mercoledì 20 aprile 2011

Essenza benzina o gasolina

La corsa al rialzo. Quante volte i media hanno abusato di questo trito luogo comune giornalistico per indicare la folle corsa del barile, e quante volte hanno poi dimenticato di spiegare le ragioni di un aumento senza sosta del prezzo del greggio. Gheddafi starnutisce e subito la benzina aumenta di 5 centesimi, negli Emirati Arabi manifestano per rivendicare maggiori libertà costituzionali ed ecco pronto un aumento immediato. Il prezzo del petrolio è davvero così instabile o una simile instabilità è creata ad hoc? Partiamo dalla considerazione che gli speculatori, a partire dalle Sette Sorelle (indicativo ricordare che solo due appartengono all’area mediorientale) approfittano dell’instabilità politica del Medioriente spingendo sul pedale della paura dei mercati. Il ragionamento degli speculatori è il seguente: poiché il sistema dipende dalle fonti di approvvigionamento, più diventa difficile estrarre gli idrocarburi più il loro prezzo aumenta. Questo accade nonostante ogni stato industrializzato possieda delle riserve di greggio per un minimo di tre mesi (gli Stati Uniti per almeno un anno) e nonostante l’Opec, alle prime avvisaglie di crisi, aumenti sempre la produzione di petrolio incrementando il numero di barili giornalieri estratti e riportando subito l’eventuale valore in diminuzione nella norma.


Caduta l’ipotesi di facciata più abusata il problema principale rimane: perché, nonostante tutto, il petrolio aumenta, con lui i carburanti e di riflesso un gran numero di prodotti? L’aumento del petrolio è legato solo in minima parte ai fattori contingenti, alla situazione geopolitica o all’effettivo aumento di difficoltà nelle estrazioni del greggio. Il fattore più importante risiede nella svalutazione del dollaro. Cercherò di essere chiaro. Mentre la Cina si appresta in meno di un decennio a sorpassare anche gli Stati Uniti in qualità di superpotenza economica questi ultimi stanno svalutando progressivamente il costo del dollaro per cercare di essere concorrenziali in ambito internazionale. Una simile operazione determina il timore, in tutti quei paesi che vantano crediti nei confronti degli Stati Uniti, che la svalutazione e la conseguente inflazione possa pesare sulle loro economie.


Faccio un esempio idiota, pratico ma utile a capire il meccanismo. Gli Stati Uniti hanno acquistato da me patate per mille dollari ma, siccome non riescono a far fronte al debito abbassano il costo del dollaro. In questo modo a me pagheranno sempre mille banconote da un dollaro ma la loro effettiva capacità d’acquisto sarà minore rispetto agli accordi iniziali: mettiamo, di 995 dollari. Insomma, è come se mi avessero fatto la cresta di cinque dollari barando sul prezzo e cambiando le regole in corsa. Ma io che non voglio sprecare cinque dollari in potere d’acquisto mi trovo costretto a spendere i soldi guadagnati prima che perdano di valore causa svalutazione e decido di comprare cavoli per un valore di mille dollari, aumentando la domanda di cavoli sul mercato dell'area in cui vivo. Rapportate questo esempio estremamente banalizzato alla complessità delle economie internazionali, incrociate l'aumento della domanda con l'inflazione programmata, moltiplicate per milioni di dollari ogni cosa e otterrete la risposta che cercate. L'economia internazionale, nonostante stia aprendo all’euro in maniera significativa, è ancora in dollari così come in dollari si acquistano i beni di consumo in grandi stock: ovviamente, trattandosi di Stati coinvolti non saranno patate o cavoli ma petrolio e materie prime. Aumenta la domanda, ma l'offerta può crescere fino ad un certo punto sia per ragioni di natura strutturale, sia per le speculazioni messe in atto dalle compagnie petrolifere e dai cartelli economici internazionali. Detto in soldoni: a te serve una cosa, ti serve subito e se la vuoi immediatamente la paghi quanto voglio io.


Ecco perché aumenta il prezzo del petrolio. A questi problemi economico-finanziari e speculativi, poi, nella nostra cara Italia dai mille balzelli va aggiunta la mancanza di concorrenza reale tra i grandi marchi e, soprattutto, il 65% fra accise, IVA e altre gabelle. Vale a dire che ogni 10 euro di benzina che mettete nella vostra macchinina quasi sette euro sfumano in tasse. Ed è quasi commovente ricordare tutti i balzelli aggiunti progressivamente al costo dei carburanti perché accompagnano amorevolmente la storia d'Italia da più di tre quarti di secolo. Si partì nel lontano 1935 con la prima accisa sulla benzina di 1,90 lire per finanziare la guerra di Abissinia, si continuò con quella di 14 lire per la crisi di Suez nel 1956, con quella di 10 lire per il disastro del Vajont nel 1963, con le 10 lire per far fronte all'alluvione di Firenze nel 1966, con altre 10 lire per il terremoto nel Belice nel 1968, 99 lire per il terremoto del Friuli nel 1976, 75 lire per il terremoto in Irpinia nel 1980, 205 lire per la missione in Libano (1983), 22 lire per la missione in Bosnia nel 1996. Infine, ma questa è storia recente, la penultima accisa (due centesimi) la ritroviamo nel 2003 per raggranellare i fondi necessari al rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri. L'ultima accisa è stata decisa nel febbraio 2005 per finanziare il rinnovo del parco macchine delle aziende degli autotrasporti municipalizzati. Ancora oggi, dunque, quando fate benzina pagate qualche centesimo di euro per finanziare la missione in Abissinia del 1935. Visto che in un modo o nell'altro una crisi in nord Africa c'entrava con l'aumento dei carburanti?

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