mercoledì 20 dicembre 2006

.

Eppure se mi trovassi di fronte ad un uomo o a una donna che avessero deciso di dare un senso alla propria esistenza attraverso la morte afferrerei loro la mano e cercherei di trascinarli a forza nella vita...

Nessuna coscienza potrebbe sopportare il peso del rimorso per un dolore inascoltato e una sofferenza ignorata, calpestata anzi, svillaneggiata dalla contingenza del vivere quotidiano. Ancorché i giornali definiscano il suicidio come “l’insano gesto” per eccellenza: nessun uomo o donna dotato di ragione vorrebbe privarsi volontariamente della vita. Dunque il suicida bollato come matto, spostato, individuo privato della ragione dal dolore di una vita e dall’incapacità di sopravvivere ad esso.

Quando invece il suicidio rappresenta il grido disperato di una vita che si aggrappa alla fune dell’esistenza e non ha più la forza per stringerla.


Il suicidio come amore. Per una vita mai vissuta realmente ma che si intuisce altra da quella propria, per un passato impossibile ormai da recuperare, per l’incapacità di adattarsi ad una immagine sbiadita di quella che un tempo era stata la nostra esistenza. Eppure se in una notte solitaria mi trovassi di fronte ad un suicida tenderei la mano e proverei – squilibrato io stesso – a convincerlo in una briciola di superbia di quale incredibile miracolo della natura sia la nostra vita e di come il dolore sia una parte stessa dell’universo, naturale, innegabile e implacabile, di come la morte sia il punto definitivo al libro della nostra vita e di come non varrebbe la pena lasciare ancora così tante pagine bianche davanti a noi. In modo tale che, posta sullo scaffale dei ricordi, potesse essere ancora sfogliata e così rivivere in chi ci ha voluto bene ed amato.

Eppure se mi trovassi in un letto d’ospedale senza speranza di guarigione, stretto nell'abbraccio di una sopravvivenza innaturale fatta di macchine, aghi e medicine, pezzo di carne senza più coscienza, vegetale innaffiato dalla superbia dei medici e dall’amore (egoismo?) dei familiari, vorrei probabilmente ricongiungermi con il termine naturale della mia esistenza. Staccate le macchine direi, lasciate che il mio corpo muoia del destino che ho tessuto per me stesso. Interverrebbero allora i difensori della vita tuonando dai pulpiti della loro ipocrisia e ricordando che nessun uomo ha il diritto di decidere per un altro uomo. Ricordando che nessuno – né singolo né Stato – può sostituirsi a Dio. Ricordando che nessuno può stabilire il punto del non ritorno trascorso il quale una cura muta in accanimento e la volontà del singolo è offuscata dalla disperazione. Ricordando che la vita non è solo utilità, non è solo intelligenza. Ricordando l’efferatezza di una pietà cristiana che fa del dolore un sordido e meschino strumento di salvezza.

La vita non è solo utilità, non è solo intelligenza, è vero. Ma è anche coscienza, è consapevolezza di vivere: e un coma vegetativo e irreversibile, una malattia che distrugge il cervello distrugge in te anche la consapevolezza di vivere. Non ti accorgi di stare vivendo, puoi forse provare delle emozioni ma probabilmente il tuo cervello non le registrerà mai, e in ogni caso non potrai gioirne col mondo... E’ forse vita questa? E’ penoso pensare di lasciar morire di morte innaturale un uomo, o non è forse più penoso, terribile, angosciante assistere una persona non più persona che non potrà mai più vivere la propria vita? Io non riuscirei, non reggerei pensando alla distruzione di ciò che sono stato e mai sarò ancora. Staccate la spina vorrei poter dire allora, lasciate che non aggiunga più fotocopie al libro della mia esistenza.

Eppure se il mio corpo mi avesse abbandonato in qualche beffardo gioco scritto già nei miei cromosomi e mi lasciasse solo il cervello vivo, se solo lasciasse la mia intelligenza capace di vivere ancora per se stessa, anche allora, dopo aver sopportato la disperazione di un corpo straniero e lo strazio di chi mi ama nel vedermi ridotto a larva ed ombra di me, credo che anche allora vorrei poter terminare da essere umano la mia esistenza. Staccatemi dalla vita direi dunque, lasciate che sia la lucidità di un dolore inutile a soffocare il mio immenso e disperato amore per una vita che mi ha rifiutato. Sì, è vero che nessun uomo può stabilire il limite ultimo di una sofferenza e della sua sopportazione: ma tutto nasce dalla nostra limitatezza d’uomini a cui solo la coscienza del singolo o l’arbitrio di una legge possono porre argine. Quale follia potrebbe infatti spingere un uomo a definire giusta una condanna a dieci, piuttosto che a quindici, venti o trent’anni di carcere per un uomo che abbia ucciso un altro uomo? Quanti anni vale la vita di un uomo? Quale insulso canone della sofferenza potremmo mai utilizzare se non la maledizione di una legge imposta dall’alto e decisa dalla barbarie di una collettività? La legge, male necessario per una convivenza tra uomini dotati di pensiero e raziocinio.

Eppure non so come avrei reagito se in una notte solitaria avessi incontrato Piergiorgio Welby, disperato della sua stessa vita, cosciente di aver già staccato il biglietto di sola andata per il Grande Nulla ma ancora vivo e padrone del proprio corpo. Non so come avrei reagito se Welby avesse minacciato di buttarsi da un cornicione, se avrei teso la mia mano per stringere la sua e riportarlo alla vita... Forse sì. Anzi, certamente sì. E anche adesso l’istinto di conservazione della specie, innato in ogni essere vivente, vorrebbe spingermi all’egoismo supremo, ad impedire che quelle macchine possano essere staccate, ad impedire che una mente lucida e una intelligenza viva come la sua abbandoni prima del tempo questo mondo squallido e penoso.

Eppure di fronte ad una sofferenza atroce, sofferenza della ragione, sofferenza dell’anima prima che sofferenza del corpo, di fronte all’infinito amore per la vita e all’indefinibile dolore di quest’uomo sarei un ipocrita e un meschino, un vigliacco e un mercante di parole se impedissi a Welby di compiere “l’insano gesto”, l’unico gesto possibile per conservare ancora la sua meravigliosa dignità di essere umano. Libertà va cercando, che sì cara come ben sa chi per lei vita rifiuta. Lasciate che quest’uomo viva la propria esistenza.

Lasciatelo morire, vi prego.

Nessun commento: