filosofica ma non solo, scoprì vergato, a caratteri quasi illeggibili e corrosi dal tempo sempre tiranno, su un codice miniato con acribica precisione dal già noto Costante di Tours, miniatore che giammai si era abbandonato a bizzarrie personali e sempre ligio ai doveri di un frate che ha indossato la cappa di Benedetto, una frase, scritta frettolosamente, diversa rispetto ai caratteri armoniosamente intrecciati a formare una caleidoscopica visione per lo studioso di oggi, una scritta dicevo che distrusse “le cappe di sofismi” – e mi perdoni il professor Eco se mi permetto di citare un suo vecchio romanzo – di cui ci eravamo orgogliosamente e superbamente abbigliati.

Noi storici della Chiesa, di questa istituzione, l’unica che mai verrà meno nell’avvicendarsi dei secoli, rimanemmo sconcertati quando il mio maestro risolse di pubblicare un articolo sul glorioso Bollettino, oramai non più edito, dell’Università di Cernusco sul Naviglio intitolato “la Regola sregolata: Benedetto da Norcia e il suo tempo. Nuovi studi sulla Regola monachorum”: quali sentimenti potemmo noi provare allorché ci rendemmo conto che non tutta la regola, da me amorevolmente studiata, la regola che avrebbe stabilito la vita di migliaia di monaci lungo il lento corso dei secoli, la regola che tanti avrebbero abiurato ma che più numerosi avrebbero abbracciato pieni di fede; cosa potemmo provare noi allorché ci rendemmo conto che non tutta la regola era a noi conosciuta? Settantatré capitoli in cui il frate, davvero santo, fissò gli obblighi e i doveri morali che ogni suo confratello avrebbe dovuto rispettare lungo i secoli, certo ben conscio della grande fortuna che la sua regola avrebbe avuto, capitoli che noi tutti prima o poi abbiamo studiato con la gioia che è consona ad ogni credente; tutte le nostre conoscenze, tutte le nostre riflessioni, le nostre – a volte – ardite ricostruzioni per congettura erano svanite quando Costante di Tours prima, aggiungendo una postilla alla sua preziosissima Regola miniata, e il Magnifico professor Marinotti poi, scorgendo con mente lucidissima le labili tracce di uno stilo ormai svanito, avevano cambiato la lezione a noi conosciuta. Una piccola frase, è vero, ma si sa come il morbo che accomuna ogni filologo può trarre diletto anche da una singola lettera: una sola frase, monca e illeggibile in più punti, che però apriva le nostre menti ad una conoscenza più vicina e fedele all’originale, una frase che ancor oggi provoca in me grande emozione, frase che oggi ripeterò ancora una volta seguendo la ricostruzione proposta dal professor Marinotti in collaborazione con il dottor Nardo nel volume che raccoglieva gli articoli febbrilmente pubblicati negli anni seguenti la scoperta, “Una nuova regola alla Regola: ermeneutica e transustanziazione nei secoli – Cozzo Lupo 19783.

Eccola: DE REG[ULA CAR]NIS ET PISCIS: SI NON EST CARO E[T PISCIS, MEDIT]ATIONES; quasi integra la prima parte, ricostruita in gran parte la seconda. Non sarò certo io a tediarvi su risibili questioni filologiche né su improbabili interpretazioni allegoriche, ma ritengo opportuno, prima di esporre la rivoluzionaria scoperta da me più volte annunciata, di rileggere qualche passo del Marinotti – Nardo: “…la regola in tal modo risulta essere mutata nella sua più intima sostanza, essendo per sua stessa natura composta, o almeno così si credeva sino a che non ci fu data l’opportunità di scoprire diversamente, da settantatré capitoli agevolmente intrecciati così come il vimini a formare un resistentissimo canestro, che lasciava liberi i monaci di intravedere attraverso gli spazi vuoti ma li serbava a sé in maniera assoluta, così come un buon padre dovrebbe essere per i figliuoli…” (pag. 47); “vale a dire che il Traskovitz non si rende conto dell’assurdità delle proprie affermazioni dal momento che considera inopportuno tanto strepito per nulla – almeno così ha più volte dichiarato in ambiente accademico: ma signori miei, il filologo ama il nulla, vive per le piccolezze, si nutre di minuzie, indaga le quisquilie, e sarebbe poco opportuno per noi, che al contrario di studiosi riottosi ai cambiamenti, ci riteniamo filologi in senso compiuto abbandonare le minuzie per rivolgerci alla macroscopica realtà traviante…” (pag. 385); “A questo punto del saggio, consentiteci di insinuare nelle nostre menti così avide di conoscenza il germe della scoperta: questa nuova proposizione è stata da noi congetturata nel modo che segue; DE REG[ULA CAR]NIS ET PISCIS: SI NON EST CARO E[T PISCIS, MEDIT]ATIONES dove deve essere sottinteso un SIT finale. Ci rendiamo conto che l’ultima parte è piuttosto arbitraria ma ricalca perfettamente lo spirito della Regola, la quale prevedeva periodi di digiuno atti a fortificare il corpo ma ancor più la fede mai troppo viva, ahi quanto meschina in noi!, e secondo i nostri studi è da classificarsi come una sorta di motto usato per esortare i monaci più restii a queste forme di castigo corporale e spirituale, a dire che se la Regola non prevedeva nutrimenti di sorta per il corpo, era lo spirito a dover essere nutrito con letture edificanti e meditazioni romite…” (pag. 1047); “… è purtroppo vero che non possiamo affermare con certezza che tale frase fosse inserita nella regola, e se lo sia stata non possiamo nemmeno ipotizzare il perché essa sia stata espunta dalle lezioni successive…” (pag. 1049).

