giovedì 14 settembre 2006

Granaglie di storia - prima parte

Inevitabilmente, prologo

Al pari di un sommelier astemio fino allo scorso anno. Pur avendo assorbito in anni ed anni di studio cultura classica, archeologie perse e disperse particole di tempo, mi trovavo nella spiacevole condizione di chi, non avendo alcuna nozione pratica, annaspava tra le astrazioni di una teoria da applicare bellamente a situazioni ideali seduto dietro una scrivania. Amo la condizione di topo da biblioteca, lo ammetto. Trascorrerei una buona parte della mia esistenza tra volumi ammuffiti e testimonianze da comprendere, montagne di carte e voci del passato. Ma non è questa archeologia. O meglio, non solo. Così lo scorso anno, convinto dopo molti tentennamenti da Rosaria, una cara amica, avevo vinto la mia naturale indolenza e, preparata la valigia, avevo deciso di dare il mio contributo alla campagna di scavi di Giano dell’Umbria condotta dalla cooperativa Kronos in collaborazione con la Sovrintendenza dell’Umbria.

Quest’anno sono tornato. Mea sponte. Per due settimane. E questo post, pensato all’inizio come un diario e poi trasformatosi (per la fortuna di chi legge) in narrazione sbocconcellata, racconterà di luoghi, persone ed episodi incrociati durante le mie due settimane umbre: eppure parlerò poco e niente dello scavo in sé. In primo luogo perché ignoro se esistano vincoli legali alla divulgazione di certe notizie e nel dubbio preferisco tacere. In secondo luogo perché di articoli e informative sullo scavo ne ha prodotte a sufficienza, e con maggiore rigore scientifico nonché conoscenza del sito, la Kronos. Infine perché lo spirito picaro che riesco a trattenere a stento e a soffocare solo con grande sforzo – che altrimenti mi perderei per il mondo scordandomi d’ogni cosa -, lo spirito zingaro che mi accompagna fin da quando ho coscienza trae linfa da incontri e viaggi simili e non si spegne, covando sotto la cenere di una vita “normale”. Basta soffiare un po’ e l’incendio divampa nuovamente… Tenetemi lontano dal vento.

Sì, viaggiare
Domenica 20 agosto. Il telefonino mi desta con le note di Nothing else matters, suoneria che ho scelto per il mio risveglio – l’ottimismo è il profumo della vita, no? Sono le sei e trenta, e nonostante mi sia addormentato intorno alle cinque mi sento rilassato e pronto per un massacrante viaggio di dodici ore su una qualunque feccia del Sud che da Catania centrale mi trasporterà sino a Roma Termini e da Roma, una volta scambiata la Feccia con un regionale qualsiasi mi trascinerà fino alla stazione di Terni, luogo ameno in cui attenderanno il nostro arrivo gli amici archeologi che ci condurranno ai nostri alloggi. Doccia, vestizione, colazione, denti, controllo bagaglio. Ancora le sette e venti e sono già pronto. Decido di trascinarmi con calma fino alla fermata dell’autobus (la metro di domenica è chiusa, sono troppo tirchio per un taxi e 80 cent sono di certo un prezzo imbattibile per una corsa alla stazione): tanto è domenica, potrei aspettare anche un’ora prima che passi l’autobus giusto. Sedici secondi più tardi prendo posto sul 429, autobus che mi lascerà direttamente davanti all’ingresso della stazione Fs… Sono le sette e trentacinque. Il treno parte alle nove e dieci. Murphy non sbaglia mai.

Mi siedo in sala d’aspetto appoggiandomi al mega trolley che potrebbe ragionevolmente contenere un cadavere e attendo. Noto, dapprima con noncuranza, poi con una certa inquietudine, che si forma un insolito vuoto sanitario intorno a me: la gente preferisce rimanere in piedi piuttosto che sedersi vicino. Eppure non ho armi addosso. La doccia credo di averla fatta. Nessuna tigre del Bengala al guinzaglio o squalo bianco nella vaschetta per i pesci… Poi capisco. Capisco quando mi siedono di fronte due signori mediorientali che mi sorridono, riconoscibili perché vestiti alla maniera tradizionale con tanto di coppoletta ricamata e taffetano. Sebbene i miei vestiti e il colore della pelle tradiscano un’origine decisamente occidentale, il mio aspetto – barbone mesopotamico e capelli lunghi –, cappello calato sugli occhi nonché una valigia di proporzioni insolite devono aver messo in agitazione più di un passeggero apprensivo che deve aver pensato al peggio. Probabilmente i due arabi avranno invece pensato di sedersi nei pressi di un connazionale, magari nei pressi di qualcuno integrato che abbia imparato a parlare l’italiano e che possa essere una fonte d’aiuto per discernere le informazioni, talora criptiche anche per noi autoctoni, che TrenItalia si ostina a fornire dai tabelloni. E’ già capitato che degli arabi mi chiedessero informazioni. Chiaramente in arabo.

