Ovvero contro il fascino dell’elitarismo antagonista
Sapevo
che Facebook potesse essere uno strumento di diffusione virale, ma non
immaginavo certo che uno scritto lineare e fondamentalmente di pancia
come quello sui Forconi potesse avere una visibilità addirittura
pandemica.
Quelle quattro righe erano state scritte per due
ragioni. La prima, per aprire un possibile dialogo con i Forconi più
illuminati, affinché leggessero ad alta voce quello che di fatto sanno
già, vale a dire di aver contribuito con la loro indifferenza politica a
questo tragico stato di cose che adesso combattono e affinché
capissero, qualora non sia già accaduto, i limiti e la pericolosità di
una rabbia non indirizzata. La seconda, affinché le persone a me
ideologicamente affini avessero uno scatto d’orgoglio ricordando le
lotte passate (presenti, ancora per qualcuno), gli amici e le amiche che
formano le ceneri di quella che è stata la sinistra cosiddetta
“antagonista” o “radicale”: quella che, personalmente, mi sono sempre
limitato a chiamare sinistra.
Sarei ipocrita se scrivessi che
tanto favore, tanti apprezzamenti e tanta condivisione d’ideali non mi
abbiano fatto piacere: ma sarei altrettanto ipocrita se evitassi di
scrivere che ancora una volta ci siamo battuti le mani a vicenda, noi
ideologicamente affini, mancando ancora una volta l’intento che invece
dovrebbe essere più importante. Quello di riuscire a parlare e a trovare
un canale di dialogo con gente che la pensa in maniera diversa da noi.
Quella di fare politica.
Veramente
siamo diventati rivoluzionari da social network? Veramente pensiamo che
basti una condivisione, un like, una petizione online, un commento di
consenso e una fratellanza di pensiero per contribuire ad un possibile
cambiamento? Veramente siamo così immobilizzati dalla palude del
quotidiano, incatenati alla demenza di un lavoro schiavista,
pietrificati dall’apatia delle idee che abbiamo dimenticato cosa
significa parlare con le persone? Veramente siamo così diversi dalla
massa che protesta, davvero i nostri problemi quotidiani sono così
diversi dai loro? E infine, veramente siamo così idioti da non capire
che in Italia dopo il fascismo bianco dei berluscones sono già
attecchiti i semi di una perversa reazione autoritaria e la gramigna di
un turpe fascismo nero?
Le cose in Italia andranno sempre peggio.
Perché la rabbia, la disperazione e la fame, e non ultima la mancanza
di rappresentanza politica e di interlocuzione, hanno già fatto
esplodere la pentola del disagio sociale. Non possiamo lasciare che il
dolore di noi italiani sia intercettato e incanalato, sfruttato,
strumentalizzato da gentaglia il cui solo interesse è il potere e la
restaurazione di ideologie autoritarie e liberticide.
Spero di
essere catastrofista. Spero di sbagliarmi. Ma in caso contrario, cosa
fare? Ci ritroveremo sui social network a linkare il nostro disappunto?
Ci limiteremo a ricordare di quanto avevamo ragione senza tuttavia aver
mosso un dito nel presente? Lasceremo dilagare per l’Italia i fascisti
da operetta (ma non per questo meno pericolosi) e i cripto-fascisti alla
Grillo e Casaleggio?
Ecco perché questa vuole essere una ideale
chiamata alle armi. Le armi della lotta politica, le armi della
ragione. Le armi del confronto, anche fisico. Ritorniamo per le strade,
non bivacchiamo nell’asettico e confortevole mondo virtuale dei social
network e di internet. Ritorniamo tra la mischia, ritorniamo tra la
folla, nella polvere, nel sudore, tra le urla e l’adrenalina delle masse
dalle quali anche noi proveniamo.
Ecco perché questa è una
chiamata alle armi. Noi arrabbiati, noi col pezzo di carta, noi senza
cultura. Noi progressisti, noi radicali. Noi socialisti, noi comunisti.
Noi autonomi, noi antiautoritari, noi anarchici. Noi cani sciolti senza
collare né padrone.
Cari amici fricchettoni no global vegani
pacifisti antiproibizionisti e chi più ne ha più ne metta: il tempo
delle pagliacciate è finito. Non possiamo più permetterci i “serpentoni
pacifici, chiassosi, festaioli e colorati” delle manifestazioni al suono
di Bob Marley. I flash mob e i grotteschi girotondini. Le magliette del
Che e i cortei scanditi da canzoni bellissime e polverose delle quali
sembriamo ormai aver dimenticato il senso. Non possiamo permetterci il
pacifismo intransigente e sterile e il delicato attivismo fatto con il
cuore.
Non abbandoniamo il cuore in politica, certo. Ma
regaliamogli la compagnia di altri organi: il fegato delle scelte, lo
stomaco della fermezza e della forza interiore. E il cervello, il
cervello soprattutto. Il cervello della progettualità voglio dire,
capace di mediare istinto e ragione, utopia ideale e pressi politica. Il
cervello che faccia capire a noi “progressisti”, a volte maledettamente
affascinati dall’eleganza della parola e dal romanticismo di certe
posizioni idealiste, che senza il favore popolare non si va da nessuna
parte.
Ritorniamo in piazza, tra la gente alla quale anche noi
apparteniamo. Avevamo ragione sulle cause di questa crisi malefica,
etica, economica e politica: la situazione attuale purtroppo lo ha
dimostrato, anche se avremmo tanto voluto essere in errore. E forse
avevamo ragione anche sugli strumenti per contrastarla. Ma inutile
girarci intorno: non siamo stati capaci di comunicarli nel modo giusto e
abbiamo fallito. Ci siamo lasciati rinchiudere da ideologiche lotte
intestine per il dominio del nostro grupposcolo di riferimento mentre la
gente, la nostra gente, precipitava nella disperazione più nera. Noi
stessi, senza accorgercene.
Incontriamoci allora. Parliamo.
Progettiamo. E incontriamoli soprattutto. Progettiamo insieme con un
concetto che potrà sembrarvi insolito: con la disciplina di
un’idea e con una nuova, rinnovata passione che possa coinvolgere il
maggior numero di persone possibili. Senza elitarismi, senza battaglie
“per la società civile”: prima pensiamo a come far arrivare le famiglie
alla fine del mese, poi potremo dedicarci a tutte le altre cose
importantissime nelle quali ci siamo spesi e che ci hanno fatto perdere
il sostegno della nostra gente.
I nemici in piazza sono poche
decine: tutti gli altri sono brave persone, ciascuno con la propria
intelligenza e il proprio giudizio anche se adesso ci sembrano solo
degli sbandati e degli arrabbiati. Forse questo è accaduto anche perché
noi non siamo stati in grado di comunicare le nostre idee, di
condividerle con loro e di elaborare insieme a loro un piano di
salvataggio. Perché saremo pure cani sciolti, ma in alcune circostanze è
solo il branco a salvarci la vita.
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