venerdì 6 ottobre 2006

Granaglie di storia - seconda parte

Andiam, andiam, andiamo a spicconar
La mattina comincia presto a Montecchio. Ogni giorno la chitarra malinconica di Nothing else matters – poi sostituita da Lullaby dei Cure – mi butta giù dal letto alle sei e trenta del mattino. Dormo poco e niente: mia abitudine. Essendo stanco dalla giornata di lavoro cado in coma dopo qualche minuto per poi risvegliarmi nemmeno mezz’ora dopo a guardare un orologio che sembra immoto. Così, non riuscendo a dormire, ascolto musica dal mio lettore mp3 fino a quando il sonno, quello vero, mi coglie alle prime luci dell’alba. Sono un insonne patologico, lo ammetto. Adoro la notte e il suo fascino, il silenzio e i lineamenti sfumati che avvolgono ogni cosa: se non avessi rispetto per gli altri ragazzi starei in giro per Montecchio a passeggiare fino all’alba. Allora mi appoggerei al bastione che si affaccia direttamente sulle colline circostanti e, acceso un bel sigaro gusterei il panorama, attardando il mio sguardo sui pennacchi di fumo provenienti dalla centrale elettrica di Bastardo – altra frazione di Giano dal nome decisamente inusuale… Gli abitanti vorrebbero cambiare nome alla frazione ma finora le menti illuminate del luogo hanno prodotto solo sostitutivi slavati come Villa Romana, Lignilia o l’altrimenti improponibile Termoelettropoli. Fossi in loro manterrei Bastardo: non si può dire che un nome simile manchi di potenza espressiva.


Niente passeggiata dunque. Rimango a letto, a dormire o ad aspettare il romor di squilla. Solitamente mi alzo per contendere il primato dell’occupazione del bagno a Santina, l’unica del gruppo che riesce a svegliarsi prima di me. Alberto invece dorme e si sveglia solo a causa del rumore che genero al mio passaggio. Beh, diciamo piuttosto ai sospiri di sollievo del letto e delle doghe. “Buongiorno… Che ore sono?” è la sua classica domanda. Riferisco l’ora e lui, fingendo di aver sentito dichiara assonnato per tre quarti “Mmm, ancora dieci minuti”. Alberto dorme. Diamine, non gli dà fastidio il mio respiro pesante… Ok, io russo un tantino. Diciamo pure che la quantità di decibel sviluppati durante il mio sonno può essere usata come casus belli per eventuali schiamazzi notturni e può talora dare fastidio agli altri, dove per altri si intendano le occupanti della stanza accanto... Scusate, capita a volte.

Scendiamo e chi è già pronto comincia a preparare la colazione. Caffé, latte, biscotti o qualche brioche, mi trovo costretto ad uniformarmi ai gusti degli altri visto che di solito faccio una colazione salata. Sono di quelli che mangiano di tutto e che, onnivori senza ritegno, finiscono con gusto gli eventuali avanzi della sera precedente: pizze, affettati, bruschette, se non mangio la carne è solo per un pudore residuo che ancora riesco a mantenere. La colazione dei campioni. Tuttavia avrei scoperto a mie spese che mangiare delle bruschette per colazione e poi andare a scavare sotto il sole è un’operazione che è bene evitare qualora non si vogliano consumare quantità d’acqua ritenute decenti solo per un cammello di qualche Tuareg. Fedele allo spirito di conservazione della materia inoltre metto da parte il caffé rimasto in modo da poterlo consumare in seguito. Tutto. Io solitamente non bevo caffé e tuttavia quando sono lontano da casa sento la necessità di ingollarne qualche bicchiere – quelli di plastica da 200 cc per intenderci: a me stranamente il caffé rilassa.

Terminata la colazione ci spostiamo sullo scavo con le auto degli archeologi: le ragazze vanno con Stefano ed Ilaria mentre io ed Alberto andiamo con il Conte Max. Il nostro scavo riguarda una enorme villa d’otium (forse che sì forse che no) posta sulla via Flaminia scoperta proprio dagli archeologi della Kronos. Ricca di materiali e di costose soluzioni tecniche, la villa doveva ragionevolmente appartenere a qualche arricchito che voleva ostentare il proprio status sociale raggiunto con tanta fatica. In pratica, un Totti dell’antica Roma.

