domenica 7 marzo 2010

Sed lex mea lex

Quand’ero piccolo m’innamoravo di tutto. Ora di educazione civica settimanale, la maestra gentiliana con la bacchetta punitiva di dickensiana memoria: parole come democrazia, legalità, solidarietà, uguaglianza, giustizia e pur anche libertà farcivano concetti astratti tratteggiati d’immagini distillate dall’odiatissimo libro Cuore. Ancorché bambino, mal sopportavo l’eccessiva, melensa retorica post-risorgimentale di De Amicis e parteggiavo istintivamente per Franti. Exemplum irreale nella propria cattiveria luciferina, Franti resisteva ad una società ipocrita incapace di comprendere le sue ragioni. Era un ribelle, libero a suo modo, che nel mondo manicheo strappato dalle pagine di un libro per bambini e adattato malamente alla nostra società sembrava il più genuino tra tutti. Eppure intuivo, nella coscienza ancora candida di bimbo, che quei concetti impartiti a furia di bacchettate fossero la via da percorrere e non invece il fascinoso mondo senza regole di un bambino incompreso... Quand’ero piccolo m’innamoravo di tutto.

Giorni nostri. Si disvelano gli ideali. I concetti astratti di un tempo contenitori vuoti, scatole decorate da parole celebrative di un passato mai davvero condiviso. Giustizia, eguaglianza, legalità. Democrazia. Fiocchetti, nastrini che dovrebbero camuffare, incartato con la Costituzione usata a mo’ di carta regalo, un concetto che ha preso corpo nella più inquietante delle forme. Subdola macchinazione legalista, sottile furbata avvocatizia che maschera attraverso la forma politicamente corretta di un “decreto interpretativo” la sostanza di un regime ormai consolidato che prospera nell’indifferenza degli italiani.

Democrazia italiana: data del decesso 5 marzo 2010.

Perché “la sostanza deve prevalere sulla forma” come ricorda il mantra recitato dal presidente del Senato Schifani. E cioè che la legge è uguale per tutti, ma solo se questa non ci tocca direttamente. Nel qual caso, la legge diventa un gravame burocratico, un fastidioso orpello che limita l’abuso, impedisce il dilagare dell’arbitrio e il libero esercizio del proprio potere. Meno male che Silvio c’è. Con un Parlamento in mano e un’opposizione inesistente capace solo di abbaiare senza scopo o piagnucolare, il legislatore può imporre all’autorità giudiziaria l’interpretazione di una legge dello Stato nella maniera che più aggrada alla maggioranza di governo. Scopriamo perciò che non importa presentare una lista elettorale allo sportello competente entro il termine prestabilito, basta essere all’interno dell’edificio che ospita tale sportello. Anche alla macchinetta del caffè. Anche in bagno.

La giustizia, come ricorda la Costituzione, in Italia si esercita in nome del popolo. Delle Libertà. Mentre Napolitano, incardinato al suo ruolo di garante e incastrato da un decreto che nella forma non viola alcuna norma di legge, firma ancora, e ancora una volta. Obtorto collo forse, per evitare conflitti – magari ricordando le minacce a suo tempo avanzate da destri pelati del passato a regnanti piccoli piccoli – però convalidando la deriva autoritaria del nostro Paese. Relativizzando soprusi, legittimando una giustizia a due velocità. Una scelta difficile, sicuramente ponderata e della quale si assumerà le conseguenze nei confronti di ogni italiano.

Vero è che una competizione elettorale senza il partito che possiede la maggioranza di governo sarebbe stata anomala. Disgusta tuttavia la prepotenza dei suoi dirigenti e lo spregio delle leggi mostrato senza alcuna impudenza così come l’assoluto disprezzo nei confronti dei cittadini onesti che quella legge, invece, la rispettano. Perché se il cittadino medio spedisce una domanda per un concorso il giorno successivo al termine consentito, se non paga una multa entro i termini, se l’imprenditore medio inoltra documentazione incompleta ad un appalto pubblico, se la lista civica del paesino di montagna presenta firme false o dati errati all’ufficio elettorale la legge interviene ed esclude gli interessati in ragione della norma. Questo concetto nelle società civili e democratiche si definisce attraverso una sola espressione: rispetto delle regole.

Non dimentichiamo che l’unica ragione che aveva escluso le liste PdL in Lazio e Lombardia risiedeva nello stesso PdL. Non in un perfido complotto dei comunisti, non nell’ennesima manovra delle famigerate toghe rosse: solo il mancato rispetto delle leggi dello Stato italiano da parte di alcuni esponenti PdL. I quali, invece di ammettere le loro colpe davanti ai propri sostenitori spiegando i motivi dell’esclusione delle liste o di chiedere una soluzione condivisa alle opposizioni in base ad un pur accomodante interpretazione del principio di rappresentatività, schiumano arroganza, attaccano e ringhiano incredibilmente contro “la sinistra che voleva impedire a milioni di italiani di esercitare il diritto di voto”.

E allora, che lo esercitino davvero il diritto di voto, gli italiani di questo regime abbigliato a democrazia. Che si sveglino dal torpore nel quale sembrano essere piombati e che prendano coscienza di questa democrazia vuota, svilita, umiliata. Che lo esercitino davvero, gli italiani, il diritto di voto. Gli elettori delle opposizioni, spronando i loro rappresentanti o sostituendoli qualora questi si mostrino inetti all’esercizio delle loro funzioni. Gli indecisi, comprendendo quale squallida operazione sia stata condotta ai danni dello stato di diritto. Gli elettori del PdL, infine: gli elettori onesti che rispettano la legge, che non si rispecchiano nell’arroganza e nella prepotenza del loro partito, che tributano la repubblica italiana e la sua (ormai defunta) democrazia di un rispetto reale e non solo di facciata. Che lo esercitino davvero il diritto di voto, gli italiani.

Per non essere costretti a fare le valigie. O a tornare sulle montagne… Se non ora, quando?