28 aprile
Prologo e pinguini
Devo tornare a Modica. Dopo aver assistito alla laurea dell’Apostolo (tesi sulle dinamiche del potere in Foucault) devo abbandonare questa città caotica e ritornare a casa. Imperativo categorico è sequestrare la veneranda Fiesta grigio polvere di mia madre, diciassette anni per 159.700 gloriosi chilometri all’attivo per poi ritornare a Catania e recuperare il resto della brigata. Destinazione: Sicilia occidentale. Un grand tour bonsai di tre giorni che porterà un gruppuscolo variamente assortito in quel di Selinunte e Segesta, sulle orme dei Greci di seconda mano – sarcastica definizione di Phystyle che ho sottoscritto in pieno.
Piccolo dettaglio: avevo dimenticato dello sciopero degli autobus. Oggi. Ops. Subito dopo pranzo mi avvio verso la fermata della metropolitana aspettando stoicamente una delle corse che nella fascia protetta dovrebbe assicurare il collegamento con la stazione. Dopo aver atteso un quarto d’ora circa eccola arrancare, la metro di Catania, con un conduttore palesemente incazzato per la malasorte di una precettazione che ha indicato proprio lui come vittima sacrificale. Una volta arrivato compro un biglietto per il mio autobus e scopro poco dopo che la cosiddetta fascia protetta è protetta sì, ma a discrezione dell’autista. Non esiste cioè un orario in cui il servizio è garantito: è l’autista di turno a decidere se essere un krumiro o no. L’unica cosa che posso fare è aspettare alla stazione degli autobus fino alle 21.30 nella speranza che qualche stacanovista abbia ignorato lo sciopero. Ops.
Ho già speso quasi sette euro e non so se potrò tornare a casa prima di sera. Ma io devo tornare, a tutti i costi. Dopo aver fatto un po’ di calcoli mi rendo conto che l’unica terrificante alternativa possibile è il treno. Che significa non meno di quattro ore di viaggio massacrante su treni e linee d’avanguardia – se fossimo all’inizio del secolo scorso, chiaramente. Mi guardo un po’ intorno e decido di agire in parziale malafede: comincio a chiedere se qualcuno ha bisogno di un biglietto per Modica. Che bastardo che sono. Intravedo in lontananza un folto gruppo di pinguini. Che succede? Il disgelo, non ci sono più le mezze stagioni? No, sono delle suore. Mmm. Sarebbe come prendere a cannonate
Ok, l’ho fatto. Con fare da imbonitore ho rifilato il mio biglietto ad una delle suore – facendole addirittura un piccolo sconto sul prezzo! – e mi sono diretto verso la temuta biglietteria Fs. Quasi nove euro: Catania – Siracusa – Modica, partenza 16.53, attesa di un’ora e mezzo a Siracusa, arrivo ore 22. Ops. Lode alle infrastrutture siciliane e ai nostri feudatari: attraverseremo lo Stretto di Messina in undici minuti ma oggi ad un treno occorrono cinque ore per percorrere cento schifosi chilometri. Ma tant’è. Non sapendo come ingannare il tempo – ho Bukowski in tasca, ma va gustato a piccoli sorsi, come il rum –, mi avvicino con fare da etologo ad uno di quei tassisti abusivi che truffa con prezzi vergognosi i malcapitati che decidono di fidarsi di lui. Infatti “Macchina, giovane?” mi chiede non appena giunto a tiro. “No grazie, troppo caro” rispondo. “Dove devi andare? Oggi c’è sciopero!” insiste. Mi propone un prezzo forfettario per cento chilometri. 130 euro. Gli propongo gentilmente di andare affanculo – scusate il francesismo – e, ignorando i suoi “ne possiamo parlare”, siedo sulla panchina del mio binario a sorseggiare Bukowski.
Dopo un po’ siede accanto a me una vecchietta dismessa e malacconcia. Capelli corti, bianchi, faccia dura, un passo lievemente strascicato. Non ha altra casa se non la stazione. Clochard mi pare si dica nel linguaggio ridicolo dei politically correct. Non dice nulla, non chiede nulla. Osserva il mondo che le scorre accanto come se fosse una realtà estranea, ormai, alla sua vita. Ad un certo punto, inspiegabilmente, comincia a dondolarsi e a ripetere, come una lugubre litania, “quant’è brutta ‘a vita”. Sempre la stessa frase. Per almeno mezz’ora. Non so cosa fare: la osservo di sottecchi, abbozzo un idiota si-sente-bene? che rimane senza risposta ed infine trovo il coraggio di guardarla negli occhi. Il suo sguardo è perso nel vuoto: è come se io non esistessi, è come se l’intera stazione non esistesse. Come se stesse rivivendo per l’ennesima volta un copione logoro e terribile. Mi rendo conto improvvisamente di essere fortunato… Il treno arriva e mi salva da quella malinconica disperazione. Il treno. Oddio, le suore. Anche i pinguini hanno optato per questa soluzione e svolazzano per gli scompartimenti alla ricerca di un posto libero. La suora a cui avevo venduto il biglietto mi riconosce e m’inchioda sulle traversine con uno sguardo che trasuda odio e vendetta... Sarà un viaggio di ritorno molto lungo.