E mentre già mi preparavo ad osservare la delusione nei loro occhi una volta detto che ignoravo quella lingua melodiosa sento una voce in lontananza recitare versi strampalati. Mi volto ed osservo una figura fin troppo nota con in mano altrettanto noti librettini artigianali. Lui. Oddio no. Cerco disperatamente di sembrare impegnato ma lui, con astuta mossa da faina intuisce le mie intenzioni e mi precede. Lui, il poeta di strada. Ignoro il suo nome, e se anche lo avessi saputo avrei avuto più di un motivo per dimenticarlo. E’ un ragazzo questo che si aggira spesse volte tra la fauna delle stazioni catanesi, siano esse Fs, siano esse Ast, Etna et similia. Va in giro con aria ilare recitando stralci delle sue poesie con in mano dei famigerati libretti di propria fattura – fotocopie tagliate alla bell’e meglio e poi pinzate – nelle speranza che qualche folle o insofferente o disperato compri i parti della sua mente. “Ce la fai, un contributo per un cappuccino?” è la sua domanda ricorrente. Qualche anno fa feci il tremendo errore di comprare uno di questi libretti e di chiacchierare qualche minuto con lui: da allora, nonostante il mio aspetto sia cambiato da Peter Griffin a Bin Laden (peso a parte) mi riconosce da lontano e dopo avermi placcato mi propone quella che a suo dire sarebbe “la nuova edizione”, quella definitiva delle sue poesie. Il problema – grosso problema – è che le poesie sono sempre, disperatamente le stesse. E pur non essendo un critico letterario non posso fare a meno di notare come il livello delle sue composizioni non sia altissimo. Anzi… “Buongiorno! Allora è il destino che ci fa incontrare! E’ tempo di poesia! Ti propongo questo… Questo non l’hai ancora comprato: è l’ultima edizione delle mie poesie… Ce la fai, un contributo per un cappuccino?”. Mentre immagino una daga conficcata tra le sue costole cerco invano di schiodarlo dalle mie. Inutile. Apre il libretto e piazza a qualche molecola di distanza dai miei occhi una delle sue poesie pregandomi di leggerla e di dare un giudizio. Non potendo confidare su alcun deus ex machina – tipo fulmini o combustione spontanea – decido allora di coinvolgere nella discussione una signora che siede dietro di me in modo tale da appiopparlo a lei. L’operazione dà i frutti sperati: la signora si interessa alle poesie, comincia a fare domande, compra il libretto… Esecuzione sospesa. Per fortuna vedo da lontano arrivare Maria Francesca, una delle due colleghe con cui dividerò la prima settimana di scavo e mi disinteresso a lui. Ma so che tornerà. Prima o poi, ineluttabile come una piaga d’Egitto.

Raggiungo Maria Francesca e la saluto. Carina, solare, longilinea, è una ragazza dai modi gentili e dai gesti delicati. Di lei ignoro praticamente ogni cosa: quel poco che so si riduce alla nostra conoscenza avvenuta durante i corsi in facoltà e alle chiacchiericcio vacuo che talora abbiamo intrattenuto. Ma non puoi conoscere una persona in questo modo, conoscerla sul serio voglio dire. L’amicizia, come fosse sabbia che si compatta in arenaria, ha bisogno di tempo perché possa diventare solida. Gli amici devono potersi conoscere per quelli che sono realmente, discutere, odiarsi, volersi bene, hanno bisogno di tempo e di occasioni perché i pezzi d’antologia lascino posto alla quotidianità, perché l’uno possa avere fiducia dell’altro e si possa così percorrere il sentiero che porta ad un’amicizia vera e non di facciata… Tanti conoscenti, pochi amici.

