martedì 20 maggio 2008

Le mille e una sorte

Quattordici, quindici anni al massimo. Era la prima edizione de “La fiera della Contea”, una manifestazione nata per promuovere i prodotti delle piccole aziende modicane e ormai da tempo degenerata in pubblicità spicciola e selva di stand noiosi ed anonimi. Andavo a trovare spesso mio fratello – self-made-man, imprenditore locale, il vincente della famiglia – il quale aveva uno spazio in fiera: appropriandomi indebitamente di un banner identificativo gironzolavo tra gli stand anche dopo l’orario di chiusura curiosando e cercando di scambiare quattro chiacchiere con gli altri espositori. Di solito, dopo una giornata trascorsa a dispensare sorrisi finti e salamelecchi gratuiti nella speranza di un acquisto, gli espositori si rinchiudevano in un silenzio assoluto fatto di stanchezza e di odio per l’universo conosciuto. “Questo è l’ultima volta! sentivo esclamare da individui stravolti e trucchi sfatti. Maniche di camicia, giacche stazzonate, posacenere da svuotare. Gambe gonfie, donne scalze coi tacchi riversi in terra. “Mai più! Troppo lavoro… Questo è l’ultimo anno!”. Ma tanto non era vero. L’anno successivo sarebbero tornati tutti.

Ricordo di averlo conosciuto così. Camicia a quadri larghi, riccioli fittissimi e baffo non folto eppure ben tenuto. Curava uno stand per conto della comunità maghrebina di Modica e stava rimettendo al proprio posto vasellame, ceramiche, tappeti, foulard, strumenti musicali insieme a cianfrusaglie di varia natura che sembravano andare forte in fiera. Ricordo che mi colpì la gentilezza e il tono della sua voce: bassissimo, come se fosse certo di essere ascoltato. Mohammed. Per la prima volta conoscevo un immigrato diverso dallo standard al quale ero abituato. Non avevo ancora raggiunto la maturità necessaria per comprendere la ricchezza della diversità. Una sola razza: quella umana. Facevo parte allora di quella schiera di persone che popolano l’Italia senza distinzione di regioni, sesso, età e cultura: razzisti sottili. Quasi inconsapevoli, direi. Che accettano chi è diverso da loro se è ricco, viene da turista, spende e spande, contento di farsi derubare onestamente dagli italici negozianti. Diversità che si accetta solo se belli o belle, raggianti, pieni di soldi e venuti da noi a divertirsi.

Come se il razzismo fosse anche un fattore estetico. Gli uomini e le donne che si trascinano nelle nostre città arrabattando le loro vite non sono fotogenici, salvo quando le loro foto compaiono sui giornali per illustrare qualche articolo di cronaca. Stonano, nell’organicità visiva che qualcuno vorrebbe e desidererebbe. Gli stranieri non sono rassicuranti. Li si evita. Si ha paura al solo vederli. Nominarli a volte. Lo straniero è diverso, pericoloso. Delinque, spaccia, ruba, violenta, uccide. Tutti così, senza alcuna distizione. E anche quando qualcuno si apre a loro ciò accade talora quel tanto che basta perché le coscienze possano essere addormentate.

Bisogna aiutarli… Poveretti, tirano a campare! Come se tirare a campare fosse stata la loro aspirazione quando hanno abbandonato casa, famiglia, terra, quando hanno lasciato la loro vita nei paesi d’origine portando con sé solo il ricordo della miseria e una folle speranza di miglioramento. E vengono da noi, alla ricerca di una dignità che nei loro paesi non avrebbero mai ottenuto. Immigrazione regolare, è vero, ma soprattutto immigrazione clandestina: tutti miserabili e senza diritto di parola, imbarcati di notte su carrette rugginose e fatiscenti, in partenza per paesi sconosciuti, con lingue sconosciute, masticate appena, rigurgitate da amici e parenti che già hanno vissuto per qualche tempo nei paesi della speranza… Per un futuro imprevedibile. Un futuro di tristezza, di sacrifici, umiliazioni. E per pochi, ancora pochi, un futuro d’integrazione.