Lo scavo si trova a pochi chilometri da Montecchio, località Toccioli: ogni giorno lasciamo le auto sul ciglio della nuova Flaminia e percorriamo a piedi la distanza rimanente attraversando un paio di campi. A metà strada, immancabilmente, ci attende la signora Noemia e la sua gentilezza estrema. Questa signora abita insieme al marito – del quale non ho mai compreso il nome e con lui un buon 92% delle cose che dice – in una casetta praticamente ai piedi dello scavo. Anziani contadini, persone semplici, affabili come non mai. Troppo, forse. I primi anni dello scavo la signora Noemia pretendeva che ogni giorno gli amici archeologi pranzassero insieme a loro. Donna d’altri tempi abituata agli stomaci forti degli uomini di famiglia, pensava di far loro cosa gradita cucinando piatti tipici della tradizione macrobiotica quali lasagne, tortellini, pollo arrosto, ragù di carni, porchetta, salsicce, pagliata, polenta. Immaginate poi con quale leggerezza e lucidità si andasse tutti sullo scavo… Per fortuna adesso la signora ci intima solamente di fare una pausa alle dieci e di salire su per un caffè – “Mica ve lo posso di’ io de sali’ ogni vorta, salite e basta”! Come già detto, io non bevo caffé, men che meno bollente quando fuori ci sono più di trenta gradi. Il primo giorno rifiuto gentilmente ed abbozzo una discussione kafkiana col marito di Noemia, discussione che avrebbe figurato degnamente nel carnet di qualche attore come pezzo per un teatro dell’assurdo. Domanda con forte accento umbro di lui – elaborazione del mio cervello – fallito tentativo di comprensione della dialettica umbra – mia risposta non necessariamente conseguente alla domanda – ulteriore domanda di lui legata alla questione precedentemente sollevata… La signora invece, informatasi del perché il ciccio siciliano rifiuti le sue cure, ha già pronto il contrattacco. Non sia mai. Il giorno successivo quindi, mentre gli altri gradiscono il caffé vedo arrivare al mio indirizzo una confezione di Estathè alla pesca.

Ora, io odio il tè alla pesca. Non lo reggo. E’ una di quelle sostanze che potrebbe scomparire dalla faccia della Terra senza che io ne rimpianga la mancanza. Eppure eppure. Eppure sarebbe stato scortese – diciamolo pure, inutile – rifiutare, anche alla luce del fatto che la signora aveva già provveduto a comprare un numero imprecisato di confezioni di Estathè. Mi guardo in giro e vedo che il marito della signora Noemia sorride urlandomi da lontano qualche frase incomprensibile, la signora attende una mia reazione… Capitolo. Consumo stoicamente il mio tè con la grazia di un’idrovora, i ragazzi terminano il loro caffé e poi si torna tutti sullo scavo.


Nazisti. Io la odio questa gente
Ormai dovrei essere abituato alle reazioni della gente alla scoperta della mia speranza lavorativa. Le sopporto da quando, incosciente giovincello fresco di liceo, decisi di optare per l’indirizzo archeologico della facoltà di Lettere. Di seguito offro un campionario significativo di reazioni tipiche.

Reazione n.1 - Famiglia
“Cosa hai scelto… Medicina?”
“No”
“Giurisprudenza?”
“No”
“Ingegneria?”
“No”
“…Economia e Commercio?”
“No”
“E allora?”
“Lettere Classiche, indirizzo archeologico”
“… … Ah… Mmm… Beh… Se ti piace… Contento tu…”

Reazione n.2 - Omnia munda mundis
“Cosa studi?”
“Lettere Classiche, indirizzo archeologico”
“E che cos’è?”
– segue succinta spiegazione –
“Ah, tipo architetto”.
“No” – segue spiegazione della succinta spiegazione precedente
“Ah, come un professore”
“Non esattamente” – segue semplificazione della spiegazione della succinta spiegazione di cui sopra
“Ah…Bello”

Reazione n.3 Come farsi odiare in maniera gratuita
“Cosa studi?”
“Lettere Classiche, indirizzo archeologico”
“E a che serve?”

Reazione n.4 Indy e sentimentalismi
“Cosa studi?”
“Lettere Classiche, indirizzo archeologico”
“Che bello! Allora vai in Egitto! Bello girare il mondo! Io ho sempre sognato blablabla… ogni volta che vedo i documentari blablabla…”

Purtroppo assai diffusa è la reazione romantica. Avvelenati da documentari ambientati in terre esotiche in cui gli archeologi sorridono sempre ed indossano sahariane pulite e ben stirate – in alcuni casi possono ancora vedersi le pieghe della stiratura – o dai film di Indiana Jones con tanto di frusta, gnoccolone e nazisti di contorno, la gente è portata a credere che il mestiere dell’archeologo sia davvero questo. Avventura, rischio, pericolo, tesori, ricchezza, gloria.