Arriva il treno, saliamo. Stranamente pulito per essere la seconda classe di un treno a lunga percorrenza: ha pure l’aria condizionata funzionante! Comodità sibaritiche. Ci rilassiamo in uno scompartimento occupato da una coppia di ragazzi. Il paesaggio scorrerebbe silenzioso se io e Francy non lo inondassimo di parole. Entrambi chiacchieroni – forse anche una comune sindrome da horror vacui, ma tant’è – trascorriamo piacevolmente il tempo che ci separa da Messina, luogo in cui dovremo cambiare vagone per viaggiare insieme alla nostra terza compagna di viaggio, Santina. A Messina ci spostiamo sull’altro vagone ed entriamo nel nostro scompartimento: l’aria condizionata è un ricordo dolente, gli altri posti sono già occupati da umanità varia. Dieci ore di viaggio in compagnia di una signora logorroica ed impicciona che si offre di prestarmi il ventaglio per ovviare al caldo che avverto per tutta la prima ora di viaggio – avete presente quelle persone “Hai un problema e te lo faccio notare con cattiveria?” – e di due ragazzi VFB, acronimo che nel gergo militaresco indica un disoccupato col fucile. Dieci ore, dieci… Grande Murphy.

Siamo la ciurma anemica di una galera infame

A Terni ci aspetta Massimo detto il Conte, uno dei tre archeologi che ci seguirà durante questi giorni di scavo. Autonominatosi tale per regalità d’albero ma anche per attitudini, esigenze ed abitudini non certo plebee, è in realtà un ragazzo simpatico e alla mano che si adatta a qualunque circostanza: se pure figlio di papà è stato, ha smesso per tempo di gingillarsi coi soldi del paparino sporcandosi le mani e lavorando duro per raggiungere la sua attuale posizione. Scendiamo stravolti dal regionale, salutiamo il Conte Max e ci dirigiamo verso la sua auto. Siamo in quattro e il volume dei nostri bagagli eguaglia degnamente quelli di un piccolo monolocale. Sistemati i bagagli secondo criteri d’ingegneria a me sconosciuti ci dirigiamo verso la metropoli in cui abiteremo nei prossimi giorni. Osservo per un attimo le mie due compagne di viaggio. Durante il viaggio ho capito che Maria Francesca è persona interessante, una persona che vorrei conoscere meglio durante questa comune esperienza. Diverso il discorso con Santina. Quando ci si conosce da sette anni, quando si percorre insieme un cammino di studio, quando le velleità artistiche di ognuno trovano un punto di contatto, quando si condividono gioie e dispiaceri, follie e cazzeggi, crisi esistenziali (mie) e problemi di cuore (a ciascuno il suo), quando la presenza l’uno dell’altro finisce con l’essere talmente scontata da diventare fraterna, quando basta uno sguardo per intendersi allora puoi a buon diritto considerarla un’amica preziosa e una fortuna l’averla conosciuta.

Arriviamo a Montecchio, la metropoli, mentre impazza l’evento culturale dell’anno, La sagra degli gnocchi. Montecchio, minuscola frazione di Giano dell’Umbria, si riduce a sessantacinque anime e qualche dannato, una bottega, un bar, un paio di cani e una mezza dozzina di galline. Le ricariche telefoniche – così come certe pile - alla bottega vanno prenotate, il bar sconosce il caffé freddo, il medico condotto visita due volte al mese… Dovrò trascorrere in questo luogo due settimane. Scendiamo dall’auto del Conte Max e subito Stefano ed Ilaria – gli altri due archeologi della cooperativa - ci accolgono con calore, fingendo di ignorare lo stato miserevole in cui versa la mia persona. Nella minuscola saletta da pranzo della casa in cui abiteremo facciamo conoscenza con gli altri due ragazzi che parteciperanno allo scavo: Alberto, un ragazzo di un paesino della provincia di Novara ed Adriana, una ragazza pugliese che di primo acchito non mi ha ispirato granché. Per fortuna mi sbagliavo: nei giorni successivi Adriana si rivelerà una ragazza simpatica con la quale trascorreremo delle piacevoli giornate.

Dopo le presentazioni di rito saliamo i gradini della scala in legno che conduce alle nostre camere: troppi scricchiolii… Il mio terrore nei giorni seguenti.

