lunedì 25 marzo 2013

L'ultimo don Chisciotte


“Since then, at an uncertain hour,
that agony returns:
and till my ghastly tale is told,
this heart within me burns”.
S.T. Coleridge, The rime of the Ancient Mariner


Nei mesi di marzo della mia infanzia cadeva il fiore del mandorlo dietro casa. Coriandoli quelli, per due manine paffute che si divertivano ad ammonticchiarne i petali e a buttarli in aria in un gioco piacevole e ripetitivo. Coriandoli, a rassicurare che l’inverno era stato solo una carnevalata di madre Natura che presto la primavera e l’estate avrebbero avvicendato con le loro giornate ebbre di luce, calore e libertà. Ero piccolo allora e poco sapevo delle persone che mi stavano accanto. I miei giochi solitari rare volte si accompagnavano a quelli di qualche compagno proveniente dal “paese” che tanto mi sembrava lontano e irraggiungibile dalla mia biciclettina a rotelle, solitamente portato da una macchina scassata e guidata in maniera approssimativa dalla madre che subito si rinchiudeva in cucina con la mia per pontificare su argomenti a noi ignoti e dei quali, in fin dei conti, non ci interessava granché. Poco durava, fino a quando l’aroma del caffè nell’aria decretava l’atto finale di quella visita di cortesia spesso legata ad una delle famigerate “riunioni” di casalinghe che ogni individuo cresciuto nei terribili anni Ottanta non può che ricordare con terrore.

Ero un bambino costretto a guardare dal basso verso l’alto un mondo che non mi apparteneva e che non capivo, che anzi spesso preferiva tornare ai suoi voli di fantasia pur di scappare dai ganascini non richiesti e dai bacetti estorti sulle guance di varie donnone del parentado preoccupate che quel rifiuto per l’universo femminile potesse continuare anche in età adulta e sfociare in abitudini niente affatto gradite alla società di riferimento. Ero piccolo ma già abbastanza sveglio da capire che un giorno avrei avuto certamente più gusto nella scelta di una ragazza rispetto al misero campionario obbligato che mi si presentava davanti. Ero un bambino circondato da persone mature diventato ben presto un puer senex per attirare l’attenzione di chi mi stava accanto, per la gioia di quanti mi circondavano. Dei miei genitori, per un bambino assennato quasi come un adulto che suscitava l’ammirazione di parenti e amici (e l’odio più che giustificato dei miei coetanei, che invece pensavano solo ad essere bambini). Per un autocompiacimento in nuce sfociato in narcisismo per il quale avrei impiegato anni prima di riuscire a comprenderne la pericolosità, prima di essere in grado di ridimensionarlo e demolirlo.  

Eppure a volte, quando il sonno tarda ad arrivare in un letto che diventa il peggior incubo di ogni insonne, ripenso a quel mondo distante e ingenuo con un senso di rimpianto. Non tanto per essere stato un bambino a metà che la mia infanzia, nonostante quanto ho scritto, è stata felice. Per un rimpianto che prende forma con i ricordi più labili e forse per questo più dolenti. Re- cor-, richiamare al cuore. Ricordo, tornare a sfiorare con le dita del sentimento i fogli della memoria conservati sugli scaffali del nostro vissuto per rivivere quelle emozioni ancora una volta, una volta ancora, seppure offuscate dallo schermo del tempo. Il rimpianto è solo uno: non aver potuto conoscere da adulto qual sono alcune persone che rappresentano un velo appena, lievissimo ormai, che si sovrappone a pagine ben più robuste della mia storia. Non solo il bisnonno e i nonni che ho conosciuto e perso, com’è ovvio, dai quali adesso vorrei apprendere le loro storie semplici di sapienza contadina e paesana fatte di onesta quotidianità, fave e lavoro che nobilita e redime. Avrei voluto comprendere la vita della prozia Pippina, una simpatica zitella della quale ricordo appena il mastodontico tuppo, un’andatura affaticata dal peso e un baffo non indifferente. Ah, e le caramelle Cinzia che non mancava mai di offrirmi a manciate e che io, da bambino giudizioso qual ero, non mancavo mai di rifiutare. Non ho più alcuna immagine della signora Elvira, che pure ricordo buona e dolce né riesco ad attribuire alcuna sembianza al nostro vicino don Turiddu, se non un baffo e un bastone da instancabile camminatore e a sua moglie, che ricordo di cuore e con un groviglio di capelli bianchi sulla testa. Anche Carmelo avrei voluto conoscere, che una curva sbagliata e l’incoscienza da diciottenne ha portato via. E quanto avrei parlato adesso – magari anche litigato furiosamente –, con l’avvocato Beniamino Scucces, fascistissimo principe del foro di Modica e nostro vicino di casa estivo, il primo estraneo a regalarmi dei libri! Di lui ricordo una forma pingue e dei capelli grigi brillantinati alla vecchia maniera, un eloquio forte e sanguigno e una golosità immane. Nient’altro. Probabilmente una camicia allacciata in maniera creativa, con i bottoni che non entravano per forza nell’asola corrispondente. Ma più di tutti vorrei aver conosciuto quello che nella mia immaginazione di bimbo avevo chiamato "l’ultimo don Chisciotte". ‘Nulu Vicari. Avevo visto il film di Franco e Ciccio dedicato al valoroso hidalgo di Cervantes e avevo deciso che quell’uomo dai baffoni a manubrio che passava cavalcando anacronisticamente la sua mula macilenta sarebbe stato un degno rappresentante siculo di quel personaggio. Almeno fino a quando un’auto troppo veloce non aveva spedito all’altro mondo lui e la sua fedele, forse unica amica. Tanti erano gli episodi bizzarri che si narravano a mezza voce su di lui e forte la stravaganza che trapelava dalla sua vita solitaria che conduceva in una casupola isolata di Cava Ispica. Avrei voluto conoscere la storia di quell’uomo dallo sguardo di ghiaccio eppure benevolo con me, forse non troppo preciso di testa ma certamente interessante, e probabilmente adesso avrei potuto capire quanto di vero ci fosse nelle vicende incredibili filtrate dalla mentalità talora limitata di chi mi stava intorno.

Questo mi manca davvero. Poter dare corpo e sostanza a tanti fantasmi impalpabili. Poter ridare loro una voce. Una parola. Restituirne un gesto, un volto. Una movenza. E la sera, quando il sonno tarda ad arrivare, accade che talora passi in rassegna ciascuna di queste ombre sforzandomi per ciascuna di tirare dal fondo un ricordo verso la superficie del presente. Non sempre affiora. Anzi, quasi mai. Ma quando accade quale piccola malinconica gioia… Come se quelle ombre fossero ancora tra noi, a condividere le loro vite e i loro racconti. E il sonno arriva allora, inatteso e ristoratore, consapevole di aver prolungato seppure di poco quelle esistenze su questa terra. E ciao nonno allora. Ciao Carmelo. Buonasera avvocato. Sa benerica don ‘NzuluSa benerica.

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