Eh, come no. Penso a questo mentre con Alberto grattiamo da un vano lo strato superficiale in modo tale da mettere in luce il piano di calpestio. Penso a questo mentre osservo le ragazze lavorare nell’ambiente della cisterna e gli archeologi andare di pala e piccone – turni, poi toccherà anche a me – o noi piegati nelle pose più inverosimili pur di non appoggiarci alle strutture o alla parte non ancora indagata. Perché la gente, corroborata anche dalla distorta visione documentaristica, pensa che basti fare un buco a terra magari con l’ausilio di un metal detector e gli archeologi trovano vasellame, oggetti preziosi, tombe, ossa, tutto bello pulito ordinato e pronto per il sorriso del National Geographic di turno.

Difficile spiegare di come uno scavo archeologico sia la conclusione di studi, confronti, ipotesi, ricerche documentarie, ricognizioni, lotte contro una burocrazia letargica e quant’altro. Un archeologo non va in giro a fare buche nel terreno, non combatte contro i cattivi di turno, non veste la sahariana ma le scarpe antinfortunistiche, non emigra nel deserto dal momento che l'Egitto possiede già degli ottimi archeologi senza bisogno di importarne dalle Sovrintendenze italiane. E a dirla tutta ogni ragazza, anche se carina, sullo scavo acquista il fascino di un muratore calabrese in trasferta al Nord. Un archeologo è prima di tutto uno studioso, un conoscitore delle testimonianze materiali e documentarie che, solo se fortunato o particolarmente tenace, riuscirà ad affrontare uno scavo. I soldi sono pochi, le autorizzazioni da parte delle Sovrintendenze difficili da ottenere e non è un’impresa facile nemmeno avere degli operai per i lavori di sterro più grossolani. Quindi spesso e volentieri l’archeologo scava in prima persona. Se su uno scavo vedete un tizio o una tizia sporchi, arruffati e trasandati fino all’inverosimile che, testa perennemente a terra, va avanti e indietro senza alcun motivo apparente come se fosse controllato da un’entità aliena allora avrete trovato un archeologo sul suo posto di lavoro. Un operaio erudito. Che spiccona, lavora di pala, tira via banchi di terra, svuota le carriole… Perché oltre a lavorare sotto il sole, a respirare terra, a sporcarsi e a faticare deve scavare con la testa, comprendere il motivo per cui uno strato si è formato in un determinato modo e cercare di raccogliere il maggior numero possibile di informazioni prima di asportarlo. Ogni scavo difatti è uno scavo distruttivo perché altera in maniera irreversibile una situazione che si era formata lentamente attraverso i secoli: compito dell’archeologo è registrare ogni informazione attraverso misure, quote, disegni, fotografie e stratigrafie limitando i danni. Ecco la differenza tra un tombarolo e un archeologo ed ecco perché i pezzi provenienti da qualche scavo clandestino recuperati dalle forze dell’ordine hanno un valore relativo. Senza il contesto un pezzo è solo una testimonianza muta, un pezzo bello da mostrare in museo o poco più.

Dimenticate inoltre quelle immagini tanto care ai registi di Hollywood di tesori ordinatamente raccolti e vasellame disposto con logica: tutt’al più un caso su qualche milione. Nella migliore delle ipotesi, visto che si tratta di crolli e di compattamenti la disposizione dei pezzi su uno scavo è bel un casino. I reperti interi sono rari e la norma è costituita da grandi quantità di terra mista a tegole, laterizi ed altri elementi architettonici… Solo dopo viene il resto. Tanti minuscoli pezzettini raccolti con cura, ripuliti, catalogati e poi incollati con un paziente e lungo lavoro. Ci si attacca ai pezzetti, ai frammenti, alle particole, sperando che la loro testimonianza possa ridare qualche rauco sprazzo di voce ad un passato che mai conosceremo realmente…

Una fantasiosa imprecazione di Stefano ci riporta sulla Terra e ci ricorda che è ora di pranzare.


“Soldato Palla di Lardo, perché non ti è permesso portare cibo in camerata?”
Gli amici archeologi non fanno che ricordarci di come il nostro trattamento – vitto alloggio varie ed eventuali – sia un trattamento di privilegiati. Saliamo il leggero pendio che ci riporta sul ciglio della strada sperando di non incontrare la signora Noemia – che certamente ci intimerebbe con la sua gentilezza di raccogliere un paniere di fichi o una cassetta di uva – e ritorniamo alle auto. Sporchi, sudati ed impolverati ci sediamo dentro quelle auto. Nonostante il Conte Max abbia foderato alla buona i sedili in modo tale che non si sporchino io rimango terrorizzato dalla possibilità che un simile evento accada. Immobile sul sedile davanti, ogni muscolo teso e controllato, attendo con impazienza che il nostro viaggetto di ritorno – non più di tre minuti – abbia fine. Scendiamo dalle auto e torniamo alla casa che gli archeologi hanno affittato per il nostro soggiorno a Montecchio.

