lunedì 6 novembre 2006

Trancio di vita in due tempi - Due etti e mezzo, lascio?

I
Accompagnare mia madre al supermercato il sabato mattina è una di quelle corvée da cui difficilmente riesco a liberarmi. Solitamente rimango in macchina a leggere, ad ascoltare musica o ad osservare la stramba congerie umana che si raccoglie intorno ai luoghi di procacciamento del cibo. Donne guidano i mariti – non più che propaggine ambulante di un portafogli o di una carta di credito – attraverso il terrificante rito della spesa settimanale e ritornano alla proprie auto con simil-traghetti che ad un attento esame si rivelano essere carrelli stracolmi di spesa; single con il triste sacchettino semivuoto che contiene surgelati, sofficini e tonno in scatola; pensionati con l’occhialino indagatore che entrano nel supermercato per poi trascorrere un numero imprecisato di ore dediti alla nobile arte della tetrapiloctomia pur di risparmiare qualche centesimo sulla spesa; operai che comprano il pranzo da consumare durante la pausa di mezzogiorno – l’intramontabile panino con birra familiare; i ragazzini che escono da scuola e comprano patatine e altre schifezze… Potrei continuare all’infinito.

Esiste poi un’altra categoria: l’acquirente schizofrenico, che riassume ed ingloba tutti gli aspetti delle categorie possibili e li fa affiorare variamente combinati, per capriccio del caso. Mia madre è un acquirente schizofrenico. Talora compra folli quantità di cibo giustificandone l’acquisto con le offerte speciali, tal’altra scruta con ragioniera taccagneria una differenza di dieci centesimi tra due prodotti simili; talora sembra essere passata al salutismo o al vegetarianesimo più intransigente, tal’altra spinge innanzi a sé un carrello pieno di schifezze alimentari che la convenzione di Ginevra ha da tempo definito armi di distruzione di massa; talora mi chiede di scendere per aiutarla a prendere “una cassetta d’acqua, è pesante da portare”, salvo poi trascinarmi in un tour fatto di illogici andirivieni all’interno del supermercato, tal’altra mi dice di rimanere in macchina perché deve prendere solo “due cose” salvo poi ritornare con un carrello pieno fino all’orlo corredato da due o più cassette d’acqua:

“Ormai che ero entrata…” mi dice.
“E l’acqua?”, le chiedo “Non era pesante da portare stavolta?” aggiungo con una punta di sarcasmo.
“Non ti volevo disturbare” è la sua risposta disarmante. Fortuna che ho una personalità quasi equilibrata.

Mia madre non compra le cose perché sono finite, le compra in previsione di un loro futuro, lontano esaurimento: ciò provoca un accumulo di provviste in quantità tali da poter sopravvivere agevolmente ad una guerra nucleare. Ha poi dei principi merceologici da cui non transige se non per gravi e motivate ragioni. Fissazioni, diciamolo pure. I discount sono delle perversioni tedesche da cui è bene stare alla larga, le uova non si comprano al supermercato perché non sono mai di giornata, la carne si compra solo dal macellaio di fiducia che sa bene quale taglio darle – viste le dimensioni delle fettine che porta a casa credo siano bistecche di bisonte –, la ricotta si compra solo se si conosce chi la produce e in che modo, il dado da brodo è una diavoleria inventata per traviare la buona cucina, lo yogurt fa schifo – apodittico.

Conosce tutti i commessi e le commesse dei supermercati che frequenta – sì, supermercati, perché in uno si va per il prosciutto buono, in un altro si va perché vende la confezione di detersivo da cinquemila misurini, in un altro perché l’ortofrutta è migliore, in un altro ancora perché la cassiera è figlia di una sua amica…– e riesce ad intrattenere interminabili discussioni con perfette sconosciute sulla giusta dose dello zucchero per una cotognata più delicata. Quando la accompagno nel suo tour percorriamo l’equivalente di qualche miglio all’interno del supermercato alla ricerca spasmodica dei cibi più improbabili fino a quando, grazie a qualche divinità imperscrutabile, arriviamo alle casse con il nostro carrello ricolmo a dovere. Solitamente piomba alle nostre spalle la sconosciuta di prima e ricominciano le discussioni su alta cucina e cotognata. Di solito io impreco mentalmente nelle lingue dei Profeti o mi distraggo lanciando occhiate alla cassiere più carine che con voce atona ripetono carta? carta? carta? Ha la carta signora?

Usciamo ondeggiando tra la folla e proprio in macchina un’agnizione improvvisa scuote il mio torpore da prostrazione consumistica. “ Abbiamo dimenticato l’acqua!” dice con voce stridente. “E va bene, poi la compro io durante la settimana. Ormai non mi aiuti più, non mi fai ricordare niente… Come sei cambiato, da piccolo non eri così!”. Ritornano le lingue dei Profeti.

II
Sabato scorso rimango in macchina. Niente libri con me, i miei cd dimenticati a casa, nemmeno troppe persone da osservare in un delirio da etologo dilettante. Guardandomi intorno tuttavia mi accorgo che l’intero marciapiede antistante il parcheggio del supermercato è occupato da vasi in terracotta, tappeti e rose del deserto: parcheggiato accanto il furgone dell’ambulante che ha ricreato questo microbazar a scapito dello spazio pubblico. Un uomo sulla quarantina, alto e in carne, dai tratti decisamente mediorientali che vigila sulla sua mercanzia e passeggia impaziente in attesa di clienti. D’un tratto si dirige verso il furgone, accende il motore e va via: solo allora mi accorgo che ha lasciato a guardia dei vasi quello che credo essere suo figlio. Un bambino, avrà avuto otto, nove anni al massimo. Chiaramente orgoglioso della responsabilità di una simile investitura comincia a spazzolare i tappeti con veemenza e cambia disposizione a qualche vaso in modo tale da renderlo maggiormente appetibile ai potenziali acquirenti. Dopo un po’ si ferma un furgoncino da lavoro con a bordo due ragazzi: una volta scesi cominciano ad osservare i vasi esposti e a chiedere con insistenza al bambino i prezzi di ciascun vaso. E’ chiaro che vogliono fregarlo e approfittare della sua giovane età. Dopo aver gironzolato attorno a diversi vasi focalizzano la loro attenzione su una enorme giara in terracotta con ingubbiatura giallina... Una bella giara, se non fosse per un buco piuttosto evidente all’altezza della spalla. Con la scaltrezza di una faina mesopotamica il bimbo, accortosi del buco, vi appoggia la mano e lo copre lestamente prima che i due ragazzi possano accorgersene. Dopo aver contrattato un po’ con la sapiente maestria di un mercante di suq il bambino riesce a vendere loro la giara e ad intascare i soldi senza che i ragazzi – forse non esattamente delle aquile – si avvedano del difetto. Li guarda allontanarsi con la fierezza di un uomo consumato che ha appena concluso il primo affare della giornata.

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