lunedì 3 aprile 2006

Ma che genere fanno?



Un’intervista è sempre un coitus interruptus tra spazio e tempo di due persone. A volte un piacere, un onore o un’emozione, talora solo una seccatura per il giornalista, più spesso una glaciale formalità sia per l’intervistato sia per l’intervistatore. Fortuna che non sono un giornalista. Sebbene stia cominciando a muovermi per entrare a far parte di questa setta di iniziati e del loro Ordine (temuto più dei sanguinosi Templari e rigido più di un cataro figlio d’eresia) non mi sento un giornalista: ecco perché i miei approcci con gli artisti che ho avuto e che, spero, avrò il privilegio di intervistare sono spesso di genere fantozziano. Solitamente li attendo per ore sperando che possano dedicarmi un po’ del loro tempo per rispondere a domandine a volte insolenti e provocatorie – non sempre, dipende da chi ho davanti… Mmm, forse non è un atteggiamento giornalisticamente corretto. Ma io non sono un giornalista.

Inoltre, anche quando ottengo l’intervista senza particolari problemi devo tener conto nella maggior parte dei casi di location piuttosto scomode o insolite: si va dalle scale di una viuzza modicana per Pippo Pollina (con tanto di miagolii di gatti in calore e Gigi d’Alessii in sottofondo), a bordo piscina per un gentilissimo Cisco dei Modena in déshabillé, al camerino-loculo-forno che ospitava Jorge degli Inti-Illimani, alla posizione di orante inginocchiato per Giovanni Lindo Ferretti…

Per fortuna stavolta la mia chiacchierata con Valentino Bianchi dei Quintorigo è stata più rilassante e tranquilla degli standard a cui sono abituato. In albergo, un lusso che pochi artisti finora mi hanno concesso: senza contare poi l’informalità dell’incontro e l’affabilità di tutti e cinque i ragazzi e del loro tour manager che mi hanno fatto sentire subito a mio agio. Certo non mi aspettavo di trovare dei professoroni d’orchestra con la puzzetta sotto il naso e la capacità di annientarti con uno sguardo di tracotanza e di superiorità. Ho trovato dei ragazzi normalissimi con cui potresti tranquillamente andare a bere una birra o scambiare quattro chiacchiere senza problemi di alcun tipo. Dei ragazzi che sul palco lasciano correre a briglia sciolta tutta la loro bravura in un misto fra teatralità, dadaismo e follia. Senza contare che l’ingresso di una voce straordinaria come quella di Luisa Cottifogli ha dato al gruppo una nuance ulteriore che prima non possedeva.

Il problema sorge quando qualcuno, incuriosito dalla descrizione che ne faccio mi chiede: “Ma che genere fanno?”. Eh eh. Chiedere il genere dei Quintorigo è come chiedere che sapore ha il blu di Prussia o l’odore del si bemolle: semplicemente, è impossibile definirli. Pensate allo shaker di un barista impazzito in cui si mescolano la musica classica e il più rigido accademismo, il jazz accattivante dei bordelli di New Orleans del primo novecento o i coretti del più antiquato falsetto Cetra, il rock di Jimi Hendrix o dei Deep Purple o gli effetti sonori e le voci filtrate dei dj. Senza dimenticare violini distorti come fossero chitarre elettriche e voci suonate come trombe… Più o meno come se un Beethoven impasticcato a dovere avesse deciso di scrivere un’opera a sei mani con David Bowie e un Charlie Parker alticcio al punto giusto e il libretto fosse stato scritto da Woody Allen e le scene disegnate da una Ellekappa ispirata. Ironia, intelligenza, originalità e bravura. I Quintorigo.

Non riesco a credere che abbiano partecipato a quel desolante piattume di litanie cuore-amore che è il festival di Sanremo… Anche le migliori famiglie hanno degli scheletri nell’armadio.



Ps: la foto e i conseguenti diritti sono di Sergio Bonuomo.

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