29 aprile
Per la stessa ragione del viaggio
Svegli di buon’ora, io e mio fratello – proprietario dell’altra auto che parteciperà al mini tour – ci rechiamo a Catania dove ci attendono gli altri.
Partiamo. In macchina carico PhyStyle che assume volontariamente il ruolo di navigatore e trascino con noi Laura Palm. (detta anche l’Ariana) che ci tiene compagnia con le sue divertenti incursioni da tedesca d’adozione. Cover punk a palla lungo
Abbandoniamo l’autostrada all’altezza di Caltanissetta e ci avventuriamo attraverso le insidie delle strade statali senza che la nostra nuvoletta ci abbandoni. Dopo un lungo pezzo di strada percorso a velocità ridotta si affaccia alla nostra destra
29 aprile
Su e giù per le strade di Castelvetrano
Dopo aver preso il caffé gentilmente offerto da Plumbago e signora ci troviamo vittime di quella indisposizione totalizzante localmente nota con il nome di filinona: più che pennichella una condizione dello spirito che ricorre in special modo nei pomeriggi d’estate, quelli in cui il sole tiranneggia in cielo e prende possesso delle nostre menti e dei nostri corpi. Riposiamo un po’, gustando la piacevole e tranquilla atmosfera delle campagne castelvetranesi e girovaghiamo per casa, continuando a chiederci come sia possibile che una posto simile venga affittato ad un prezzo così irrisorio. L’ipotesi bunker prende corpo… In realtà il proprietario del Plumbago è solo una persona onesta, quanto di più lontano si possa immaginare dall’iconografia mafiosa: sarebbe più facile che qualcuno mi scambiasse per Betty Boop piuttosto. Potremmo tranquillamente considerare quell’uomo mite e raffinato come un disadattato, visto il luogo che si trova ad abitare suo malgrado, per affetti e legami vincolanti.
Decidiamo di fare un salto a Castelvetrano per cercare di comprendere l’habitat naturale che ci circonda. Una sensazione straniante. Come se fossi tornato alla mia primissima infanzia e riaffiorassero déjà vu psichedelici di una vita di paese che credevo ormai sepolta tra le palate di terra del tempo e le lapidi scolpite di luoghi comuni. Forse la lontananza dal continente che rende questa condizione di isolitudine ancora più forte, forse la forza di legami atavici che risultano difficili da rompere, forse una realtà avvelenata da terribili rapporti di forza. Castelvetrano sembra una città tranquilla ed ostile allo stesso tempo. La gente non smette di fissarci. Un misto tra curiosità e diffidenza, un po’ come la scimmia che fissa interrogativamente le sue smorfie riflesse da uno specchio. Probabilmente la gente in questi luoghi non ha a che fare molto spesso con i turisti, almeno non con coi piccoli gruppi individuali. La vicina Selinunte – ma avrò modo di parlarne più avanti – viene assaltata giornalmente da mandrie di turisti che brucano antichità dismesse come mandrie di pecore rinselvatichite: arrivano a frotte come le cavallette su pullman ipercondizionati, fotografano, apprezzano e ritornano nelle stanze ovattate dei loro alberghi standardizzati senza alcun contatto con gli indigeni. Tutt’al più cercano colore locale, carretti siciliani, pupi e cannoli con la ricotta, ma a questo pensa il tour operator che li stringe al proprio petto proponendo un’immagine falsa e scintillante della Sicilia. Così può accadere che a Castelvetrano una macchina targata Rg piena di ragazzi e ragazze palesemente non autoctoni possa ancora destare stupore.
Questo non significa che la gente cammini con le lupare appese sulla spalla o che le donne portino ancora il famigerato fazzoletto nero in testa: le ragazzine, a Castelvetrano come a Ragusa o a Milano sembrano tutte dei piccoli cloni di Britney Spears e sognano probabilmente di fare la velina o di partecipare al “Grande Fratello”, e se si intravedono cinquantenni con minigonne invereconde, cattivo gusto imperante o sguardi minacciosi questo è solo il segno che ci si trova in una piccola cittadina di provincia. Di una provincia del nostro Sud magari, ma pur sempre di provincia. Così non mi stupisco più di tanto se due tipacci in motorino dopo averci sorpassato continuano a girarsi lanciando inequivocabili occhiate di sfida: cercano il casus belli – a custioni diremmo noi – magari per movimentare un po’ un sabato sera noioso, magari per affinare il loro stile di bulletti. Senza contare che ci sono tre ragazze in macchina con noi. Facciamo finta di niente, non raccogliamo le provocazioni. Che noia dev’essere il sabato sera da queste parti.
