sabato 14 dicembre 2013

Chiamata alle armi

Ovvero contro il fascino dell’elitarismo antagonista

Sapevo che Facebook potesse essere uno strumento di diffusione virale, ma non immaginavo certo che uno scritto lineare e fondamentalmente di pancia come quello sui Forconi potesse avere una visibilità addirittura pandemica.

Quelle quattro righe erano state scritte per due ragioni. La prima, per aprire un possibile dialogo con i Forconi più illuminati, affinché leggessero ad alta voce quello che di fatto sanno già, vale a dire di aver contribuito con la loro indifferenza politica a questo tragico stato di cose che adesso combattono e affinché capissero, qualora non sia già accaduto, i limiti e la pericolosità di una rabbia non indirizzata. La seconda, affinché le persone a me ideologicamente affini avessero uno scatto d’orgoglio ricordando le lotte passate (presenti, ancora per qualcuno), gli amici e le amiche che formano le ceneri di quella che è stata la sinistra cosiddetta “antagonista” o “radicale”: quella che, personalmente, mi sono sempre limitato a chiamare sinistra.

Sarei ipocrita se scrivessi che tanto favore, tanti apprezzamenti e tanta condivisione d’ideali non mi abbiano fatto piacere: ma sarei altrettanto ipocrita se evitassi di scrivere che ancora una volta ci siamo battuti le mani a vicenda, noi ideologicamente affini, mancando ancora una volta l’intento che invece dovrebbe essere più importante. Quello di riuscire a parlare e a trovare un canale di dialogo con gente che la pensa in maniera diversa da noi.

Quella di fare politica.

Veramente siamo diventati rivoluzionari da social network? Veramente pensiamo che basti una condivisione, un like, una petizione online, un commento di consenso e una fratellanza di pensiero per contribuire ad un possibile cambiamento? Veramente siamo così immobilizzati dalla palude del quotidiano, incatenati alla demenza di un lavoro schiavista, pietrificati dall’apatia delle idee che abbiamo dimenticato cosa significa parlare con le persone? Veramente siamo così diversi dalla massa che protesta, davvero i nostri problemi quotidiani sono così diversi dai loro? E infine, veramente siamo così idioti da non capire che in Italia dopo il fascismo bianco dei berluscones sono già attecchiti i semi di una perversa reazione autoritaria e la gramigna di un turpe fascismo nero?

Le cose in Italia andranno sempre peggio. Perché la rabbia, la disperazione e la fame, e non ultima la mancanza di rappresentanza politica e di interlocuzione, hanno già fatto esplodere la pentola del disagio sociale. Non possiamo lasciare che il dolore di noi italiani sia intercettato e incanalato, sfruttato, strumentalizzato da gentaglia il cui solo interesse è il potere e la restaurazione di ideologie autoritarie e liberticide.

Spero di essere catastrofista. Spero di sbagliarmi. Ma in caso contrario, cosa fare? Ci ritroveremo sui social network a linkare il nostro disappunto? Ci limiteremo a ricordare di quanto avevamo ragione senza tuttavia aver mosso un dito nel presente? Lasceremo dilagare per l’Italia i fascisti da operetta (ma non per questo meno pericolosi) e i cripto-fascisti alla Grillo e Casaleggio?

Ecco perché questa vuole essere una ideale chiamata alle armi. Le armi della lotta politica, le armi della ragione. Le armi del confronto, anche fisico. Ritorniamo per le strade, non bivacchiamo nell’asettico e confortevole mondo virtuale dei social network e di internet. Ritorniamo tra la mischia, ritorniamo tra la folla, nella polvere, nel sudore, tra le urla e l’adrenalina delle masse dalle quali anche noi proveniamo.

Ecco perché questa è una chiamata alle armi. Noi arrabbiati, noi col pezzo di carta, noi senza cultura. Noi progressisti, noi radicali. Noi socialisti, noi comunisti. Noi autonomi, noi antiautoritari, noi anarchici. Noi cani sciolti senza collare né padrone.
Cari amici fricchettoni no global vegani pacifisti antiproibizionisti e chi più ne ha più ne metta: il tempo delle pagliacciate è finito. Non possiamo più permetterci i “serpentoni pacifici, chiassosi, festaioli e colorati” delle manifestazioni al suono di Bob Marley. I flash mob e i grotteschi girotondini. Le magliette del Che e i cortei scanditi da canzoni bellissime e polverose delle quali sembriamo ormai aver dimenticato il senso. Non possiamo permetterci il pacifismo intransigente e sterile e il delicato attivismo fatto con il cuore.

Non abbandoniamo il cuore in politica, certo. Ma regaliamogli la compagnia di altri organi: il fegato delle scelte, lo stomaco della fermezza e della forza interiore. E il cervello, il cervello soprattutto. Il cervello della progettualità voglio dire, capace di mediare istinto e ragione, utopia ideale e pressi politica. Il cervello che faccia capire a noi “progressisti”, a volte maledettamente affascinati dall’eleganza della parola e dal romanticismo di certe posizioni idealiste, che senza il favore popolare non si va da nessuna parte.

Ritorniamo in piazza, tra la gente alla quale anche noi apparteniamo. Avevamo ragione sulle cause di questa crisi malefica, etica, economica e politica: la situazione attuale purtroppo lo ha dimostrato, anche se avremmo tanto voluto essere in errore. E forse avevamo ragione anche sugli strumenti per contrastarla. Ma inutile girarci intorno: non siamo stati capaci di comunicarli nel modo giusto e abbiamo fallito. Ci siamo lasciati rinchiudere da ideologiche lotte intestine per il dominio del nostro grupposcolo di riferimento mentre la gente, la nostra gente, precipitava nella disperazione più nera. Noi stessi, senza accorgercene.

Incontriamoci allora. Parliamo. Progettiamo. E incontriamoli soprattutto. Progettiamo insieme con un concetto che potrà sembrarvi insolito: con la disciplina di un’idea e con una nuova, rinnovata passione che possa coinvolgere il maggior numero di persone possibili. Senza elitarismi, senza battaglie “per la società civile”: prima pensiamo a come far arrivare le famiglie alla fine del mese, poi potremo dedicarci a tutte le altre cose importantissime nelle quali ci siamo spesi e che ci hanno fatto perdere il sostegno della nostra gente.

I nemici in piazza sono poche decine: tutti gli altri sono brave persone, ciascuno con la propria intelligenza e il proprio giudizio anche se adesso ci sembrano solo degli sbandati e degli arrabbiati. Forse questo è accaduto anche perché noi non siamo stati in grado di comunicare le nostre idee, di condividerle con loro e di elaborare insieme a loro un piano di salvataggio. Perché saremo pure cani sciolti, ma in alcune circostanze è solo il branco a salvarci la vita.

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