giovedì 2 febbraio 2012

Marianesimo

Ieri a Sampieri c’ero.

C’era l’agricoltore dall’azienda in agonia taglieggiato dalla Serit. Il piccolo imprenditore strozzato dalla gelida burocrazia e incalzato dall’avidità di un sistema economico selvaggio. La casalinga arrabbiata, convinta che mai più avrebbe comprato nulla che non fosse siciliano. Lo studente curioso, il giornalista. Il padroncino con il camion dalle lucette multicolori, unico segno di discontinuità nella disperazione generale. Il ferroviere dal baffo libertario, sempre attento alla vitalità di un popolo esasperato. Il politico di professione mimetizzato tra la folla che cerca di recuperare la clientela perduta. C’era il pensionato, costretto dai tecnicismi vigliacchi di un governo macellaio ad arricchire le banche con il frutto del lavoro di una vita. C’era il disoccupato, senz’arte né parte, senza futuro né presente. C’erano i siciliani. C’ero anch’io.

I discorsi si intrecciavano rivelando ciascuno il proprio dramma personale. Ammettendo errori, perpetuando sbagli nell’egoismo più tristo e selvatico. Poi arriva lui, il Messia. Nervosi occhi azzurri che si guardano intorno, cappellino d’ordinanza, la rabbia in corpo. La folla lo accoglie con calore. I fedeli lo acclamano come l’uomo mandato dalla Provvidenza… Mariano Ferro, il forcone.

È inutile fingere che niente stia accadendo in Sicilia. È inutile minimizzare, sminuire, ridicolizzare. Bisogna innanzitutto capire.

Il Movimento dei Forconi nasce da un bisogno reale. La recessione avanza veloce e inesorabile senza che alcun provvedimento a breve termine sia stato preso dalla politica per dare ossigeno alle finanze spicciole di un popolo con l’acqua alla gola. La gente è arrabbiata, la gente è stremata. La gente pretende una soluzione ai propri problemi. Spesso ignora quale possa essere, ma la pretende lo stesso. A cosa servono i rappresentanti politici se non a risolvere problemi della collettività? Molti poi hanno sempre chiesto al politico di turno, dato il proprio contributo e ottenuto (briciole) spesso a danno di altri. Se quel meccanismo assistenzialista si è rotto, si deve pure poter aggiustare, no? La rivoluzione a rebours.

Il Movimento dei Forconi è un movimento populista. Il suo leader carismatico, Mariano Ferro, mescola sapientemente la concretezza contadina con gli strumenti retorici più fini riuscendo a trascinare le masse e a smuovere i sentimenti più viscerali della gente. Suo malgrado, Ferro sta diventando il novello Ducezio dei diseredati siciliani. Quelli per finta (ieri il numero dei SUV, di Bmw e di Mercedes si sprecava) che vorrebbero tornare a mangiare, e quelli per davvero che invece stanno morendo di fame. “Mariano ci dirà cosa fare” ho sentito più di una volta ieri, con un sussulto messianico che mi ha lasciato decisamente perplesso. Ferro è una personalità degna di attenzione la cui conoscenza andrebbe approfondita. Parte spesso da principi indiscutibilmente validi e idee eccellenti quali la promozione delle eccellenze agricole locali o la tolleranza zero per gli imprenditori che remano contro l’imprenditoria siciliana per loro tornaconto, il recupero delle accise sui carburanti siciliani, l’attuazione dello Statuto regionale. Il problema, però, è che talora giunge a conclusioni confuse o discutibili che sembrano voler soltanto cavalcare il malcontento popolare. Vogliamo che si rimetta in moto l’economia, vogliamo il lavoro: e chi non lo vuole? Vogliamo risposte. Oh bella, ma quali sono le domande?

Il Movimento dei Forconi sta raccogliendo un consenso di massa, trasversale e politicamente ingenuo. I blocchi che hanno paralizzato la Sicilia, indiscriminati, disorganizzati e autolesionisti, sono stati conseguenti alla mancanza di una coscienza politica consapevole nella maggior parte dei manifestanti. Così come le infiltrazioni politiche, criminali e mafiose, tristemente inevitabili in un movimento di massa che pure è stato attento a non farsi contaminare troppo dalle mele marce.

Il Movimento dei Forconi non è ancora un movimento rivoluzionario. La rivoluzione è un processo storico che necessita di analisi, programmazione e cognizione politica. Scambiare una rivolta di popolo per la rivoluzione significa veder precipitare le speranze e l’entusiasmo dei rivoltosi in un gattopardesco “cambiare tutto per non cambiare nulla” con i pochi soliti noti (e qualche ignoto) che si approfitteranno della buonafede di tutti gli altri. La rivoluzione deve precedere la rivolta: l’una dipende dall’altra, necessariamente. Non considerateli semplici sinonimi intercambiabili. Se il fuoco della lotta avrà acceso in ciascuno la fiammella di una coscienza e una di visione politica in grado di crescere ed irrobustirsi, lontano dagli errori del passato, allora il Movimento avrà vinto. E sarà stata una vittoria epocale. Diversamente, si sarà trattato di una jacquerie fallimentare in cui tanti Jacques Bonhomme si ritroveranno ancora più delusi e disillusi, certi che la lotta politica serva solo ad ingrassare i panciotti di qualche signorotto dalla parlantina fluida.

Il Movimento dei Forconi si appresta a diventare un partito. Anche se ancora non lo sa. O se lo sa, lo tiene nascosto ai più sprovveduti. Si urla a gran voce che tutti i politici vadano a casa per aver tradito il proprio elettorato ma nessuno preferisce chiedere che cosa accadrebbe se questi benedetti politici corrotti (ma chi li ha votati, infine?) tornassero davvero a coltivare il proprio orticello. Se hanno tradito il contratto elettorale a chi si rivolgeranno i forconi? Chi saranno i loro interlocutori? “Le istituzioni”, dicono. Ah no, troppo facile così. Ecco perché il movimento rischia grosso. Da una parte, se non si vorrà “sporcare” con la politica, rischierà di ritrovarsi invischiato con facce nuove nei vecchi meccanismi clientelari che hanno contribuito in larga parte ad impoverire il popolo siciliano. Dall’altra, qualora diventasse un partito strutturato, rischierà di mandare a palazzo dei Normanni il migliore dei Forconi che, in barba alle più oneste intenzioni, sarà destinato a diventare Forchetta come tanti altri in passato. Perché tutti i siciliani siamo uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri.

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