È strano come la morte faccia acquistare
rispetto improvviso a ciascuno. Dignità che prima si era perduta. O meglio, che
la società aveva sottratto indebitamente, non potendo capire, non volendo
capire. Una ipocrita società paesana dove basta poco perché si riceva in fronte
il crisma di bizzarria, la lettera scarlatta di una infamia sottesa e meschina
che addita con spietatezza cameratesca, quando non con bizzoca patetica empatia
di facciata, chiunque si allontani dalle piccole logiche dei più. Non capire.
Schernire. Mostrare a dito, dare di gomito. Sia mai comprendere, intuire
almeno.
Un caro amico è morto. Cause
naturali, due righe in cronaca nera per la parodia di quello che dovrebbe
essere un articolo di giornale, incerto se voler virare sul sentimentalismo da
quattro soldi figlio della televisione pomeridiana per casalinghe o sul ricordo
oggettivo, incapace però di mascherare del tutto la vecchia irrisione di un
tempo. Di quando era ancora vivo. Di quando lo si vedeva in giro con la sua
bicicletta avanzare, arrancare per decine di chilometri nella sua corsa
solitaria verso il vuoto. Cause naturali dice il giornale. Cause naturali
conferma il medico legale. Ma no, non muori per “cause naturali” a quaranta
anni. Non così, non da solo, non nel soggiorno di casa tua. Non si muore così a
quaranta anni. Non è giusto. Logico che accadesse, a volerci pensare, anche se
il cinismo della logica non spesso si accompagna al senso di giustizia che
dovrebbe esserci innato. Perché per quanto ci sforziamo di negarlo non siamo
fatti per rimanere da soli. Per quanto la misantropia possa cementare i mattoni
di una solitudine cercata giungerà il momento in cui anche il sentimento
rinchiuso nella clausura più romita ambirà a respirare l’aria fresca di un affetto
necessario. Una donna. Un uomo. Un familiare. Un amico. Anche un cane. Ma se la
solitudine precipita dall’alto come fatale mandato del caso che domina ogni
cosa. E se la tua vita diventa privazione quotidiana di forza, di nerbo, di
sangue. Se ogni tuo affetto scompare, irrecuperabile, nell’abisso del nulla. Se
la sera, chiudendo la porta alle tue spalle, ritrovi le ombre provvisoriamente
messe a tacere dalla convenienza sociale a ricordarti ciò che era e ciò che non
sarà mai più allora forse non passerà tempo che la presa alla corda sull’abisso
precipite si allenterà fino a quando il senso di vuoto non ti inghiottirà in un
vortice oscuro e irredimibile.
No, Giorgio non è morto per cause
naturali. Si è lasciato andare. Non ha più voluto combattere una guerra impari
per la quale non vedeva vittoria, né gli armistizi provvisori che pure cercava
di firmare potevano motivare un esercito ormai sfiancato dalle pene della vita.
Giorgio si è arreso. È facile per il giornalistucolo di turno fare “commossa
ironia” sulla sua bicicletta: non passione, come l’articolo insulso recita, ma
condanna e sola valvola di sfogo per un dolore riservato ma fin troppo radicato
perché potesse essere strappato via, ormai, dalla sua anima. E adesso diventa
difficile trovare le parole giuste anche per chi è abituato a vestire di
scrittura il proprio pensiero e le proprie emozioni. Forse perché non esistono
davvero parole giuste che possano
spiegare ciò che è profondamente ingiusto. E se ne esistono io non ne conosco,
davvero. Non so che dire, se non che Giorgio era una brava persona. Con i suoi
limiti, i suoi difetti, ma una brava persona. E non meritava di morire così. Lo
diranno in tanti adesso, ma adesso sì. Adesso sì che è facile. E adesso non so
dire io, non ne ho l’autorità né la fede, se esista una giustizia divina. La
tensione verso l’entropia. Una vita dopo la morte, un paradiso. Chiamatelo come
volete. Ma se mai qualcosa dovesse esistere al di là di ogni pensiero razionale
so per certo che adesso si trova in quel luogo. Perché d’inferno ne ha già vissuto
abbastanza su questa nostra terra.
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