No geli no scotti più mano
Raggiungiamo le stanze. Al posto della camerata unica che tanto aveva terrorizzato Rosaria lo scorso anno abbiamo trovato una sistemazione meno militaresca. Le ragazze dormiranno in una camera mentre io dividerò l’altra nonché il letto a castello con Alberto, al quale consiglio di prendere il posto superiore paventandogli parallelismi tra realtà e finzione, una scena di Così è la vita: “Crapanzano, avrò dormito un’ora in due anni!” dove Crapanzano sarei stato io… Disinnesco il trolley-monolocale, sistemo un po’ di vestiti e faccio il letto sperando di poterlo occupare quanto prima. Decidiamo di cenare – vista l’ora – con quanto rimasto del viaggio… e qui bisogna aprire una parentesi.

Curiosa abitudine del meridionale medio che si appresta a viaggiare in treno è quella di cucinare, trasportare seco e consumare piatti particolarmente indigesti che terranno occupato lo stomaco per le settimane successive al viaggio. Forse ricordo di trazzere sfiancanti a dorso di mulo dove unici compagni erano la luna e lo scacciapensieri – perdonate l’idillio naif –, o forse una più prosaica conoscenza della rete ferroviaria del Sud in cui il tempo di percorrenza si avvicina alle ere geologiche e il viaggio viene visto come migrazione, transumanza di genti se vogliamo, piuttosto che come spostamento veloce tra due punti della penisola. Fatto è che sul treno il meridionale-tipo si riconosce dalle borse termiche che eruttano vivande e vettovagliamento vario. Se i tempi della tovaglia apparecchiata e del fiaschetto con il vino sono ormai relegati alla soffitta dei ricordi non è infrequente vedere ancora oggi mogli o madri premurose tirare fuori dalla suddetta borsa porta-pranzo spaziali ricolmi di cibo, contenitori testati in qualche galleria del vento frutto di una delle famigerate riunioni per casalinghe tanto frequenti dalle nostre parti – traumi d’infanzia che non è facile rimuovere. Il panino con affettato così come biscotti, merendine o frutta sono un peccatucci veniali che non rientrano in questa untuosa disamina: parlo invece di frittate, polpette, pane e panelle, l’immancabile panino con la cotoletta o con la parmigiana di melanzane, la pizza o l’arancino (dalle mie parti non mancano le scacce) e giunge notizia che qualche coraggioso abbia addirittura osato la pasta al forno… Si sprecano poi le bibite: rigorosamente in lattina, in modo tale da dover sorbire l’intero contenuto in breve tempo, o i thermos contenenti ettolitri di caffé. Per ogni pietanza quantità bastanti a sfamare un reggimento in rotta. Perché il senso dell’ospitalità è sacro in ogni meridionale sin dalla notte dei tempi e sarebbe veramente scortese che l’intero scompartimento non benefici del cibo che ciascuno ha portato con sé…

Oddio, come sono arrivato a questo punto? Ah, la nostra cena. Consumiamo ciò che rimane del pranzo che la madre di Santina ha preparato per la figlioletta. Panini con la parmigiana di melanzane. Chiaramente.

Solo la doccia ormai mi separa dal letto. Quando arriva il mio turno entro con qualche apprensione in bagno ricordandomi della maledizione della doccia che sembra incombere su questo scavo: l’anno scorso uno scaldacqua elettrico che permetteva un uso a dir poco limitato dell’acqua calda, quest’anno un efficiente impianto a gas ma con tubature di misteriosa fattura. L’acqua è di regola gelida. O si aspettano anche dieci minuti lasciando scorrere – e quindi sprecando – una considerevole quantità d’acqua, o si apre il rubinetto del lavabo attendendo l’arrivo dell’acqua calda per poi richiuderlo non appena sia arrivata, o si urla agli altri di aprire il rubinetto del lavandino della cucina al piano inferiore seguendo la procedura di cui sopra. Gradita laurea in ingegneria. Apro il rubinetto della doccia… Fredda. Tento con il rubinetto del lavabo sperando in una sortita positiva – invano – per poi urlare agli altri occupanti della casa di aprire il rubinetto della cucina. Attendo, spero, impreco. Dopo qualche minuto d’attesa realizzo che la mia prima doccia umbra sarà d’acqua gelida…

Il giorno successivo comincerà il nostro turno di scavo: anche una doccia artica acquista valore pur di toccare con mano il grande vortice della Storia.

Forse.

[1. continua]

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