domenica 8 dicembre 2013

Madiba, o dell’equivoco pacifista

Sentimento comune alla vista di un anziano, soprattutto se carico di acciacchi, è quello di un affetto istintivo e disinteressato: lo stesso che ogni nipote prova nei confronti del nonno. Il vecchio patriarca. Il vecchio saggio. Il vecchio innocuo rompiballe. Difficilmente si riesce ad immaginare per quei cari vecchietti fragili e malandati un passato in cui erano persone vigorose nel fisico, forti nel carattere. Capaci anche delle azioni più turpi e vergognose. Quanti tra noi guardando una foto di Pinochet alla fine della sua esistenza potrebbero dire che quel nonnino coi baffi è stato uno dei dittatori più feroci che il mondo abbia mai conosciuto?

Il sentimento risulta accresciuto ovviamente se a morire è un personaggio amato, un “giusto” che attraverso le sue azioni ha contribuito al progresso civile e culturale di un popolo. Dell’umanità intera. Nelson Mandela è morto alla venerabile età di 95 anni. L’ultimo gigante, l’ultimo ribelle vincente ci lascia. Sfugge la sua commemorazione sulle lacrime ciniche dei coccodrilli giornalistici preparati da chissà quanto. Scivola via nel ricordo superficiale dei tanti che ne celebrano il “pacifismo” appiattendo luci e ombre della sua immensa grandezza di uomo e rivoluzionario in uno sterile santino buonista. Politicamente corretto. Confortante. Buono per tutte le stagioni.

Nelson Mandela non era pacifista. Scelse la pace quando questa fu possibile e preferì la via della ragione e della diplomazia quando le circostanze diventarono favorevoli. Ma il raffinato avvocato difensore dei diritti civili non rifiutò l’uso delle armi né si sottrasse alla lotta armata quando venne il giorno dell’azione: Madiba si addestrò nei campi degli irregolari, diventò pratico nell’uso di armi ed esplosivi e visse da clandestino, braccato per tutto il Sudafrica dalle autorità afrikaans come pericoloso terrorista.

Cancellare il suo instancabile attivismo nell’Umkhonto we Sizwe, il braccio armato dell’ANC, dimenticare la sua partecipazione diretta alle azioni militari e ignorare che il suo fervore rivoluzionario non fu solo elegante esercizio di parola non intacca la nobiltà degli intenti né riesce a sminuirne la portata storica del suo operato. Ne disprezza semmai la statura, riducendolo a sognante icona da maglietta buona per terzomondisti da salotto e pacifisti intransigenti. Il caro vecchietto dai capelli candidi che di tanto in tanto alzava il pugno malfermo mandando in solluchero i cacciatori di simboli a buon mercato.

Mandela fu un Davide lucido e arrabbiato contro il malefico Golia della segregazione razziale e del potere. Abbracciò l’extrema ratio di un fucile. Fu abbattuto. Rinchiuso. Uscì da ventisette anni di carcere in un mondo diverso, cambiato anche grazie al suo sacrificio. E diventò lui stesso un gigante, un Golia saggio che preferì la pace, il perdono e l’armonia della convivenza quando altri avrebbero scelto la vendetta degli oppressi sugli antichi oppressori.

Con Nelson Mandela muore l’ultimo rivoluzionario dell’umanità. L’ultimo gigante. L’ultimo guerriero vittorioso di una guerra impari e disperata. Perché di Aung San Suu Kyi sono piene ancora le carceri di tutto il mondo. Perché di Bobby Sands, Jan Palach, Ken Saro-Wiwa e di tanti altri giganti senza nome sono piene le fosse, i loro volti seppelliti dalla terra di un potere maligno e irredimibile.

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