Mentre salgo le scale rifletto sulla stramba enclave linguistica in cui mi trovo ad abitare. A parte il simpatico dialetto umbro e il suo accento che a tutt’oggi risulta essere per me inintelligibile non posso fare a meno di pensare che il nostro padrone di casa si chiami Decio. Noemia, Emore, Edelweiss – detta familiarmente Delvaise – sono altri individui che popolano il microscopico universo montecchiese: in una simile realtà un nome altisonante può servire ad accrescere la propria autostima? Mi rendo conto che sono semplici vaneggiamenti di uno stomaco affamato e attendo con ansia che i ragazzi preparino il pranzo... Sì, gli archeologi. L’anno scorso ero rimasto piuttosto perplesso: come, dei superiori che invece di allontanarsi dagli studenti ignoranti cucinano per loro, addirittura puliscono per loro?

Ed è per questo che sono tornato. L’atmosfera che si respira sullo scavo di Giano. Un’atmosfera informale, tranquilla, in cui gli archeologi non hanno tendenze superomistiche o sottilmente eugenetiche che aspirino all’annientamento degli studenti: solo degli amici con più esperienza che decidono di condividere le loro conoscenze con te, degli amici che ti trattano per lo più da pari. Difatti, a parte qualche regale scherzoso tentativo di isolamento dalla massa del Conte Max o le scintille tra Santina e Ilaria il nostro è un gruppo orizzontale, un gruppo di pari in cui una tiepida gerarchia di facciata regola i nostri rapporti. Piccole incomprensioni possono accadere, certo: Santuzza ha un caratterino niente male, e nemmeno Ilaria scherza – significativamente soprannominata da Stefano, il marito, la Iena –, talora vorrei sfoderare il più classico dei colpi di cric sui denti alla Guardia Rossa – figura di cui parlerò in seguito – per le sue differenze di approccio alle contingenze della vita: ma ciò non sminuisce l’armonia che questi giovani archeologi sono riusciti a portare e mantenere sullo scavo. Senza nulla togliere alla professionalità e al rigore scientifico, sia chiaro. Semplice umanità… A trovarla in giro.

Mentre il Conte Max affetta la mortadella e il prosciutto in cucina qualcuna tra le ragazze preferisce fare la doccia. Io e Alberto lasciamo cavallerescamente il posto a loro ricordando come “l’omo lavoratore ha da puzzà” e attendiamo il nostro turno parlottando del più e del meno. Io accasciato su un qualsiasi piano che riesca a contenere la mia mole faccio la conta di tutti i miei acciacchi di indolente topo da biblioteca mentre Alberto con le sue sigarette cerca di battere per quantità di fumo espulso la ciminiera della centrale di Bastardo che si staglia in lontananza. A volte si uniscono a noi Adriana o Maria Francesca mentre Santina preferisce stare al telefono. Semplice media statistica. Donna cyborg con telefono imbullonato alla scatola cranica trascorre una buona parte del suo tempo libero telefonando al suo ragazzo. Ormai tutti ne conoscono la professione – ballerino classico – perché oltre a parlarne ossessivamente nei momenti restanti Santuzza accenna di tanto in tanto ad alcuni autoironici passi di danza che dovrebbero mettere in mostra la sua figura slanciata. Alta un metro e qualche lattina, pur aggraziata nei movimenti, non si può dire che il suo posto sia tra le donnine in tutù del Lago dei Cigni. Propongo un adattamento, La pozzanghera delle quaglie che però non raccoglie troppi consensi entusiastici... Bah, io e il balletto, due pianeti differenti. (Santu’ lo sai che scherzo!)

