“Since then, at an uncertain hour,
that agony returns:
and till my ghastly tale is told,
this heart within me burns”.
S.T. Coleridge, The rime of the Ancient Mariner
that agony returns:
and till my ghastly tale is told,
this heart within me burns”.
S.T. Coleridge, The rime of the Ancient Mariner
Nei
mesi di marzo della mia infanzia cadeva il fiore del mandorlo dietro
casa. Coriandoli quelli, per due manine paffute che si divertivano ad
ammonticchiarne i petali e a buttarli in aria in un gioco piacevole e
ripetitivo. Coriandoli, a rassicurare che l’inverno era stato solo una
carnevalata di madre Natura che presto la primavera e l’estate avrebbero
avvicendato con le loro giornate ebbre di luce, calore e libertà. Ero
piccolo allora e poco sapevo delle persone che mi stavano accanto. I
miei giochi solitari rare volte si accompagnavano a quelli di qualche
compagno proveniente dal “paese” che tanto mi sembrava lontano e
irraggiungibile dalla mia biciclettina a rotelle, solitamente portato da
una macchina scassata e guidata in maniera approssimativa dalla madre
che subito si rinchiudeva in cucina con la mia per pontificare su
argomenti a noi ignoti e dei quali, in fin dei conti, non ci interessava
granché. Poco durava, fino a quando l’aroma del caffè nell’aria
decretava l’atto finale di quella visita di cortesia spesso legata ad
una delle famigerate “riunioni” di casalinghe che ogni individuo
cresciuto nei terribili anni Ottanta non può che ricordare con terrore.
Ero
un bambino costretto a guardare dal basso verso l’alto un mondo che non
mi apparteneva e che non capivo, che anzi spesso preferiva tornare ai
suoi voli di fantasia pur di scappare dai ganascini non richiesti e dai
bacetti estorti sulle guance di varie donnone del parentado preoccupate
che quel rifiuto per l’universo femminile potesse continuare anche in
età adulta e sfociare in abitudini niente affatto gradite alla società
di riferimento. Ero piccolo ma già abbastanza sveglio da capire che un
giorno avrei avuto certamente più gusto nella scelta di una ragazza
rispetto al misero campionario obbligato che mi si presentava davanti.
Ero un bambino circondato da persone mature diventato ben presto un puer senex
per attirare l’attenzione di chi mi stava accanto, per la gioia di
quanti mi circondavano. Dei miei genitori, per un bambino assennato
quasi come un adulto che suscitava l’ammirazione di parenti e amici (e
l’odio più che giustificato dei miei coetanei, che invece pensavano solo
ad essere bambini). Per un autocompiacimento in nuce sfociato
in narcisismo per il quale avrei impiegato anni prima di riuscire a
comprenderne la pericolosità, prima di essere in grado di
ridimensionarlo e demolirlo.
Eppure a volte, quando il
sonno tarda ad arrivare in un letto che diventa il peggior incubo di
ogni insonne, ripenso a quel mondo distante e ingenuo con un senso di
rimpianto. Non tanto per essere stato un bambino a metà che la mia
infanzia, nonostante quanto ho scritto, è stata felice. Per un rimpianto
che prende forma con i ricordi più labili e forse per questo più
dolenti. Re- cor-, richiamare al cuore. Ricordo, tornare a
sfiorare con le dita del sentimento i fogli della memoria conservati
sugli scaffali del nostro vissuto per rivivere quelle emozioni ancora
una volta, una volta ancora, seppure offuscate dallo schermo del tempo.
Il rimpianto è solo uno: non aver potuto conoscere da adulto qual sono
alcune persone che rappresentano un velo appena, lievissimo ormai, che
si sovrappone a pagine ben più robuste della mia storia. Non solo il
bisnonno e i nonni che ho conosciuto e perso, com’è ovvio, dai quali
adesso vorrei apprendere le loro storie semplici di sapienza contadina e
paesana fatte di onesta quotidianità, fave e lavoro che nobilita e
redime. Avrei voluto comprendere la vita della prozia Pippina, una simpatica zitella della quale ricordo appena il mastodontico tuppo,
un’andatura affaticata dal peso e un baffo non indifferente. Ah, e le
caramelle Cinzia che non mancava mai di offrirmi a manciate e che io, da
bambino giudizioso qual ero, non mancavo mai di rifiutare. Non ho più
alcuna immagine della signora Elvira, che pure ricordo buona e dolce né
riesco ad attribuire alcuna sembianza al nostro vicino don Turiddu,
se non un baffo e un bastone da instancabile camminatore e a sua
moglie, che ricordo di cuore e con un groviglio di capelli bianchi sulla
testa. Anche Carmelo avrei voluto conoscere, che una curva sbagliata e
l’incoscienza da diciottenne ha portato via. E quanto avrei parlato
adesso – magari anche litigato furiosamente –, con l’avvocato Beniamino
Scucces, fascistissimo principe del foro di Modica e nostro vicino di
casa estivo, il primo estraneo a regalarmi dei libri! Di lui ricordo una
forma pingue e dei capelli grigi brillantinati alla vecchia maniera, un
eloquio forte e sanguigno e una golosità immane. Nient’altro.
Probabilmente una camicia allacciata in maniera creativa, con i bottoni
che non entravano per forza nell’asola corrispondente. Ma più di tutti
vorrei aver conosciuto quello che nella mia immaginazione di bimbo avevo
chiamato "l’ultimo don Chisciotte". ‘Nulu Vicari. Avevo visto il film di Franco e Ciccio dedicato al valoroso hidalgo
di Cervantes e avevo deciso che quell’uomo dai baffoni a manubrio che
passava cavalcando anacronisticamente la sua mula macilenta sarebbe
stato un degno rappresentante siculo di quel personaggio. Almeno fino a
quando un’auto troppo veloce non aveva spedito all’altro mondo lui e la
sua fedele, forse unica amica. Tanti erano gli episodi bizzarri che si
narravano a mezza voce su di lui e forte la stravaganza che trapelava
dalla sua vita solitaria che conduceva in una casupola isolata di Cava
Ispica. Avrei voluto conoscere la storia di quell’uomo dallo sguardo di
ghiaccio eppure benevolo con me, forse non troppo preciso di testa ma
certamente interessante, e probabilmente adesso avrei potuto capire
quanto di vero ci fosse nelle vicende incredibili filtrate dalla
mentalità talora limitata di chi mi stava intorno.
Questo
mi manca davvero. Poter dare corpo e sostanza a tanti fantasmi
impalpabili. Poter ridare loro una voce. Una parola. Restituirne un
gesto, un volto. Una movenza. E la sera, quando il sonno tarda ad
arrivare, accade che talora passi in rassegna ciascuna di queste ombre
sforzandomi per ciascuna di tirare dal fondo un ricordo verso la
superficie del presente. Non sempre affiora. Anzi, quasi mai. Ma quando
accade quale piccola malinconica gioia… Come se quelle ombre fossero
ancora tra noi, a condividere le loro vite e i loro racconti. E il sonno
arriva allora, inatteso e ristoratore, consapevole di aver prolungato
seppure di poco quelle esistenze su questa terra. E ciao nonno allora. Ciao Carmelo. Buonasera avvocato. Sa benerica don ‘Nzulu… Sa benerica.
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