martedì 28 ottobre 2008

Ad un guardiano di nuvole

Io non ero presente quel giorno. Non ho potuto, non ho voluto. Non volevo assistere ad un branco di sciacalli che si spartivano una preda così succulenta. Lacrime sincere accanto a dolore di circostanza, coccodrilli sulle magliette e coccodrilli tra i banchi di quella chiesa. Ho immaginato tutto questo e peggio ancora, applausi a scena aperta e ostentazione del dolore e non me la sono sentita. Non ho voluto esserci, ecco tutto. Perché tanto conoscevo lui solo, perché in quei frangenti le condoglianze di un illustre sconosciuto ad una famiglia già preparata a riceverne a decine sarebbe stata solo una inutile formalità. Perché vedere che la morte con cui andava a braccetto stavolta aveva vinto sarebbe stata una pena troppo forte. Perché sapere che dentro quella bara c’era un amico mi avrebbe fatto male.

Voglio ricordarlo lì, invece, al Quadrato della Palma. Una definizione goliardica, uno strambo luogo dell’anima. Aveva chiamato così la piazzetta di fronte alla libreria La Talpa, un naturale luogo di ritrovo della cultura modicana frequentata spesso da gente quantomeno insolita. “Tutti frequentano i circoli“ diceva, “e noi invece abbiamo il quadrato”. Lo ricordo in libreria, in mezzo a tanti Don Chisciotte troppo disillusi per riuscire anche a pensare ad un’azione concreta che possa cambiare questo deprimente e definitivo status quo

Non ho voluto partecipare al suo funerale. Però mi hanno raccontato dell’omelia, non troppo pedante e in definitiva reale, con quella ricerca della verità messa in risalto, con l’insaziabile sete di verità e di giustizia che lo contraddistingueva a far da sfondo e ragione della sua esistenza. Era un personaggio strambo, eccentrico, eccessivo. Raccoglieva con amore bibliotecario tutte le traduzioni possibili dell’Ulisse di Joyce, passeggiava per Modica e ne scrutava l’inevitabile declino. Lo si vedeva spesso discutere e a far da contraltare a drappelli di gente ancor più stramba di lui: discuteva e si indignava con il suo eloquio alluvionale, garbato eppure pungente. E barocco, barocco come quegli autori che mi aveva consigliato poco più che bambino e che tanto amava: Borges, Manganelli, Carpentier, Brodskij. Era un inguaribile egocentrico, megalomane forse, ma era una simpatica marca che lo rendeva riconoscibile, unico a dirla tutta. Era Ciccio Belgiorno. Un’istituzione.

Emigrato da ragazzo in Germania e diventato giornalista di successo era tornato dopo decenni nella sua Modica, nella nostra Modica per raccontare nei libri e nei racconti la città della sua giovinezza: una Modica dei tempi andati dipinta con la nostalgia di chi ha vissuto nella terra impareggiabile e non di chi ha sentito dire. Una propaggine della sua anima… Adesso che è morto, è morta con lui anche una parte di Modica. Della nostra Modica, della sua Modica. E sono certo che se da qualche parte nell’universo esiste un luogo per chi non è più, sono certo che starà abbracciando commosso i suoi guardiani di nuvole: il cavaliere Poidomani, Neli Scaccia, il sindaco di Scardacucco, Luigino l’orbo, Pietru co frischiettu… Saranno tutti là ad accoglierlo e a ringraziarlo per aver donato loro, a loro, ormai polvere dei ricordi, ancora un attimo di luce nel mondo di chi è ancora.

Addio dottor Belgiorno, ciao Ciccio. Ti do del tu finalmente, quel tu che in vita mi avevi sempre chiesto, quasi imposto, e che non sono mai riuscito a darti veramente. Grazie per ciò che sei stato, nei tuoi difetti come nella tua profonda umanità. Grazie per tutti i consigli, per il mio libro che hai fatto appena in tempo a vedere. Grazie per avermi considerato tuo amico, per ciò che hai dato ad ognuno. Soprattutto alla tua città, a Modica.

Di te non mi resta niente di tangibile. Non una registrazione, non una foto insieme. Nemmeno una dedica su uno dei tuoi libri o il classico semplice autografo, che per pudore non ti ho mai chiesto: solo tanti piccoli ricordi legati all’uomo, al personaggio e all’interprete di te stesso. È strano passare dal quadrato e non sentirmi chiamare da lontano Mario! – sbagliavi sempre a chiamarmi per nome, chissà perché. È strano entrare in libreria e trovare la tua sedia vuota, è strano non sentirti più inveire sul giornalismo pennivendolo, sulla classe politica inetta, sulla cultura decadente e sulla rovina della nostra città. “Caro Mario, siamo circondati dallo squallore, dove andremo a finire!” dicevi quando mi vedevi. “Marco…” ti correggevo con il sorriso sulle labbra, già sapendo del modo in cui avresti ribattuto. “Ah… Mario, certo certo, scusami. Tu correggimi quando sbaglio il tuo nome”. È strano pensare che Modica abbia perso così, all’improvviso, una delle sue voci migliori. Fustigatore come pochi, ironico ed indisponente per chi non ti conoscesse bene. Ciccio Belgiorno, bastava il nome a presentarti.

E sono certo che se avessi assistito al tuo funerale, magari seduto tra gli ultimi banchi, se avessi ascoltato il falso dolore dei tanti presenti ti saresti indignato come eri solito fare, e con una punta di stizza nella tua voce avresti pronunciato la più modicana delle imprecazioni: “Ma tutti chisti, ca, chi zonna vuonu ri mia?”.

2 commenti:

enne ha detto...

La morte di un amico è sempre un evento sconvolgente. Se, poi, l'amico incarnava anche un simbolo per la collettività, il lutto è di tutti.
Coraggio, Mario.

ps. Poi, magari in privato, o anche in pubblico, mi dici del libro che hai pubblicato. :-)

Anonimo ha detto...

ti stringo ,mario..