29 aprile
A cena dall’ultimo impressionista
Ritorniamo nel mondo ovattato del Plumbago e decidiamo, raccolti Fratello e Cognatina, di cenare in un agriturismo lì vicino. Anche se l’insegna indica ben quattro stellette appuntate sul grembiule e l’ambiente dall’esterno sembra piuttosto raffinato – almeno per l’abbigliamento e per il nostro stile assai casual – decidiamo di chiedere ugualmente a quello che riteniamo essere il proprietario, o quantomeno il caposala, dell’esistenza di un menù fisso. Rassicurati dalla presenza di simili soluzioni ma ancor più dalla rusticità linguistica dell’uomo entriamo in sala. Ben presto ci rendiamo conto che la raffinatezza che sembrava trasparire dall’esterno è solo apparenza: il cocktail di stili risente della sindrome da rinnovo mobilio che ci fa respirare l’aria di un mercato delle pulci piuttosto che di un ristorante. L’ambiente non è di quelli con la puzzetta sotto il naso: i volti degli avventori sono soddisfatti, e poi Saro, l’apparente proprietario, sembra conoscere bene il proprio mestiere. Entriamo in una saletta più piccola – sembra quasi il posto d’onore – e, mentre prendiamo posto mi accorgo della sua presenza. Una vertigine di ricordi ritorna ad assalirmi e mi trascina di peso alla mia infanzia di teledipendente: al centro del muro, da una elegante cornice in legno mi fissa con il suo sguardo di beone e il nasone da avvinazzato l’inarrivabile capolavoro di un indimenticato maestro. L’ultimo impressionista. Teomondo Scrofalo.
L’asta tosta – oggetti tosti per tutti i gosti –, Ezio Greggio, il Drive In… E’ incredibile come i ricordi più strampalati vengano a bussarti dalla porta di servizio della memoria quando meno te lo aspetti. A questo punto rompo ogni indugio: un locale che espone con così tanta cura uno dei miei miti d’infanzia merita certamente la fiducia. Mai scelta si rivelò più oculata. Coccolati da Saro e da un cameriere dallo sguardo di furetto ci rimpinziamo senza alcuna verecondia ingozzandoci di bruschette, salsiccia, formaggio, olive, melanzane e zucchine grigliate, frittata, pane e panelle, verdura in pastella… e questo solo per antipasto! Subito dopo arrivano tre robusti piatti di portata con il cous-cous e un sughetto speziato da leccarsi la barba (perdonate il personalismo) che ci lascia stupiti e soddisfatti. Il vino scorre e le caraffe vuotate vengono sostituite d’ufficio dall’ineccepibile cameriere-furetto, mentre Saro ogni tanto ci viene a trovare per sincerarsi che tutto vada per il meglio. Altrochè! Quel vino poi, che Saro assicura essere un Nero d’Avola ha un quid di selvatico, quasi d’uva di montagna che non dispiace affatto. Spazzolato il cous-cous viene servita una strana pasta fresca condita con un saporito sugo di maiale arricchito da pezzettoni di carne. Di questa pasta non chiedetemene il nome, ero troppo occupato a mangiare per prendere appunti.
Chi avesse visto la tavolata dall’esterno avrebbe potuto scambiarci agevolmente per un gruppo di mongolfiere pronte a lasciare terra, tanto avevamo già mangiato, tanto i nostri stomaci si erano riempiti. Ma non era ancora abbastanza. Pantagruel non ne ha mai a sufficienza, oh no. Arrivano i vassoi con la carne: salsiccia arrosto, pancetta grigliata e la rinomata cotoletta alla palermitana. Mangiamo ormai per puntiglio, masticando con tenacia e ingoiando il boccone nella segreta speranza che Saro abbia ormai vuotato la dispensa e che non sappia più cosa servirci. No pasaran. La frutta ancora, che qualche stoico riesce a mandar giù ed infine i dolci. Aspetta, ai dolci non rinuncio. Cannoli e ravioli alla ricotta che vengono disintegrati praticamente solo dai due ingordi della tavolata, me e PhyStyle. La cena è giunta alla fine: Saro ci consiglia un amaro prodotto a Salemi (Salemi, eh sapeste…), il Monte Polizo, che avevamo già testato al Plumbago e che accettiamo di buon grado.
Resta solo il conto, unico piatto che potrebbe risultare indigesto. Con un consumato gesto da giocatore di poker PhyStyle scarta la ricevuta: in attesa del verdetto fioccano scommesse sulla cifra che dovremo pagare e sull’eventuale numero di pile di piatti che dovremo lavare per estinguere il debito. Non crediamo ai nostri occhi. Diciassette euro e cinquanta a cranio per tutta ‘sta roba! Che gran signore Saro, che buona cucina. Certo, non mi sarei aspettato niente di meno da un uomo che tiene appeso sul muro del proprio locale il capolavoro di Teomondo Scrofalo, l’esimio maestro, l’ultimo impressionista.
[continua]
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