venerdì 7 dicembre 2012

Hic manebimus optime



È strano come la morte faccia acquistare rispetto improvviso a ciascuno. Dignità che prima si era perduta. O meglio, che la società aveva sottratto indebitamente, non potendo capire, non volendo capire. Una ipocrita società paesana dove basta poco perché si riceva in fronte il crisma di bizzarria, la lettera scarlatta di una infamia sottesa e meschina che addita con spietatezza cameratesca, quando non con bizzoca patetica empatia di facciata, chiunque si allontani dalle piccole logiche dei più. Non capire. Schernire. Mostrare a dito, dare di gomito. Sia mai comprendere, intuire almeno.

Un caro amico è morto. Cause naturali, due righe in cronaca nera per la parodia di quello che dovrebbe essere un articolo di giornale, incerto se voler virare sul sentimentalismo da quattro soldi figlio della televisione pomeridiana per casalinghe o sul ricordo oggettivo, incapace però di mascherare del tutto la vecchia irrisione di un tempo. Di quando era ancora vivo. Di quando lo si vedeva in giro con la sua bicicletta avanzare, arrancare per decine di chilometri nella sua corsa solitaria verso il vuoto. Cause naturali dice il giornale. Cause naturali conferma il medico legale. Ma no, non muori per “cause naturali” a quaranta anni. Non così, non da solo, non nel soggiorno di casa tua. Non si muore così a quaranta anni. Non è giusto. Logico che accadesse, a volerci pensare, anche se il cinismo della logica non spesso si accompagna al senso di giustizia che dovrebbe esserci innato. Perché per quanto ci sforziamo di negarlo non siamo fatti per rimanere da soli. Per quanto la misantropia possa cementare i mattoni di una solitudine cercata giungerà il momento in cui anche il sentimento rinchiuso nella clausura più romita ambirà a respirare l’aria fresca di un affetto necessario. Una donna. Un uomo. Un familiare. Un amico. Anche un cane. Ma se la solitudine precipita dall’alto come fatale mandato del caso che domina ogni cosa. E se la tua vita diventa privazione quotidiana di forza, di nerbo, di sangue. Se ogni tuo affetto scompare, irrecuperabile, nell’abisso del nulla. Se la sera, chiudendo la porta alle tue spalle, ritrovi le ombre provvisoriamente messe a tacere dalla convenienza sociale a ricordarti ciò che era e ciò che non sarà mai più allora forse non passerà tempo che la presa alla corda sull’abisso precipite si allenterà fino a quando il senso di vuoto non ti inghiottirà in un vortice oscuro e irredimibile.

No, Giorgio non è morto per cause naturali. Si è lasciato andare. Non ha più voluto combattere una guerra impari per la quale non vedeva vittoria, né gli armistizi provvisori che pure cercava di firmare potevano motivare un esercito ormai sfiancato dalle pene della vita. Giorgio si è arreso. È facile per il giornalistucolo di turno fare “commossa ironia” sulla sua bicicletta: non passione, come l’articolo insulso recita, ma condanna e sola valvola di sfogo per un dolore riservato ma fin troppo radicato perché potesse essere strappato via, ormai, dalla sua anima. E adesso diventa difficile trovare le parole giuste anche per chi è abituato a vestire di scrittura il proprio pensiero e le proprie emozioni. Forse perché non esistono davvero parole giuste che possano spiegare ciò che è profondamente ingiusto. E se ne esistono io non ne conosco, davvero. Non so che dire, se non che Giorgio era una brava persona. Con i suoi limiti, i suoi difetti, ma una brava persona. E non meritava di morire così. Lo diranno in tanti adesso, ma adesso sì. Adesso sì che è facile. E adesso non so dire io, non ne ho l’autorità né la fede, se esista una giustizia divina. La tensione verso l’entropia. Una vita dopo la morte, un paradiso. Chiamatelo come volete. Ma se mai qualcosa dovesse esistere al di là di ogni pensiero razionale so per certo che adesso si trova in quel luogo. Perché d’inferno ne ha già vissuto abbastanza su questa nostra terra.

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