venerdì 26 febbraio 2010

Google Trap

Mi domando se esista in qualche sperduta landa dell’universo binario dei motori di ricerca un algoritmo che faccia prendere consapevolezza alla macchina computatrice di sentimenti quali l’affetto, il dolore, l’ironia o il sarcasmo. Se sì, interessante sarebbe assistere alla reazione dei server di Google all’ironia di dover ricercare sulla ragnatela dell’informazione mondiale la notizia della loro stessa condanna. Giorno 24 febbraio, infatti, Oscar Magi, giudice monocratico della quarta sezione penale del Tribunale di Milano, ha condannato a sei mesi con la condizionale tre dirigenti di Google per aver consentito la pubblicazione di un video amatoriale, girato in un istituto tecnico di Torino, nel quale si vedeva un giovane affetto da autismo vessato da alcuni compagni di classe. Mancata tutela della privacy la motivazione. La tesi del pubblico ministero, accolta dal giudice Magi, è che diffondendo senza il consenso dell’interessato dati personali sensibili Google abbia violato la privacy del ragazzo.


Una sentenza storica, nel bene e nel male: probabilmente il primo passo nell’intricata questione delle leggi applicate alla Rete, spesso imprecise o sfuggenti anche per l’evidente analfabetismo informatico del Legislatore. Chi costruisce una legge o tenta di amministrarla “in nome del popolo italiano”, infatti, a volte ignora quale abissale distanza separi un motore di ricerca da un aggregatore di notizie, una chat da un social network, un blog da un sito d’informazione regolarmente registrato al tribunale. Un esempio per tutti è stata la sentenza scandalosa – almeno per il nostro “libero” Occidente – dello storico e giornalista freelance Carlo Ruta, condannato qualche tempo fa per stampa clandestina. La sua colpa? Aver aperto un blog d’informazione in cui pubblicava articoli e inchieste.


In verità è probabile che il Tribunale di Milano, cosciente della carenza legislativa, abbia voluto forzare la vicenda per creare un caso, stimolando nel Legislatore una riflessione più approfondita sul fenomeno e cercando una soluzione condivisa.


A discapito di chi ritiene che la Rete non debba essere sottoposta ad alcun vincolo ritengo tuttavia che nemmeno il mondo virtuale di Internet possa ignorare il principio di responsabilità nei confronti dei terzi: a maggior ragione se si tratta di minori, disabili, vittime di una violenza fisica e mentale. “La mia libertà termina dove inizia quella degli altri” è uno dei principi fondamentali nella filosofia del diritto: è vero che la libertà individuale non dovrebbe masi essere soffocata ma è altrettanto vero che questa non può sopraffare e limitare la libertà altrui. Ecco l’importanza della legge, questo male necessario ma indispensabile per regolare la convivenza civile e i rapporti tra individui. Di qualsiasi natura. Reali o virtuali.


Internet compreso.


Non si vuole con questo negare la matrice fondamentalmente libertaria di Internet – che anzi rappresenta la sua maggiore ricchezza – ma solo evidenziare le radici del diritto a tutela dei più indifesi. Il pericolo invece è che tali nobili intenti siano deviati dai luoghi comuni e dall’ipocrisia diventando subdolo strumento di controllo, laccio, bavaglio. Facile demonizzare Internet, facile invocare controlli miopi che rischiano di arrecare più danni che benefici. Non dimentichiamo infatti che solo successivamente alla pubblicazione del video si scoprì che i soprusi e gli atti di bullismo condotti ai danni del disabile erano quotidiani: paradossalmente, a salvare il ragazzo dalle vessazioni sono stati proprio quegli idioti dei compagni di classe che hanno deciso di pubblicare il video della bravata. Se non ci fosse stato Google probabilmente quel ragazzo subirebbe ancora oggi i soprusi, le botte e le umiliazioni di quattro imbecilli. Se non ci fosse stato quel filmato reso pubblico da Google nessuno si sarebbe accorto di niente: tante belle manfrine sul bullismo nell’indifferenza reale di quanti avrebbero dovuto essere preposti al controllo. Professori, personale di sostegno, preside. Dov’erano queste persone quando quel ragazzo riceveva botte e sputi?


Verba volant, video manent.


Quel video, a differenza del cicaleccio di educatori da strapazzo, dimostra senza possibilità di replica ciò che è accaduto. Pertanto, interroghiamoci sui guasti che potrebbe provocare un uso abnorme e sconsiderato della legge sulla privacy. Perché questa sentenza potrebbe spingere qualcuno a mettere paletti sempre più fitti che in nome della privacy soffocano davvero le libertà individuali e di informazione. Proteggere un disabile dalle vessazioni di quattro imbecilli è doveroso in un paese che voglia considerarsi civile. Cercare di nascondere le malefatte di un politico invocando – quando conviene, ovviamente – la legge non è difesa della privacy, ma spudorata e vergognosa ricerca dell'impunità.


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