Ed è con somma gioia cari colleghi qui convenuti ma anche con vivo dispiacere per la memoria del mio maestro affermare che la sua congettura, proprio nella parte più insidiosa e meno leggibile era sbagliata. Ma Amicus Plato sed magis amica veritas, e se il compito dello studioso è quello di cercare la verità in un testo o di accertare la verità storica di un fatto allora non se ne vorranno quanti difendono la tesi ormai passata alla storia come Marinotti – Nardo, tesi non più proponibile allorché un’opportunità simile a quella del mio maestro mi fu data un giorno di tre anni fa, in una polverosa biblioteca di Lipsia, quando scoprii che su una Regola miniata da Aimone di Gazara ed anteriore per datazione a quella di Costante di Tours, era presente, a caratteri anch’essi sbiaditi e leggibili se non dopo grande sforzo intellettuale l’intera proposizione: in tal modo veniva a cadere la congettura del maestro, ma non, pur se parzialmente, l’interpretazione, e rimane ad ogni modo mirabile la cautela con cui il professor Marinotti trattò l’argomento, conscio della pericolosità di una interpretazione troppo azzardata o alquanto fantasiosa. Ma non dilunghiamoci oltre, ed ecco il testo completo di quello che si può a ragione definire come un capitolo ancora inedito della Regola monachorum di san Benedetto da Norcia:


De regula carnis et piscis


SI NON EST CARO ERIT PISCIS

Variationes regionales

Si non est homo erit foemina

Si non est album erit nigrum

Si non est hoc erit illud


Accessiones

Si res examinandi caro est impossibilis piscem esse

Si res examinandi generem ignotum habet, tribuemus ad muzzum rem qui erit caro ac rem qui erit piscis.

Poche considerazioni mi siano ancora consentite. Ci troviamo di fronte non ad una esortazione, ma a qualcosa di più profondo e per certi versi più inquietante: questo non è il motto sereno di un frate che sceglie di abbandonare il mondo per seguire l’unico Verbo, ma una vera e propria espressione filosofica. L’autore ci propone una scelta vincolante e non intercambiabile, si non est caro, e cioè se si sceglie di abbandonare le occupazioni terrene, erit piscis, vale a dire che non ci si potrà più allontanare dalla regola e la si dovrà seguire fino alla morte: eris sacerdos in aeternum. L’autore continua poi con le variationes regionales, ben conscio della necessità di indottrinare gli ignoranti con esempi più legati alla sfera contingente delle cose, anche se è possibile cogliere una climax ascendente che culmina in una proposizione di tipo concettuale. Spiegabili allo stesso modo le accessiones. Sebbene mi renda conto delle implicazioni che comportano i simboli della carne e ancor più del pesce – palese antifrasi della condizione umana e di quella divina – l’espressione può essere esaminata ad un livello più profondo e prettamente filosofico: la proposizione indica una via per la conoscenza parallela e non escludente quella religiosa, la via della ragione che solo molto tempo dopo il dottore d’Aquino avrebbe proposto come via precipua, pur se mediata dalla fede.

E notiamo i principi aristotelici applicati con rigore, soprattutto in una accessio, la prima, che esplica in verbo latino il principio di non contraddizione, A considerato diverso da B, la diversità come primo passo per la conoscenza rivelata attraverso la differenza naturale uomo-donna, aspettuale bianco-nero, concettuale questo-quello e sintetizzata mirabilmente nell’antifrasi carica di allegorie caro-piscis; il nostro autore inoltre, conscio della difficoltà che ha l’uomo ad attribuire un genere specifico a ciò che sconosce decise eroicamente di lasciare al lettore una possibilità di scelta, la possibilità di interpretare liberamente la realtà contingente attribuendo ad muzzumhapax legomenon nella Regola poiché espressione per certi versi mediata dal linguaggio del volgo e qui usata probabilmente per avvicinare anche il più indotto dei frati alla conoscenza – il genere degli enti da studiare come passo fondamentale per una verità, forse anche per la Verità. E fu con tutta probabilità quest’ultima accessio la causa della cancellazione del paragrafo succitato, paragrafo che Benedetto si vide costretto ad eliminare per non scontrarsi con la Chiesa e non andare contro alla dottrina della verità rivelata. Un Lutero ante litteram? Non ci è dato saperlo, gli elementi a nostra disposizione sono scarsi e non vorrei certo inimicarmi l’intera compagine benedettina qui presente accusando il loro padre di aver fatto per “viltade il gran rifiuto”: quello che possiamo affermare è che oggi si sono aperti nuovi corsi per lo studio della Regola e che la conoscenza integrale della stessa è ben lungi dall’essere completata. Grazie.

Chiar.mo Prof. Giovanni Matteo Ildebrando Vicicchi, ordinario di Storia dei fenomeni religiosi ed apotropaici dell’Università di Cozzo Lupo.

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