Caro amico renziano (perché mi sei amico, non fosse altro per una preistoria ideologica che ci accomuna), io vorrei tanto essere “di sinistra”.
Davvero. Mossi i miei primi, ingenui passi nella Sinistra Giovanile
seguendovi nelle divinizzazioni dei vari D’Alema, Prodi e Fassino per
abbandonarvi polemicamente quando mi accorsi che tenevate più alle
poltrone che alla realizzazione di un programma. Virai dunque in
direzione della sinistra “radicale” e per anni mi sentii a casa:
programmi e utopie, istanze progressiste, collettività e impegno
politico furono i miei punti di riferimento. RC, PDCI, SeL (già con seri
dubbi). Presi parte anche ad uno sciagurato esperimento civico
naufragato in tutta la sua miseria e limitatezza.
Seguendo da
vicino i miei rappresentanti politici e catalogando le continue
scissioni dei partiti di riferimento – e questo fino all’impalpabilità
nucleare – mi resi conto tuttavia che il marcio aveva raggiunto anche la
minoranza della sinistra nella quale avevo creduto. O forse c’era sempre stato il marcio,
solo che ero così affascinato dall’ideale che dicevano di rappresentare
che non avevo voluto scorgere in essi ciò che in realtà professavano.
Era
una lotta sorda e ipocrita, perché mascherata, per la conquista di
inutili pezzetti di sovranità impopolare. Per il raggiungimento di un
mirabolante 0,2%. Come nel PD anche nella sinistra “radicale” tutti
volevano diventare la classe dirigente del futuro, tutti aspiravano ad
essere i leader in una lotta suicida fra capetti arroganti mentre il
Paese naufragava intorno. Cambiavano le sigle ma non le facce, e se pure cambiavano le facce le teste rimanevano le stesse.
Giovani vecchi, burattini di cariatidi ammuffite per le quali ancora si
intravedevano i fili attaccati ai propri eredi. Li abbandonai poco
prima che scomparissero, fagocitati da una legge elettorale indegna e
cancellati dalla loro stessa incapacità di capire il “popolo” dei quali
si pregiavano di essere rappresentanti.
Caro renziano, per
quanto la cosa potrà sconvolgerti approdai all’ideale libertario.
Signora Libertà signorina Anarchia. Che non è caos come pensi tu con una
certa semplificazione ma assenza di padroni o gerarchie costrittive.
Secondo l’anarchia il potere non può rappresentare il fine per reggere
questa società o peggio ancora lo strumento che porti ad una fantomatica
rivoluzione proletaria. L’ideale anarchico non sostiene la
libertà di fare tutto ciò che si vuole, anzi: nessun sistema politico è
più calibrato dell’anarchia, che disprezza fortemente l’egoismo e
incoraggia l’individualità nel rispetto del singolo. Anarchia è azione,
e non immobilismo politico come mi accusi con un senso di superiorità
quasi messianico copiato direttamente dal tuo leaderino di cartone. Al
contrario di quello che pensi, infine, nella tua testolina nutrita a
pane e “senso di responsabilità”, l’ideale libertario non persegue uno
sterile insurrezionalismo inutile e controproducente in un momento storico quale il nostro.
E questo non perché lo Stato e i suoi complici non meritino di essere ridotti in minuscoli pezzettini, ma perché sarebbe ridicolo pensare che la violenza di una bomba possa spingere il popolo a fare i conti con il sistema.
È necessario che ciascuno faccia prima i conti con i propri limiti e
con i limiti della società che ha contribuito a creare: ma anche allora
le bombe sarebbero superflue perché basterebbe la coscienza
dell’individuo per fare collassare questo sistema malato.
Religione? Romanticismo politico? Utopia? Certamente. Ecco perché è indispensabile accompagnare l’idea anarchica alla prassi socialdemocratica.
Possiamo distruggere ogni cosa e passare la nostra vita a spalare
macerie, certo. Oppure possiamo accettare il male necessario della
democrazia e agire quotidianamente affinché la tarma dell’idea
libertaria intacchi i vostri sistemi ideologici così ben costruiti e
così rassicuranti fino a farli crollare sotto il peso delle loro stesse
contraddizioni. Vorrei ancora essere di sinistra caro renziano, davvero.