Integrazione. Certo è difficile integrarsi per uno straniero in una società ostile e diversa dalla propria. Tahar Ben Jelloun diceva che lo straniero ha quella faccia disorientata di chi sembra volersi scusare in continuazione. Scusarsi con la gente che gli sta attorno, per la sua diversità, come se fosse una sbavatura della storia, un ospite ingrato… Considerate per un attimo voi stessi, consideratevi in un paese di cui non conoscete nulla, di cui ignorate la lingua, in cui persino l’alfabeto è diverso dal vostro: pensate di dover sopravvivere, di mettere radici. Pensate a tutte le vostre sicurezze, anche le più elementari, spazzate via con una folata di vento. Immergetevi in quelle vite sradicate – ma fatelo sul serio – e vedrete gli immigrati non più come una minaccia. Persone, punto. Brave persone, cattive persone. Delinquenti e gente perbene. Persone come noi, comunità di migranti la cui parte sana può davvero fornire nuova linfa alla nostra cultura...

Forse possedevo già la chiave per uscire dalla prigione del sospetto e del razzismo se mi sono fermato a chiacchierare con Mohammed: forse avevo solo bisogno di tempo per maturare maggiore coscienza critica e quest’incontro ha contribuito ad abbattere quelle barriere mentali che avevo eretto per convenzione familiare. Certo mi ha aiutato il fatto che Mohammed non fosse esattamente un immigrato come tutti gli altri. Stesso destino purtroppo, medesima sfortuna, ma diversa condizione culturale. Intellettuale, trilingue, Mohammed al suo paese possedeva una laurea in terapie riabilitative con relativa specializzazione: inutile, se è stato costretto ad emigrare dal Marocco e a raggiungere, da clandestino, le coste della Sicilia. Carta straccia in Italia la sua qualifica, dopo anni di fortune alterne è riuscito a trovare un lavoro stabile – operaio – che gli consente una vita onesta e dignitosa insieme alla moglie e a quella piccola peste del loro bimbo.

Di fatto non gli ho mai chiesto in che modo abbia raggiunto l’Italia: non voglio forzarne la riservatezza, non voglio forzarlo a raccontare fatti dolorosi… Non c’è ragione per nutrire la mia curiosità sulla pelle di un uomo. Mi basta sapere che da allora sono cresciuto anche grazie a lui, e che da allora ho un amico intelligente, colto, brillante e disponibile al dialogo. Quando ci incontriamo diventa difficile capire chi dei due sia il marocchino e quale invece il siciliano: se non fosse per la mia carnagione estremamente chiara sarebbe quasi impossibile distinguerci. Nel nostro sangue scorrono millenni di culture affascinanti che si sono scontrate ed incontrate e che hanno fatto grande il Mediterraneo e le civiltà che l’hanno abitato. Siamo simili, nati e cresciuti nell’immenso calderone di una razza unica e speciale. Siamo uguali: tutto il resto è solo pochezza ed aridità di spirito per uomini piccoli piccoli.

3 commenti:

Dyo ha detto...

E' vero. Tra l'altro penso che gli italiani non siano veramente razzisti, ma solo preoccupati, aggiungerei giustamente, da tanti e tanti episodi.
C'è che non sono tutti come Mohammed, Marco. Lui vive in Italia, si è integrato e ne rispetta usanze ed abitudini. Sicuramente ci sono tanti Mohammed, sparsi per il mondo, ma anche tante persone che, spiace dirlo, è bene che restino nei loro Paesi. Ed io, lo sai, non sono razzista.

Marco il Lunatico ha detto...

La preoccupazione è più che legittima e fondata. E nemmeno io sono, credo lo si intuisca dal post, razzista.

Come dicevo in maniera un po' scontata nel post esiste brava gente tra gli immigrati ma esistono anche dei criminali: in entrambi i casi basterebbe che venissero fatte rispettare le leggi vigenti. Nel primo caso per aiutare gli immigrati ad integrarsi completamente, nel secondo caso per arginare fenomeni criminali sempre più complessi e diffusi che in alcuni casi sembrano interessare solo stranieri.

Né razzismo né buonismo, solo razionalità e lucidità.

Ma siamo in Italia e sappiamo tutti come vanno le cose.

Carmen Sandiego ha detto...

Ed io sono d'accordo con entrambi.
Ciao Marco.