Tragica consuetudine dell’umana sorte vuole che un popolo per passare
alla storia debba talora attraversare anche la geografia.
Preferibilmente con un esercito capace di piegare e umiliare il nemico.
Di sottometterlo alla propria supremazia. Sterminarlo magari, se proprio
l’avversario non dovesse avere la buona creanza di crepare per cause
autonome.
La storia dell’umanità fa bella mostra di
stermini, appuntati sul petto del passato come tante medaglie dalle
mostrine rapprese di sangue. L’ecatombe delle popolazioni amerindie per
mano dei cattolicissimi conquistatori e il massacro silenzioso dei
nativi americani. Milioni di morti nelle trincee delle guerre mondiali
per la ridicola conquista di un palmo di terra. Il genocidio armeno
negato per troppo tempo dalla Storia e la tragedia immane della Shoah.
Le atroci dittature sudamericane, la carneficina iugoslava e la
raccapricciante macelleria del Ruanda. Tutti esempi, questi, di come la
crudeltà dell’uomo possa raggiungere vette di agghiacciante perfezione
scientifica: l’uomo, bestia tra le più sciocche e crudeli mai apparse
sulla faccia della Terra.
Un altro genocidio si sta
consumando in questi giorni. Negato anch’esso dalle ragion di Stato,
spacciato follemente per operazione di polizia (pulizia etnica
piuttosto) e ristabilimento dell’ordine. Protetto dal silenzio
disgustoso delle cosiddette democrazie occidentali, appoggiato,
incoraggiato e finanziato dalla prima potenza mondiale. In questi giorni
un intero popolo rischia seriamente di scomparire, sterminato dalla
superiorità militare e politica di un altro popolo che sembra aver
dimenticato del tutto la propria storia. Quella Storia maestra di vita e
monito che difetta di allievi capaci di imparare dagli errori del
passato. Allievi smemorati e avidi, letali discendenti di quel popolo
trucidato a milioni dai nazifascisti e che adesso sembra esercitare
quasi una insensata volontà di rivalsa e di riscatto recitando la parte
del carnefice. Oggi come allora, masse di persone incolpevoli stanno
pagando per l’irrazionalità e il fanatismo di pochi.
Chissà
se la Storia, quella con la maiuscola, chiamerà un giorno col termine
più appropriato ciò che il governo israeliano sta facendo al popolo
palestinese. Chissà quanto tempo ancora dovremo aspettare prima di poter
leggere la verità su quanto sta accadendo.
GENOCIDIO.
Non
esistono altre parole per definire il dramma che il popolo palestinese
vive quotidianamente. Non un sinonimo, non un eufemismo. Non si può
definire altrimenti questo spietato processo di segregazione razziale e
di pulizia etnica attuato dal fondamentalismo dello Stato israeliano.
Fine ultimo, evidente, l’eliminazione del popolo palestinese dalla
propria terra. Forse finanche dalla Terra stessa. Un pogrom allo
specchio. Una diaspora riflessa.
Si tratta di un processo
scientifico affinato negli anni e condotto con la prepotenza di chi è
consapevole dell’impunità derivante dal disinteresse interessato delle
cosiddette democrazie occidentali. I territori occupati usati come teste
di ponte in un territorio a loro estraneo, la fittissima rete di
infrastrutture che collega le colonie e l’infamia del Muro che frammenta
l’unità territoriale delle popolazioni arabe e impedisce, di fatto, la
formazione di uno Stato palestinese. Impedisce uno straccio di vita che
possa considerarsi normale: perché non è vita quella che ti costringe ad
essere continuamente fermato, perquisito, vessato, umiliato, arrestato e
detenuto in condizioni spaventose da ragazzini con il fucile spianato e
la kippah sotto il casco, non è vita quella che ti costringe a scappare
dalle bombe di un popolo ostile, a dover contare ogni volta quante
persone sono sopravvissute intorno a te e a seppellire gli altri.
Uomini, donne, vecchi e bambini. Tanti bambini. Non è vita se qualcuno
vuole cacciarti dalla casa che hai costruito, rubare l’acqua dei tuoi
pozzi e i pesci del tuo mare, strapparti la terra che la tua famiglia ha
coltivato in nome di un libro “sacro” scritto migliaia d’anni prima da
qualche pecoraio che millantava di essere stato ispirato da Dio.
