mercoledì 29 gennaio 2014

Appunti per una fenomenologia della piccola politica

Assurde e inconcepibili in un mondo razionale dovrebbero essere le ragioni che portano persone dotate di intelligenza a scegliere come loro rappresentante politico una persona incapace di onorare il proprio ruolo. Accanto alle buone intenzioni favolistiche della “grande” politica alle quali tutti dicono di ispirarsi – quella scritta su opere di infiocchettata utopia per capirci – emergono in questi indegni rappresentanti altre più concrete e infelici ambizioni che nessuno di loro ha tuttavia l’ardire di manifestare al mondo. Quasi diffondessero chissà quali verità sconosciute ai più. Il potere. La tirannia del singolo che elargisce a suo piacimento favori e benefici. L’esercizio cosciente e continuato del privilegio per sé e per una congrega strettamente affiliata.

Sono i mali della democrazia imposta, un sistema di organizzazione che rivela tutte le sue derive dispotiche qualora non sia accompagnato da una educazione alla vita associata che illustri la convenienza di un principio comune basato sull’equità e la giustizia sociale. Comandare è bello direbbe il buon Cervantes, anche se si tratta di una mandria di bestiame. Che sia la presidenza della Repubblica o il consiglio comunale del paesino più miserabile la sostanza non cambia. Qualora non esista alla base della società l’idea forte di una etica politica affiora la debolezza del “particulare” e l’egoismo della meschinità quotidiana: l’arroganza e il malaffare sono eletti a sistema, il voto diventa moneta sonante attraverso cui acquistare l’affetto del governato, la rappresentanza politica soltanto uno strumento per favorire la propria cricca di riferimento e l’ascesa verso porzioni di potere sempre più ampio e assoluto.

È la logica del “Lei non sa chi sono io” del piccolo democristiano dei tempi che furono, o dei craxiani rampanti che dilagarono nei funesti anni Ottanta lungo tutta la penisola. È il furore grossolano dei separatisti più biechi, la viscida convenienza dei centristi o il berlusconismo e le sue figliate assolutamente impermeabili al concetto di legalità che muovono i fili della vita comune coi guasti che è possibile osservare quotidianamente.

A Modica ora più che mai si aggira lo spettro di questa piccola politica e della moralità annullata e sostituita da un moralismo di facciata vuoto ed ipocrita. Che non si limita soltanto ad alcune personalità pubbliche, badate bene, perché ha ormai infettato buona parte della nostra società senza che si riesca a trovare un vaccino adeguato per guarire da un simile male.

L’amministrazione di Abbate vorrebbe riportare la città ai fasti di facciata del regno di Torchi. Con una differenza: non possiede vacche grasse da mungere come allora né ha la “fantasia” amministrativa del suo modello ideale. Sia ben chiaro, continuo a pensare che l’amministrazione Torchi sia stata una rovina per Modica: perché se da un lato si è registrata una innegabile effimera crescita questa è andata di pari passo con il declino morale della città – che in verità non navigava già in buone acque –, una città che si è sentita autorizzata a considerare l’amministrazione come un grimaldello per far saltare fastidiose “pastoie burocratiche” che impedivano lo sviluppo (chiamiamolo così) del singolo. Senza dimenticare la gestione disinvolta delle finanze pubbliche che ha provocato quel baratro economico del quale ancora oggi paghiamo le conseguenze.

Un’amministrazione, l'attuale, che naviga a vista senza che si intraveda un progetto ben preciso per la crescita della città che non siano le pezze temporanee sui vuoti istituzionali, l’aumento miope delle tasse e una gestione della politica culturale che definire grottesca è un eufemismo, orgogliosa com’è di luminarie natalizie visibili dalla Luna e panchine di cioccolato.

Nel piccolo governo prospera ovviamente il piccolo amministratore. Parvenu della politica che può contare su una base non indifferente, egli cavalca le onde del qualunquismo più infelice tenendo saldamente in mano le briglie del populismo e dell’arretratezza culturale. Gente che pensa che il razzista è solo quello che vorrebbe gli ebrei nelle camere a gas. Poveracci di spirito che brindano alla scomparsa di un giornale libero e insultano ministri della Repubblica senza rendersi nemmeno conto (o peggio, malignamente, rendendosene conto e fingendo successiva sorpresa alle reazioni) dei loro atti. Piccoli prepotenti che pensano di aver diritto all’adorazione una volta entrati nelle stanze del potere.

Forse alla base di tutto c’è davvero l’arretratezza culturale di una città. E non stiamo parlando di titolo di studio. Quel mitico pezzo di carta cioè, diploma o laurea che sia, conseguito da generazioni non tanto per ottenere gli strumenti utili ad una migliore comprensione della realtà ma solo perché in tal modo il politico amico, e l’amico dell’amico, poteva sistemare questi giovinetti neoacculturati nella pubblica amministrazione dietro una scrivania e un ruolo probabilmente immeritati. Fino alla fine dei tempi.

La cultura va al di là del titolo di studio o dell’erudizione. Non è il governo dei filosofi di Platone né la competenza del tecnico. Non è l’abilità dialettica dell’imbonitore né la raffinatezza del gusto artistico. Cultura non è sapere tante cose, o mostrare di saperne tante: cultura è intelligenza, capacità di organizzare un pensiero e di comprendere la direzione di una società. Cultura è ponderazione e acutezza d’idee, è progettare una vita associata che superi, includendola, la propria esistenza, e che punti al benessere collettivo.

Non è il linguaggio forbito del professore di cui abbiamo bisogno per crescere ma la caparbietà intelligente dei politici di razza, di gente che possegga gli strumenti per amministrare e progettare un futuro. Di gente che faccia parlare di sé per le azioni di governo e non per gli aggiornamenti di stato gretti e sgrammaticati dei social network, degni più di un ragazzino irresponsabile che non di un amministratore serio e competente.

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