Ma se il prezzo da pagare è recitare la caricatura di un’ideologia in
nome di una supposta governabilità capirai allora, caro amico renziano,
se non ingoierò un simile tossico e se da questa vostra politica del
bilancino mi ritrarrò disgustato.
mercoledì 29 gennaio 2014
L’anarchia spiegata ad un renziano (nel tempo di un caffè)
Appunti per una fenomenologia della piccola politica
Assurde e inconcepibili in un mondo razionale dovrebbero essere le
ragioni che portano persone dotate di intelligenza a scegliere come loro
rappresentante politico una persona incapace di onorare il proprio
ruolo. Accanto alle buone intenzioni favolistiche della “grande”
politica alle quali tutti dicono di ispirarsi – quella scritta su opere
di infiocchettata utopia per capirci – emergono in questi indegni
rappresentanti altre più concrete e infelici ambizioni che nessuno di
loro ha tuttavia l’ardire di manifestare al mondo. Quasi diffondessero
chissà quali verità sconosciute ai più. Il potere. La tirannia del
singolo che elargisce a suo piacimento favori e benefici. L’esercizio
cosciente e continuato del privilegio per sé e per una congrega
strettamente affiliata.
Sono i mali della democrazia imposta,
un sistema di organizzazione che rivela tutte le sue derive dispotiche
qualora non sia accompagnato da una educazione alla vita associata che
illustri la convenienza di un principio comune basato sull’equità e la
giustizia sociale. Comandare è bello direbbe il buon Cervantes, anche se
si tratta di una mandria di bestiame. Che sia la presidenza della
Repubblica o il consiglio comunale del paesino più miserabile la
sostanza non cambia. Qualora non esista alla base della società l’idea
forte di una etica politica affiora la debolezza del “particulare” e
l’egoismo della meschinità quotidiana: l’arroganza e il malaffare sono
eletti a sistema, il voto diventa moneta sonante attraverso cui
acquistare l’affetto del governato, la rappresentanza politica soltanto
uno strumento per favorire la propria cricca di riferimento e l’ascesa
verso porzioni di potere sempre più ampio e assoluto.
È
la logica del “Lei non sa chi sono io” del piccolo democristiano dei
tempi che furono, o dei craxiani rampanti che dilagarono nei funesti
anni Ottanta lungo tutta la penisola. È il furore grossolano dei
separatisti più biechi, la viscida convenienza dei centristi o il
berlusconismo e le sue figliate assolutamente impermeabili al concetto
di legalità che muovono i fili della vita comune coi guasti che è
possibile osservare quotidianamente.
A Modica ora più che mai si aggira lo spettro di questa piccola politica e
della moralità annullata e sostituita da un moralismo di facciata vuoto
ed ipocrita. Che non si limita soltanto ad alcune personalità
pubbliche, badate bene, perché ha ormai infettato buona parte della
nostra società senza che si riesca a trovare un vaccino adeguato per
guarire da un simile male.
L’amministrazione di Abbate
vorrebbe riportare la città ai fasti di facciata del regno di Torchi.
Con una differenza: non possiede vacche grasse da mungere come allora né
ha la “fantasia” amministrativa del suo modello ideale. Sia ben chiaro,
continuo a pensare che l’amministrazione Torchi sia stata una rovina
per Modica: perché se da un lato si è registrata una innegabile effimera
crescita questa è andata di pari passo con il declino morale della
città – che in verità non navigava già in buone acque –, una
città che si è sentita autorizzata a considerare l’amministrazione come
un grimaldello per far saltare fastidiose “pastoie burocratiche” che
impedivano lo sviluppo (chiamiamolo così) del singolo. Senza
dimenticare la gestione disinvolta delle finanze pubbliche che ha
provocato quel baratro economico del quale ancora oggi paghiamo le
conseguenze.