Israele
ha diritto a difendersi dal terrorismo, nessuno dotato di buonsenso
potrebbe negarglielo. Ma più di ottocento morti palestinesi, migliaia di
feriti e centinaia di migliaia di sfollati descrivono una rappresaglia
degna della più vile barbarie, una spropositata legge del taglione
applicata per l’assassinio altrettanto vile di tre ragazzi israeliani.
Né può valere come giustificazione il fatto che gli israeliani avvisano
con cariche di avvertimento prima di bombardare un luogo (il grottesco
roof knocking) perché si tratta della storia dell’animale in gabbia:
dove scappare se tutto intorno è filo spinato, check point, recinzioni
e muri? Ed è altrettanto grottesco leggere le dichiarazioni degli
israeliani che giustificano le centinaia di vittime tra i palestinesi
con il pretesto di Hamas che usa le persone come scudi umani per
proteggere le armi. Fingendo di ignorare che è impossibile paragonare i
due attori di questa tragica farsa.
Da una parte
l’esercito più potente al mondo e uno di quelli tecnologicamente più
avanzati, espressione e braccio armato di uno Stato “tradizionale”
legittimato dalla comunità internazionale, con un comando militare che
dispone di una precisa gerarchia, l’esercito nelle caserme, le bombe
negli arsenali sorvegliati e corazzati. Dall’altra parte un popolo in
guerriglia permanente senza Stato né esercito che per forza di cose nasconde
le proprie armi da un nemico cento volte più potente: è normale che
tali ricoveri di armamenti, in un luogo densamente popolato qual è la
“riserva indiana” di Gaza, siano spesso a strettissimo contatto con la
popolazione. Certo non saranno le armi da war games che impiega Israele capaci di devastare interi territori, epperò i razzetti Qassam qualora arrivino a
destinazione possono comuque uccidere o fare dei danni. Limitati dal
ridicolo potenziale ma pur sempre danni, non sono certo fatti con il
pongo. Se Israele volesse soltanto eliminare queste “terribili minacce”
alla propria sicurezza troverebbe certo il modo limitando davvero le
vittime tra la popolazione della Striscia di Gaza. Ma, evidentemente, lo
scopo è un altro.
Come condannare l’estremismo sionista
di Israele non significa esprimere sentimenti antisemiti allo stesso
modo difendere le ragioni dei palestinesi non significa parteggiare per
Hamas e per i gruppi politici massimalisti tutt’oggi al potere nei
territori palestinesi. Hamas ha perso la propria credibilità quando ha
abbandonato le istanze laiche, socialiste e progressiste del passato in
favore di un anacronistico integralismo jihadista che vuole sostituire
al giogo della schiavitù israeliana la cappa altrettanto fatale
dell’oscurantismo islamico più becero. L’unica chiesa che illumina è
quella che brucia istruiva Kropotkin: ecco perché i palestinesi, qualora
riusciranno a liberarsi dall’oppressione israeliana, dovranno
respingere e rifiutare una pericolosa deriva teocratica che nulla di
buono porterebbe a questo martoriato territorio.
In un
momento così angosciante e drammatico per la storia del mondo ci
chiedono dunque di scegliere tra la ragione di uno Stato che dice di
doversi “difendere” e il torto di una popolazione che l’opinione
pubblica definisce “terrorista”. Così ci siamo ritrovati fatalmente
dalla parte del torto: e non perché i palestinesi ne abbiano davvero.
Soltanto perché i posti della ragione erano già stati occupati da
Israele. Come i territori, i mass media, come le coscienze. Come i
salotti buoni del sistema internazionale, dove l’aperitivo delle grandi
alleanze politiche ed economiche ingoia i destini di milioni di persone.
E permette lo sterminio scientifico di un popolo che vorrebbe soltanto
vivere nella proprio terra mentre si riveste, senza provarne vergogna,
della veste di vittima il corpo di uno Stato assassino, fondamentalista,
spietato e sanguinario qual è Israele.
sabato 26 luglio 2014
Dalla parte del torto
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