giovedì 20 aprile 2006

Scuola di giornalismo #1

La Sicilia del 18-04-06, edizione di Catania, pag. 35. Un grumo di parole in alto a sinistra m’informa che nella notte qualcuno ha avuto l’infelice idea di sparare contro la vetrina di un bar di via Etnea. Esplodere alcuni colpi d’arma da fuoco avrei potuto dire, tanto per usare uno dei tanti triti e ritriti luoghi comuni di certo giornalismo d’informazione, quello che, per intenderci, potrebbe benissimo risolversi nella sintesi estrema di due righe se non fosse diluito con inutili espressioni di questo tipo. Quello del nosocomio comunale, del tempestivo intervento delle forze dell’ordine che ha scongiurato il peggio, quello dell’insano gesto, quello delle traduzioni in carcere – per inciso, da piccolo pensavo che in carcere fossero tutti dei colti poliglotti, ma questa è un’altra storia.

Quello che mi ha colpito è stato il taglio dato alla notizia. In poche righe si spiega che i proiettili hanno danneggiato la vetrina, che il bar ha cambiato gestione da poco e che il proprietario non riesce a dare un senso ad un’azione simile. Ora, credo sia sufficiente il quoziente intellettivo di un peperone per capire che un atto come questo seguito dalla più classica delle dichiarazioni va letto come un avvertimento ad un commerciante non ancora aduso ai meccanismi che regolano la riscossione del pizzo.

È solo un trafiletto, d’accordo. Le classiche due righe in cronaca. Non ci sono nemmeno le iniziali del giornalista che gli ha dato vita. Va bene, che avesse scritto gli inquirenti non escludono alcuna pista avrei anche potuto accettarlo visto che su alcuni scomodi argomenti buona parte della stampa locale glissa sapientemente, ma che abbia scritto potrebbe trattarsi di una semplice bravata (cito a memoria, scusate, ma il termine bravata me lo ricordo bene) no, questo no. Non lo accetto.

È un insulto all’intelligenza del lettore e alla dignità professionale di un giornalista.

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