venerdì 27 gennaio 2006

Frantumi

(Mino Ceretti, Uomo allo specchio rotto, olio su tela 1957)

"Era già sera, e nella baracca faceva un freddo atroce. Ero disteso sul pancaccio; ci stavamo in quattro, stretti uno all’altro per scaldarci. Noi eravamo quasi i primi, vicini all’ingresso. Ci eravamo appena addormentati, quando dei passi si avvicinarono alla porta. Qualcuno la aprì, facendo entrare una folata di vento gelido. Comparve una figura. In fretta, gettò dentro due grossi fagotti. Poi la porta si richiuse. Non si capì chi aveva buttato lì da noi quei fagotti: forse un’uniforme, forse una blockowa o forse solo una delle detenute che stavano nella baracca accanto. Ora i fagotti erano per terra, appoggiati al nostro pancaccio. Sbirciai oltre il bordo, con prudenza. I fagotti si muovevano. Si vedevano due teste, due faccine bianche, enormi occhi scuri. Erano bambini piccolissimi, avevano già i denti ma non parlavano ancora. Devono dormire con noi? Qui sul pavimento? Non ho mai visto da vicino bambini così piccoli!

Riflettei. I pancacci erano pieni zeppi. Forse domani indicheranno loro un posto dove dormire, pensai, e intanto continuavo ad osservarli. Si mossero di nuovo. Tirarono fuori dagli stracci le braccine sottili, e io rimasi inorridito. Erano bianche come le loro facce, però le mani, specialmente le dita, erano nere, e non si cedevano le unghie. “Assiderati!” bisbigliò Jankl, che era accanto a me. Li toccammo, piano… Non reagivano. Si succhiavano le dita nere. Forse per scaldarle, pensai. Lo sguardo fisso dei loro occhi scuri sembrava cercare qualcosa di lontano, molto lontano. Mi svegliai con la luce.

Mi spostai sul bordo del pancaccio e guardai giù. Erano ancora lì, proprio come la sera prima, come se non si fossero mossi. Mi sporsi ancora più giù e per un momento credetti che gli occhi mi ingannassero. Tenevano entrambi le mani sulla faccia, davanti agli occhi vitrei, semichiusi… Ma no! Quelle non erano mani. Non riuscivo a collegare ciò che vedevo con nulla che conoscessi. Le mani erano nere, come la sera prima… ma le dita!… Le dita erano bianche… bianche come la neve. E non erano vere dita. Quelli che scorgevo erano dei minuscoli bastoncini bianchi, come spezzati, ognuno puntato in una diversa direzione.

Agitato, tirai Jankl per un braccio. “Che cos’è? Guarda, Jankl, le mani!” esclamai, e Jankl fissò a lungo oltre il bordo del pancaccio. “Ossa!” disse poi. “Solo ossa. Anche tu sei fatto così, dentro. Anche tu hai delle ossa, dappertutto, dove senti che c’è qualcosa di duro. Le ossa ti sostengono, e bisogna stare attenti che non si rompano”. Mi tastai il corpo, le mani, le braccia, le ginocchia. Sentii delle cose dure e, per la prima volta, riuscii a figurarmi com’erano fatte le mie ossa. Fu una sensazione quasi euforica, come di una grande scoperta. “Ma… ma allora perché quelli hanno le ossa di fuori…? Le mie sono sotto la pelle. Sono malati?” domandai, e cominciai ad avere paura. C’era qualcosa che non andava. Jankl non mi aveva detto la verità per intero. E si mordeva le labbra. “Sono malati?” ripetei.

E Jankl rispose: “Sì, e la malattia si chiama fame. Le dita congelate non fanno male, e così stanotte si sono rosicchiati le dita fino all’osso… Però adesso sono morti”. Jankl aveva parlato piano, con distacco, ma per la prima volta da quando eravamo insieme colsi della tristezza, dell’amarezza nella sua voce. Quando lo guardai, attonito, vidi che piangeva".

[B. Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia. 1939-1948, Cles (Tn), 1998]


A me non è dato aggiungere altro. Nel giorno della memoria, anniversario di quel 27 gennaio 1945, quando i cancellli di Auschwitz furono aperti, ho voluto prestar voce a chi fu bambino allora, oggi uomo senza memoria e senza passato: Binjamin Wilkomirski. Rinchiuso ancora bambino a Majdanek e in altri lager polacchi, Binjamin ha vissuto i primissimi anni della sua vita avendo come unico punto di riferimento il lager e i suoi meccanismi perversi: non ha parenti, non sa quando è nato e in quale luogo, anche il suo nome è un nome presunto. Binjamin è un uomo-non-uomo, incastrato da frantumi di ricordi terrificanti tra i pancacci di un campo di concentramento, derubato della vita, schiacciato dalle sofferenze in un limbo atemporale che ritorna a tratti come un inferno mai del tutto superato, lacerato dai frantumi della sua vita che non riesce – e non riuscirà mai – a ricongiungere…

A me non è dato aggiungere altro. Non ne ho il diritto, non ne ho le capacità: impossibile parlare dall’esterno di un dolore così atroce, di un delitto alla dignità umana così grande, impossibile anche trovare una spiegazione logica a quanto è successo. Un groppo si chiude in gola, una vertigine s’impadronisce di me, le dita si bloccano sulla tastiera ripensando a quelle dei due piccoli innocenti, ripensando al “rumore inconfondibile di crani sfondati” che tortura ancora oggi Binjamin, ripensando alle vittime di un tale abominio… A me non è dato aggiungere altro.

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