Un’amministrazione, l'attuale, che naviga a
vista senza che si intraveda un progetto ben preciso per la crescita
della città che non siano le pezze temporanee sui vuoti istituzionali,
l’aumento miope delle tasse e una gestione della politica culturale che
definire grottesca è un eufemismo, orgogliosa com’è di luminarie
natalizie visibili dalla Luna e panchine di cioccolato.
Nel piccolo governo prospera ovviamente il piccolo amministratore.
Parvenu della politica che può contare su una base non indifferente,
egli cavalca le onde del qualunquismo più infelice tenendo saldamente in
mano le briglie del populismo e dell’arretratezza culturale. Gente che
pensa che il razzista è solo quello che vorrebbe gli ebrei nelle camere a
gas. Poveracci di spirito che brindano alla scomparsa di un giornale
libero e insultano ministri della Repubblica senza rendersi nemmeno
conto (o peggio, malignamente, rendendosene conto e fingendo successiva
sorpresa alle reazioni) dei loro atti. Piccoli prepotenti che pensano di
aver diritto all’adorazione una volta entrati nelle stanze del potere.
Forse
alla base di tutto c’è davvero l’arretratezza culturale di una città. E
non stiamo parlando di titolo di studio. Quel mitico pezzo di carta
cioè, diploma o laurea che sia, conseguito da generazioni non tanto per
ottenere gli strumenti utili ad una migliore comprensione della realtà
ma solo perché in tal modo il politico amico, e l’amico dell’amico,
poteva sistemare questi giovinetti neoacculturati nella pubblica
amministrazione dietro una scrivania e un ruolo probabilmente
immeritati. Fino alla fine dei tempi.
La cultura va al di là del titolo di studio o dell’erudizione.
Non è il governo dei filosofi di Platone né la competenza del tecnico.
Non è l’abilità dialettica dell’imbonitore né la raffinatezza del gusto
artistico. Cultura non è sapere tante cose, o mostrare di saperne tante:
cultura è intelligenza, capacità di organizzare un pensiero e di comprendere la direzione di una società. Cultura è ponderazione e acutezza d’idee, è progettare una vita associata che superi, includendola, la propria esistenza, e che punti al benessere collettivo.
Non è il linguaggio forbito del professore di cui abbiamo bisogno per crescere ma la caparbietà intelligente
dei politici di razza, di gente che possegga gli strumenti per
amministrare e progettare un futuro. Di gente che faccia parlare di sé
per le azioni di governo e non per gli aggiornamenti di stato gretti e
sgrammaticati dei social network, degni più di un ragazzino
irresponsabile che non di un amministratore serio e competente.
lunedì 6 gennaio 2014
Favola
Alla fine del lavoro Formicaccia chiese al suo maestro Formicona un parere sul lavoro svolto. Formicona, con tutta la boria ed arroganza d’insetto che riteneva di essere importante ridicolizzò l’impegno di Formichina e convinse Formicaccia dell’opportunità di escludere la giovane formica dalla parte di merito del quale pure era degno. Solo uno zuccherino sarebbe bastato, un contentino e l’oblio. Chi era mai, alla fine, Formichina? E così fu: Formicaccia a braccetto con Formicona si appropriò ingiustamente di ogni merito davanti alla comunità festante. Formichina condannò il meschino opportunismo e la miserabile arroganza di Formicaccia e maledisse la gretta superbia di Formicona. Infine, non riuscendo a sopportare quell’ingiustizia, Formichina rivolse uno sguardo ai Saggi Padroni chiedendo come fosse possibile che nella loro infinita assennatezza non avessero compreso la maligna perfidia di Formicaccia.
Suonò la sveglia e Formichina si scrollò tirando le coperte sulle antennine. Cinque minuti ancora! Era solo un incubo, un incubo soltanto… Sorrise pensando alla bontà dei Saggi Padroni e all’amata città di Mirmidonia. Mai sarebbe accaduto nella loro comunità che il merito del singolo e la bellezza della cooperazione fossero scalzate dalla miseria del sentimento e dall’insolente avidità dei pochi.