Ovvero di come certo femminismo etimologicamente superficiale
possa essere ancora più discriminante della discriminazione che pretende
di combattere
“La donna è la porta dell'inferno” ammoniva il
padre della Chiesa Tertulliano nel suo mai troppo celebrato De cultu foeminarum
(197-206), un trattato in cui l’autore, con la consueta acredine e la sanguigna
misoginia, pretendeva di ammaestrare le donne su trucco e parrucco,
abbigliamento e contegno. Poco importava se l’immagine che ne usciva era quella
deformata di un mostro voglioso, demoniaco e incapace di un qualsiasi atto
volontario se non quello di peccare e tentare, i cui effetti deleteri e le
nequizie proprie dall’infame genere potevano essere mitigate solo attraverso
pudicitia e castitas. Tertulliano, al di là del suo stile veemente, non fa
altro che trasferire nel suo trattato giudizi e pregiudizi pervasivi del suo
tempo. La donna come oggetto, strumento di procreazione. Mera res di proprietà
esclusiva di un marito che poteva disporne a suo completo piacimento. Ma non vi
sembri, questa, l’esaltazione di un retrivo bacchettone isolato dal mondo. Le
parole di questo padre della Chiesa sono solo conseguenza della misoginia
presente naturaliter in ogni società di stampo patriarcale che i monoteismi
hanno contribuito enormemente ad amplificare facendola discendere da Dio, e
quindi vincolandola all’attestazione di fede che ogni credente doveva
professare. L’uomo creato da Dio, la donna creata da una costola dell’uomo:
l’uomo inferiore e sottomesso a Dio, la donna inferiore a Dio e all’uomo e ad
entrambi sottomessa.
Non dovrebbe sorprendere perciò che una chiesa
paternalista, reazionaria e misogina, già colpevole per aver condannato
all’infelicità più abietta milioni di persone nel corso dei secoli attraverso
un efferato ed irredimibile senso di colpa, si trinceri tuttora dietro la
maschera di una morale sessuale capace di svilire e mortificare il corpo senza
alcun rispetto per l’individuo. Per la donna in particolare, vista ancora come
l’Eva tentatrice e la meretrice di Babilonia qualora non decida di
sottomettersi alle logiche dei padri in sottana e ad una società di riferimento
purtroppo legata ancora in gran parte ad ottusi schemi patriarcali. Non
dovrebbero sorprendere perciò le arroganti prese di posizione dell’ormai
famigerato don Corsi, il prete che ha affisso alla porta della sua parrocchia,
novello Lutero de noantri, l’articolo dell’altrettanto famigerato Pontifex su
donne, femminicidio e loro mancata autocritica che dovrebbero svolgere, a suo
dire, prima di gridare alla discriminazione e al vittimismo. La tesi è fin
troppo nota e tristemente ridicola, per quanto da molti ancora considerata
valida: non sono gli uomini ad esercitare violenza nei confronti delle donne
quanto le donne a provocare l’uomo con il loro atteggiamento privo di
continenza.
Inutile ricordare a questa gente che i tempi in
cui le donne erano proprietà privata di un uomo sono ormai stati fagocitati
dalle rivoluzioni di pensiero: almeno nella nostra società, che pretende di
aver raggiunto altissimi livelli di civiltà e di giustizia sociale. Non ci
riescono, non se ne capacitano. Non comprendono quanto sia assurdo esigere di
applicare oggi, senza alcun filtro e adattamento, quella morale biblica
modellata su una società arcaica dove le femmine si scambiavano con vacche da
pascolo senza troppi problemi. Vero è che siamo i figli di quella morale, e
alcune norme di comportamento sono certamente valide – non uccidere, fra tutti.
Ma è altrettanto vero, e dovrebbe essere superfluo ripeterlo anche a gente di
scarsa intelligenza, che non possiamo pretendere di interpretare il nostro
mondo con gli occhi e la testa di un pastore palestinese di qualche migliaio di
anni fa. Viviamo in una società “scristianizzata” è stato detto a sostegno di
queste posizioni reazionarie. Il problema più grave, semmai, è che viviamo
ancora circondati da un contesto “ipercattolicizzato” (passatemi il termine),
che si nutre di forme bigotte e bizzoche apparenze, in cui si applica una
morale all’estetica con la pretesa che questa sia collocata fuori dal tempo. È
triste pensare che la moralità di una donna sia ancora calcolata in base all’ampiezza
della sua scollatura e non in base alle sue azioni, così come è triste pensare
che ci siano uomini che considerano le donne solo in base alla grandezza delle
loro tette e non alla grandezza del loro pensiero. Ancor più triste pensare poi
che un uomo possa sentirsi autorizzato ad usare violenza nei confronti di una
donna per il fatto stesso di essere donna, essere capace solo di provocare e di
suscitare l’eccitazione sessuale in un uomo.
Capirete allora la ragione che mi fa ritenere
quale ulteriore discriminazione il termine femminicidio. Non perché ritenga che
un atto di violenza discriminatoria non debba essere punito con maggiore
severità – anzi, ma è ovvio, la cosa mi trova assolutamente d’accordo – ma
perché usare il termine femmina in un simile contesto non mi fa pensare ad una
persona padrona del proprio destino (come l’etimologia di donna insegna) che si
è rifiutata di sottostare ad un arcaico ruolo di subalternità e con la quale
ciascun uomo dovrebbe avere il piacere di interagire da pari. Femmina in un
contesto di violenza mi fa pensare solo ad un essere vivente complementare al
maschio: ad un animale utile, cioè, solo se in grado di perpetuare la specie
figliando ripetutamente al pari di una scrofa da batteria, nutrendo e
proteggendo la prole e soddisfacendo ogni desiderio del maschio dominante. E
non penso sia questa la considerazione che merita una donna.
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