Solitamente solo una o due persone riescono ad utilizzare la nostra doccia ad orologeria prima che un urlo dal piano inferiore annunci che il pranzo è pronto. Il pranzo. A parte il fatto di stringersi mediante compressione attorno al tavolinetto della sala da pranzo per far entrare tutti. A parte il fatto di abituarsi agli orari centro-settentrionali, mezzogiorno e mezzo al massimo, quando io non mangio prima delle due. A parte il fatto di pranzare in compagnia di Studio Aperto, programmino di costume, gossip e pseudo-società che solo un malato di mente può considerare testata giornalistica. A parte tutto, pur mettendo in campo la migliore ars dicendi e la retorica più fine diventa difficile nascondere alla tastiera del narratore di come il pranzo, per assortimento e quantità fosse alquanto aleatorio… Pranzo a sacco specificava il bando a onor del vero, e noi siamo coi piedi sotto al tavolino. Ma una mozzarella in nove, pomodorini, qualche fetta di pane, affettato e una pesca non è esattamente quello che a casa mia si definisce pranzo. Dei privilegiati si diceva. Forse per giustificare la micragnosità del pasto gli archeologi a tavola raccontano spesso delle loro disavventure gastronomiche su scavi a cui avevano partecipato in passato: un esempio per tutti Policoro, trasposizione in terra di qualche girone dantesco in cui si potevano scegliere o due panini o due tranci di pizza a pasto per tutta la durata dello scavo e in cui la doccia consisteva semplicemente in un tubo di plastica e un separè discutibile proprio di fronte alla fermata degli autobus. Acqua fredda naturalmente.

Pranziamo velocemente – ça va sans dire – commentando gli esempi di alta televisione proposti da Studio Aperto. Si potrebbe in tutta tranquillità prendere un’edizione di questo “telegiornale” e mandarla in onda dopo mesi senza che la gente si accorga della differenza. Notizie di cronaca spicciola che sfociano nel grandguignolesco selezionate tra le battute Ansa da qualche cugino sadico del mostro di Milwaukee, i servizi sul tempo – sempre insolito per le medie stagionali, o troppo caldo o troppo freddo -, gossip a iosa per mandare in brodo di giuggiole più di una casalinga ed infine un granitico punto di riferimento di ogni edizione di Studio Aperto che si rispetti. Le tette. Che una nuova guerra scoppi nel mondo o che un incidente nucleare inneschi l’irreversibile annientamento della razza umana nulla potrà impedire ai redattori di questo “telegiornale” di inserire un servizio in cui si mostrano le tette al vento di qualche starlette in cerca di notorietà.

Sparecchiamo mentre qualcuno tra noi lava i piatti. Pausa sigaretta per chi fuma, caffettiere sul fuoco. Il mio bicchierone di caffé freddo mi aspetta in frigo tra la riprovazione generale... Forse dovrei avere maggiore rispetto per ciò che rimane del mio sistema nervoso.


Lacerti d’universo ovvero "Che cazzabubbolo ce ne facciamo di un frammento di due centimetri"?
Alle due si ricomincia con il laboratorio. Stefano cura la parte più specificamente tecnica con lezioni teoriche sull’architettura che risulterebbero fin troppo accademiche se la sua verve da cabarettista e la simpatia – nonché una naturale propensione per l’imprecazione filologicamente accurata – non rendessero tutto più piacevole. Impariamo da lui i rudimenti del disegno ceramico cercando di ignorare le solenni e divertite prese per il culo dei nostri professoroni che osservano il misero prodotto dei nostri sforzi. Nessuna cattiveria, si sorride insieme. A Stefano toccano anche le lezioni sugli strumenti di misura antichi e moderni, il rilievo architettonico, la topografia e quella stramba operazione che nella scuola archeologica inglese prende il nome di survey. Vale a dire una passeggiata in mezzo ai campi alla ricerca di evidenze affioranti: cocci, frammentini, strutture, discontinuità sospette nel terreno e quant’altro. La Iena e il Conte Max, pur partecipando talora alle lezioni di Stefano si occupano delle lezioni sugli ambiti rimanenti. Redazione di schede U.S., restauro, pulizia e classificazione dei materiali… Inventario. Inventario. L’inventario, un’operazione così noiosa e ripetitiva che le catene di montaggio fordiste rappresenterebbero per noi un piacevole diversivo. Classificare i materiali, dividerli in mucchietti, controllare se c’è qualche frammento che attacca, descrivere ogni singolo pezzo, misurarlo e scriverne a china il numero per poi riporlo in un singolo sacchetto etichettato dai numeri progressivi dell’inventario e dalla U.S. di pertinenza… Alberto si abbatte sul tavolo alla notizia che quel determinato pomeriggio trascorrerà nella redazione dell'inventario, Francy resiste, stoicamente votata all'intelligenza del passato, Adriana mormora riprovazioni salentine, io gorgoglio frasi incomprensibili mentre lo sguardo di Santina comincia ad assumere la stessa sfumatura e vitalità del tossico in overdose. Chissà cosa direbbe Rufione, il proprietario della villa che stiamo indagando, se ci vedesse ripulire, catalogare ed impacchettare quella che lui avrebbe considerato semplice spazzatura e buttato senza tante storie.

[2. continua]

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