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sabato 2 giugno 2007

Con la berretta del cuoco faremo una bandiera

Immaginate una parata come quella del due giugno. Grandissima partecipazione popolare, esponenti politici. Una carrozza avanza lentissima cercando di farsi strada tra le ali della folla. Un uomo in camicia si avvicina alla carrozza, sale sul predellino, tira fuori un coltello nascosto dentro un fazzoletto rosso e tenta di uccidere l’occupante della carrozza... Comincia così il dramma umano di un poveraccio: Giovanni Passannante. Cuoco, anarchico. Un poveraccio che cercò follemente di uccidere re Umberto I impugnando un temperino barattato il giorno precedente con la propria giacca. Un uomo la cui storia dovrebbe essere insegnata in ogni scuola per ricordare a quale profonda barbarie possa giungere il potere.

Passannante. Bloccato immediatamente dal primo ministro Cairoli, ferito alla testa dalla sciabolata di un corazziere, arrestato, torturato per fargli confessare una inesistente congiura. Giovanni Passannante fu processato qualche mese dopo in un processo farsa di due giorni, celebrato davanti a un pubblico di nobili seduto in posti numerati e munito di binocolo per osservare meglio il mostro reo di aver attentato alla vita del re. A nulla valsero la dichiarazione del mercante che gli aveva venduto il coltellino, «buono solo a sbucciare le mele», le cinque perizie psichiatriche ordinate dall’avvocato d’ufficio (Leopoldo Tarantini, il quale nonostante il suo ruolo si comportò con grande professionalità), la tesi che le teorie mazziniane ed anarchiche avessero distrutto un fragile equilibrio mentale. Condanna a morte la folle decisione del giudice, poi mutata pietosamente in ergastolo dal re Umberto in persona.

Tanta pietà è bene ricordarla.

La madre e cinque tra fratelli e sorelle dell’attentatore, colpevoli solo di essere suoi consanguinei, furono arrestati già il giorno successivo all’attentato ed internati fino alla morte nel manicomio criminale di Aversa, la loro casa demolita e il nome del paese mutato da Salvia in Savoia di Lucania come atto estremo di sottomissione alla monarchia sabauda. Giovanni Passannante fu rinchiuso sull’isola d’Elba nella torre del Martello a Portoferraio in una cella alta un metro e quaranta (Passannante era alto circa un metro e sessanta), senza latrina, sotto il livello del mare, al buio e in totale isolamento, legato ad una catena pesante diciotto chili.

Tutto questo per dodici anni.

Fino a quando cioè l’onorevole Agostino Bertani ed Anna Maria Mozzoni, pioniera del femminismo italiano, denunciarono pubblicamente le terrificanti condizioni di Passannante e riuscirono a tirarlo fuori da quell’inferno. Ridotto pelle ed ossa, gonfio, glabro, dal colorito cereo, dai muscoli atrofizzati, quasi cieco e completamente impazzito fu trasferito al manicomio criminale di Montelupo Fiorentino dove morì il 14 febbraio del 1910. Dopo la morte non si ritenne il corpo degno di sepoltura “cristiana” (la leggenda vuole che qualche pezzo sia stato dato in pasto ai cani) e gli venne tagliata la testa in modo tale che gli scienziati lombrosiani potessero studiare accuratamente il cranio e il cervello di tale pericoloso criminale. Lo stesso cervello e lo stesso cranio che fino a qualche settimana fa stavano in vetrina al Museo Criminologico di Roma...

Permettetemi dunque, nel giorno in cui si commemora il referendum che tenne a battesimo la Repubblica italiana, permettetemi allora di ricordare un martire della follia monarchica e della crudeltà umana, un povero illuso che pensava di contribuire ad istituire la Repubblica Universale uccidendo il re, stupido simbolo dell'oppressione e del potere assoluto. Un uomo sopraffatto dalle sue idee ed ucciso – forse – solo per esse.

Giovanni Passannante. Cuoco, anarchico.

domenica 31 dicembre 2006

Sulla morte di una carogna

Giustizia è stata fatta esclama il re del mondo. Evento tragico sottolineano i baroni vaticani dimenticando l’articolo 2267 del catechismo che non esclude la pena di morte. Condanna unanime del mondo politico italiano a parte i cani rabbiosi della Lega – e mi perdonino i cani rabbiosi, per loro quella è solo una malattia temporanea.

Saddam Hussein, ex-dittatore iracheno è morto per impiccagione ieri mattina all’alba.

Sarebbe fin troppo banale ricordare che la differenza fondamentale tra un uomo e le specie animali dalle quali deriva sia la ragione. Millenni di evoluzione hanno trasferito su due piani diversi i concetti di giustizia e di vendetta. Giustizia è il pensiero che si fa legge, il maleficio di una punizione arbitraria mascherata dall’ipocrisia del recupero sociale, la certezza di una pietas per la limitatezza dell’agire umano che accomuna gli illuminati della nostra specie. Vendetta è la supremazia dell’istinto, la vittoria della rabbia, l’odio dissetato dal sangue del nostro nemico.

Atto legittimo la vendetta. Legittimo e comprensibile. Atto più che dovuto nel caso di Saddam se fosse stato ucciso da un altro uomo, accecato dall’odio e al di fuori di ogni regola di convivenza umana. Ma non così. Prostituire la legge alla causa dell’irrazionale e travestire di opportunità legale e di opportunismo politico l’omicidio di un altro essere vivente è stata una sconfitta della ragione e dell’essere umano, di colui che pensa, di chi non è più solo animale della specie homo sapiens sapiens. Anche se di fronte ad un regime sanguinario, agli arresti di massa, alla privazione dei diritti più elementari, alle torture spaventose, al genocidio di un popolo e alla morte della libertà non so come avrei reagito, non so quale sarebbe stato il mio giudizio se avessi provato sulla mia pelle ciò che ogni iracheno ha provato in questi decenni…

È così difficile rimanere uomini, a volte.